Luciana Bozzo



Premessa
Ci sono molti modi per parlare della ‘città continua’ e molti sono i modi con cui si tenta di spiegare queste città, senza più confini, almeno visibili, e di capire come si sia giunti a questa forma ‘informe’ che sempre più caratterizza le città di tutto il mondo.
Il dibattito è interessante. Qualcosa di imprevisto si impone ad un tratto all’attenzione degli studiosi della città costringendoli a ripensare alle consuete categorie con cui fino a quel momento si è cercato di definirla. Il processo di trasformazione della città non è mai improvviso; la città non cambia o ‘perde forma’ dall’oggi al domani: cosa ha consentito questo progressivo scivolamento della città sul resto del territorio non ancora urbanizzato?
La città continua spaventa ambientalisti, ecologisti, spaventa le città minori che si sentono ancor più minacciate dalle città grandi che sempre più si avvicinano per inglobarle in un insieme informe, privandole del loro senso e significato specifici, in sostanza di quella identità locale a cui ciascuna città aggrappa il proprio futuro di città competitiva su un mercato sempre più globale.
Per molto tempo è mancata in alcune città più che in altre una vera progettualità urbana. È mancata la capacità di costruire una visione di città nel futuro.
Oggi, il pensiero più diffuso è che la città contemporanea sia molto simile a L’inferno dei viventi [che] non è qualcosa che sarà; se ce ne è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio.1
Siamo disposti ad accettare il rischio e in che misura? Per molti accettare l’inferno è stata una via obbligata e senza uscita pur di sopravvivere nei quartieri periferici.
C’è un discorso urbanistico affrontato da diversi esperti su una traccia in comune: la città continua; e c’è poi, un discorso locale specifico che legifera e cerca di regolare l’evoluzione urbana adeguandola ai diversi contesti.
La città continua, e ‘continua’ è un aggettivo, che definisce una realtà illimitata, ma è anche verbo. Nonostante il tanto dibattere su di essa, se viva o morta, se appagante per gli individui o ad essa nemica, la città prosegue la sua opera, continua il suo cammino e si fa soggetto e oggetto del proprio divenire. Il progetto urbano non si è mai compiuto nonostante la volontà di alcuni decisori, urbanisti, architetti, pianificatori e progettisti, perché, in realtà, la città è soprattutto opera dell’uomo, dell’uomo comune.
‘Città continua’, ‘città dispersa’, ‘città diffusa’ sono le categorie semantiche a cui si fa risalire la città; ognuna di esse coglie un aspetto specifico della città contemporanea.
‘Dispersione’ allude a questo particolare sperdersi della città contemporanea, sia fisica che simbolica, in un territorio vago e illimitato, la cui essenza non è in alcun modo percepibile, né conoscibile, né sperimentabile nella sua interezza. ‘Diffusione’ fa invece riferimento al riprodursi e moltiplicarsi di realtà urbane uguali in un territorio di cui si mantengono i confini, mentre ‘continuità’, infine, allude ancora ad una crescita senza fine, intesa, a volte, come un prolasso urbano incontenibile.

La città incompiuta
Nel tentativo di spiegare la tesi di una città in realtà incompiuta, nonostante il suo continuo riprodursi, moltiplicarsi, espandersi e anche aggregarsi a città della prima e anche seconda corona, è, forse, paradossale porre a confronto una città del meridione d’Italia, come è Bari, capoluogo di regione e provincia, città che mira a divenire metropoli e Los Angeles, città nord americana, città continua, sprawl urbano per definizione.
L’accostamento tra due città così distanti geograficamente, ma anche culturalmente, è sicuramente azzardato, ma poiché il fenomeno da indagare è la città continua, sembra importante spiegare tale fenomeno accostando tra loro una città, che da sempre è stata additata come città ‘diffusa, continua, dispersa’, il vero sprawl urbano, Los Angeles, e una città, Bari, in cui il fenomeno della continuità ‘continuamente’ si riproduce, nonostante i vari stratagemmi legislativi a livello comunale e regionale, per fermare la continua erosione del territorio ancora non urbanizzato.
Bari, la mia città. Potrebbe sembrare un uccello dalle ali spiegate, come alcuni sostengono, che si estende lungo circa 70 km di costa, in gran parte cementificata. In prossimità del porto nuovo un’estesa ‘piastra’, sempre di cemento, costituisce luogo di sosta per i TIR, carico e scarico di merci e passeggeri. Inferriate, edifici, sedi di uffici pubblici, nascondono la vista del mare per un buon tratto. Diversamente da altrove non c’è dialogo tra la città e il porto, le cui funzioni restano sempre quelle consuete di una delle porte della città, non la più importante.
Proseguendo dalla costa verso l’interno è immediatamente visibile un fitto tessuto edilizio che dalla città più antica si espande verso la città moderna, ad ovest e ad est verso i Comuni della prima corona. Al suo interno a stento si incuneano resti di campagna non sempre coltivata, sia in quartieri di un certo pregio, dove non mancano piccoli giardini curati, sia nei quartieri più trascurati, sorti per fornire alloggio ai più disagiati, dove questi residui di campagna incolta appaiono come inquietanti vuoti. La sua crescita, che ha visto nel tempo anche l’aggrega
zione di Comuni prima autonomi o aree appartenenti a territori di altri Comuni, non è stata sempre spontanea, ma anche il frutto di successivi piani regolatori che hanno cercato, fino all’ultimo – quello di Ludovico Quaroni degli inizi degli anni 702 – di regolamentare un uso e un abuso del suolo che vedeva competere differenti gruppi di interesse, mossi da differenti obiettivi: proprietari terrieri e imprenditori edili, governo locale e tecnici, nonché una minoranza di comuni cittadini,
appartenenti alle classi meno abbienti, che, attratti dalla possibilità di occupazione nelle prime fabbriche che si aprivano, si riversavano nella città, abbandonando la campagna.
In quegli anni 70 Bari poteva davvero pensare di poter divenire un’importante metropoli del Sud. Era scontata, non solo prevedibile, una ulteriore crescita anche demografica della città per la forte attrazione che cominciava ad esercitare, come città moderna, ospitale e, ora, anche industriale. Anche le sue architetture e il suo paesaggio mutarono in gran parte. Si demolì il vecchio per far posto al nuovo: si costruirono edifici ben più alti dei tradizionali 2, 3 piani; si abolirono
molti dei giardini interni alle corti per intensificare lo spazio edificabile; si costruì il nuovo porto, allontanando sempre più il mare dalla città con cemento, e si divorò gran parte della campagna per nuove residenze al di là della ferrovia. Nulla di originale e diverso dalla crescita di tante altre città. Si crearono nella popolazione man mano aspettative a cui mancano a tutt’oggi risposte: un sogno di qualità urbana, mai compiuto.
Quando si sorvola Los Angeles, prima di atterrare la prima volta, lo sguardo si perde all’infinito e il primo pensiero che sovviene è che, una volta dentro la città, sarà difficile non perdersi, impossibile conoscerla davvero.
Una volta giù, tra i suoi edifici, le sue strade sovradimensionate, i suoi grandi centri commerciali, ma anche i suoi piccoli spazi verdi privati che si affacciano non recintati sui larghi marciapiedi e i suoi ‘take away’, molte volte piccoli chioschi su importanti boulevard, ci si rende conto che lo smarrimento non è possibile e se ci si svincola dalla paura di essere aggrediti,3 cosa frequente, quando da una area protetta passi in una che non lo è, ti è chiaro che il perdersi non è possibile: cento città nella città che è anche essa una città mai compiuta.
Il collante in questo mix di architetture e spazi vuoti, di natura spontanea e addomesticata è la gente: uomini, donne, adolescenti, bambini, persone molto povere o molto ricche, di migliaia di etnie e razze diverse che continuamente cercano un equilibrio tra il convivere o farsi la guerra per vivere meglio o solo per sopravvivere e la città, nonostante le intenzioni dei policy makers di gestirla, organizzarla pianificandola, sfugge ad ogni controllo e moltiplica la sua essenzialità ai margini lasciati liberi dagli ‘have’ e gli ‘have not so much’ per una continua ri-costruzione di città.
La sua identità si declina in ogni area (Orange County, Beverly Hills, Armenian City, Hollywood e così via) in specifiche e distinte identità in cui il senso del ‘locale’ traspira non solo dai diversi stili architettonici, dai parchi e spazi verdi ai margini delle strade, ma anche dagli odori, dai colori delle abitazioni, dai diversi indumenti che ricoprono anche i clochard che dormono incauti su piccole pozze di erba o che rovistano nei cassonetti dei rifiuti.

Dal nord al sud d’Italia il discorso cambia, forse solo per le diverse dimensioni e in ciò che appare immediatamente all’occhio umano.
Montagne, fiumi, costa fermano la mano dell’uomo e la spingono, però, altrove. I confini, sia pure ormai solo amministrativi, fermano il prolungarsi, estendersi della città in appendici, ma la città continua alla ricerca di un sogno da compiere. Strade collegano centri prima autonomi e indipendenti al punto da rendere sempre più superflua la distinzione tra di loro; più conveniente affrancarsi da ogni velleità specifica e tentare un discorso comune per trasformare quelle che appaio no corollari informi, fisicamente e socialmente, in parti integrate di un’unica più grande città in attesa sempre di compimento. Esperti pianificatori ancora una volta danno avvio ad un discorso ordinativo di soluzioni molte volte esito di scelte collettive, ma anche soggettive, di comuni cittadini.
Una vista dall’alto mostra, però, sempre più, oltre il disegno compatto della città conchiusa, almeno nella visibilità del suo impianto più antico, una serie di rivoli di cemento, esito di battaglie tra gruppi di interesse, classi e comunità, ma anche traccia di abusivismo edilizio.
Il suo carattere non è dato solo da interessi speculativi, quanto dall’esercizio di un proprio diritto di proprietà del suolo o da esigenze abitative che negate, secondo i consueti canali di domanda di abitazione e tempi di attesa, trova nelle soluzioni anche artigianali, risposta più certa e più immediata.

Luoghi centrali e luoghi periferici
È da chiedersi se tale continuità sia solo fisicamente riscontrabile in un’erosione continua e costante del paesaggio naturale che inscrive in esso nuove forme e architetture o se la continuità, comunque intesa, sia condizione, in qualche misura inquietante della città contemporanea, così come molti teorici e studiosi presagiscono o ancora possa essere l’inizio di nuovi dinamismi evolutivi della città esistente, come molti governi locali prevedono possa avvenire stilando piani strategici condivisi.4
Per Geddes, la città è fatta di Atti, Fatti e Sogni, che continuamente si producono e riproducono ad opera di una pluralità di individui stanziali o anche nomadi per caso che sulla città lasciano comunque il segno della propria sia pure episodica e transitoria presenza. E, tra un atto, un fatto e un sogno, nel frattempo, questa città continua la sua opera costruttiva, anche se appare come sospesa in attesa di compimento.
Città incompiuta, non finita, mai finita per una continua inarrestabile mutazione, che spesso ha luogo prima ancora che atti e fatti siano compiuti e i sogni su di essa portati a compimento. Anche per questo essa fallisce in parte o in tutto le funzioni che è chiamata a svolgere, creando disagio, insicurezza, malessere urbani che, come sempre, è dato superare solo in stretta dipendenza da un potere di acquisto che consente di ritagliar
si della città la parte più congruente con le proprie pretese e aspettative, anche ingerendo parti diverse e più distanti di suolo.
I confini scompaiono, ma non necessariamente perché la città si espande, ma perché la sua identità e il suo carattere mutano.
In questo continuo mutamento, centro e periferia scambiano, paradossalmente si potrebbe pensare, il proprio ruolo. All’interno delle stesse aree centrali si formano chiazze degradate di periferia, mentre spazi di periferia, per alcuni completamente privi di qualsiasi attrattiva, acquistano per altri funzione di luoghi centrali.
Tutto nello sprawl, conferma Richard Ingersoll, può diventare centrale perché i flussi dello sviluppo non gravitano più intorno a punti fissi: ‘Questa periferica collezione di palazzi di media altezza, centro commerciale, zona residenziale condominiale, assomiglia a tante altre … nello sprawl un centro non è necessariamente centrale, anzi può essere in completa contraddizione con esso’.5 Singoli cittadini, individualmente o collettivamente, manipolano e soggiogano il territorio a quelle funzioni che ritengono prioritarie. E si fanno gioco di leggi e regolamenti edilizi, costruendo una città parallela, ma per loro più pratica e concreta.
Sono loro i fautori, i responsabili della città continua?
La vera città è costruita trasversalmente secondo percorsi utili alle proprie esigenze. La continuità urbana, viene tentata anche all’interno della città con l’obiettivo di coprire i vuoti e dare dignità urbana ad un numero imprecisato di aree periferiche, non necessariamente per collocazione geografica, quanto piuttosto per debolezza funzionale,
sociale, culturale, economica. Non di rado queste aree che pure insieme fanno parte di un unico territorio comunale, piccole città nella città più grande, non di rado travalicano i confini amministrativamente stabiliti per congiungersi ad altre piccole città con cui percepiscono affinità e con cui stabiliscono legami di necessità transitoria, da cui, infatti, in momenti successivi, si distaccano per raggiungere altri territori più utili alla propria storia in quel momento, cominciando a comporre un’altra città.
Lo sviluppo della motorizzazione, il crescere della mobilità grazie ai nuovi mezzi di trasporto, il disseminarsi nel territorio di servizi per il consumo o il divertimento hanno trasferito altrove parti di città, ma prima ancora che questo avvenisse, almeno riferendomi a quanto accaduto in gran parte delle città del meridione, è stato il mercato immobiliare a creare le prime spinte espansionistiche. Il desiderio di una casa di proprietà e, in alcuni casi, solo di una casa, invece di alloggi fatiscenti.
Da un lato, allora, la città ha partorito periferie per una popolazione debole economicamente, socialmente, culturalmente, dall’altra, invece, frammenti di città, anzi simulacri di città reale in ambienti studiati nel dettaglio per una popolazione benestante che tiene a stabilire tra sé e gli altri quella che da alcuni viene definita ‘la giusta distanza’.
Il processo di separazione delle funzioni urbane cominciato nell’800 (il mattatoio, il cimitero, l’ospedale) si porta a compimento con la città razionalista (la strada, la città della produzione, degli uffici, della residenza) per giungere oggi a quello che può definirsi urban sprawl.
La città si adegua a questa nuova condizione: da un lato il fenomeno dell’espansione urbana, del boom edilizio; dall’altro, le infrastrutture che invadono la città (fasci ferroviari, tangenziali, autostrade …).
L’infrastruttura nel tempo si specializza e crea le condizioni fisiche per una separazione – interruzione, frammentazione – delle parti e delle esperienze urbane.
In ogni paese ormai, sostiene Zygmund Bauman,6 la popolazione è una somma di diaspore. In ogni città di una certa dimensione gli abitanti sono ormai costituiti da aggregati di differenze etniche, religiose e di stili di vita dove la linea fra insider e outsider non è assolutamente palese.
Il dibattito sulla città continua richiede una risposta alla domanda: come conciliare le diverse aspettative? Come ritrovare una città che risponda ai sogni e non sia solo la conseguenza di atti e fatti anche improvvidi?
Nelle Città invisibili dice Marco Polo: ‘Viaggiando ci si rende conto che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città … I luoghi si scambiano forma, ordine, distanze, un pulviscolo informe invade i continenti … alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo di un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini …’.

LB

Politecnico di Bari

1. Calvino I., Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972.
2. È ora allo studio di esperti l’elaborazione del Piano Urbanistico Generale (PUG) che dovrebbe condurre ad un riassetto di tutto il territorio del Comune di Bari, considerando anche la sua aspirazione a costituirsi come città metropolitana. A tale fine è stato già definito un piano strategico, ora al vaglio degli uffici competenti della Regione Puglia. Cfr. www.Ba2015.org; www.regione.puglia.it
3. Mike Davis è uno dei più profondi e prolifici studiosi e scrittori su Los Angeles. Il suo Ecology of fear (1998) è da considerarsi una delle opere più interessanti sulla paura e l’insicurezza urbana. La riflessione da lui sollecitata su questo aspetto della città ha visto, successivamente, una produzione della ricerca in Europa e in Italia, molto ricca
sul tema delle paure urbane e su come queste abbiano costituito uno dei principi organizzatori della città contemporanea. Della scrivente Bari, città frontiera. La transizione oltre il margine, Bari, Progedit, 2003.
4. È convinzione dei Comuni del basso Salento, partiti con una pianificazione strategica di ben 66 Comuni, da cui dovrebbero derivare solo strategie di cooperazione, utili a stabilire nuovi equilibri tra territori f
orti e territori deboli.
5. Ing
ersoll R.,Sprawltown. Cercando la città in periferia, Roma, Meltemi ed., 2004.
6. Bauman Z., Le vespe di Panama, Bari – Roma, Laterza, p.14-15, 2007.

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