La crescente percezione che il mondo sia uno e interconnesso, si radica nei processi globalizzanti della tecnologia, che recano indubbi vantaggi ma non forniscono ragioni e significati per la coesistenza tra i popoli. Si rischia, al contrario, l’illusione che una maggiore disponibilità di mezzi e strutture comunicative da sola crei un mondo più umano e confortevole. Per assolvere questo ineludibile compito occorre mettere in comunicazione significati e universi antropologici, con i necessari confronti e persino scontri, da governare. Papa Francesco ammonisce chi siamo “di fronte all’urgenza di procedere in una coraggiosa rivoluzione culturale” (Laudato si’ 114); ed egli stesso aveva detto al Consiglio d’Europa (25 novembre 2014): “La cultura…nasce sempre dall’incontro reciproco. Volto a stimolare la ricchezza intellettuale e la creatività di quanti ne prendono parte. E questo, oltre ad essere l’attuazione del bene, questo è bellezza”.
Nelle linee orientative per la costituzione di un Parco Culturale Ecclesiale don Mario Lusek, direttore dell’Ufficio Nazionale della Pastorale per il Turismo della CEI, chiarifica il contributo non marginale che la cura pastorale di un turismo specifico, quello cosiddetto religioso, ha nei processi culturali del nostro tempo: “il turismo è la ricerca di un significato quando la vita ne è stata svuotata. Una ricerca di radici e di identità in un contesto culturale di perdita di identità. perciò sempre di più il turismo predilige mete come i luoghi che parlano di un senso forte, di un’identità sicura. L’auge senza precedenti del turismo ai luoghi religiosi è uno dei rivelatori più interessanti di questo disagio culturale”. Grande risorsa diventano allora “i beni culturali della Chiesa prodotti lungo i secoli e nell’oggi per un fine essenzialmente pastorale e come tali debbono essere mantenuti, tutelati, valorizzati” (Pontificia Commissione per i Beni culturali della Chiesa, Profilo 2,1). All’homo viator la Chiesa, infatti, offre attraverso l’arte, le immagini, gli arredi, gli ambienti (architettonici e naturali), le produzioni musicali, letterarie, le tradizioni, spazi di senso e di significato, occasioni di preghiera e di lode, percorsi di ricerca, di memoria viva, di trasmissione di valori.
Per “Parco” si intende un’area legata non solo al territorio geografico, ma anche alla cultura, alle tradizioni, agli stili di vita, alle esperienze religiose come risposta alle necessità di tutela, di valorizzazione nella sua specifica peculiarità storica, culturale, ambientale, economica, spirituale. E per Parco Culturale Ecclesiale di conseguenza s’intende un sistema territoriale che promuove, recupera, valorizza, attraverso una strategia coordinata e integrata il patrimonio liturgico, storico, artistico, architettonico, museale, ricettivo, ludico di una o più Chiese particolari. E’ un tessuto connettivo in grado di valorizzare spazi aggregativi e ricettivi, antiche vie di pellegrinaggio, iniziative culturali tra le più disparate, tradizioni radicate nella cultura e nella religiosità popolare.
Il Parco non è concepito, nondimeno, solo in chiave sociale, ma costituisce un fattore innovativo anche nella prospettiva del recupero e riuso del patrimonio ecclesiale, mettendo in relazione soggetti locali diversi e insieme interessati a dare un volto nuovo al turismo non vendendo un marchio ma producendo cultura e soprattutto “itinerari di senso”, facilitando la percezione dell’ispirazione evangelica all’origine del patrimonio medesimo.
Fui chiamato al compito di pastore di Acireale nel 2011, quando in Sicilia si facevano sentire ancora più duramente gli effetti della grave crisi economico-finanziaria internazionale, con il crollo dell’occupazione, i progressivi tagli nel settore pubblico, un’economia regionale inabissata. La fascia medio bassa della gente, ancora in grado di essere parte attiva della società e con responsabilità verso figli e istituzioni, entra in vicoli ciechi, che sembrano senza ritorno. Per non parlare della drammatica crisi dei giovani. D’altro canto mi sono ritrovato tra le mani, come tanti vescovi italiani, un patrimonio materiale e immateriale, mobiliare e immobiliare, talvolta trascurato o in via di desertificazione, perché escluso dal tessuto vivo della comunità credente.
Non è coerente con la trasmissione della fede affidata al vescovo immettere questa ricchezza in canali commerciale che rischiano di snaturarla profondamente, non consentendo peraltro alla stessa comunità cristiana di entrare nel processo rinnovatore del dialogo con il proprio passato, appropriandosene e risignificandolo nel presente in cui vive.
Sarebbe più comodo, in effetti, affittare o dismettere o affidare a imprenditori e gruppi economici buona parte di questo patrimonio, pensando di utilizzare i proventi per sostenere le attività catechetiche, liturgiche e caritative.
In realtà quando si guarda a esperienze pur economicamente e socialmente riuscite, si constata che la comunità si è impoverita, perché estraniata dalle sue radici la cui vera ricchezza consiste non nel possedere palazzi e manufatti preziosi, ma nell’aver inventato riti e pratiche, attraverso le quali esprimere la fede e per le quali era necessario impiegare l’ingegno, i mezzi, le risorse e le capacità aggregative per ottenere spazi e strumenti idonei all’azione da svolgere.
Ritengo che la via da percorrere sia quella di riprendere in mano l’eredità, custodendo senza ridurre a museo, perché in questo modo pure si bloccano i materiali e processi di cura, aggregazioni e produzioni comuni che danno vita a scambi intelligenti e coinvolgenti per i cristiani di oggi.
Riprendere in mano il passato è rinverdire l’adesione ai valori creduti, incarnandoli nel presente.
Inevitabile è poi lo scambio con l’intero tessuto del territorio nelle varie componenti, con le quali ad Acireale iniziamo a immaginare come creare alcune condizioni di sviluppo del territorio. Il tentativo di mettere mano all’opera, secondo il principio di Papa Francesco, la realtà è superiore all’idea, ci conduce per mano, facendoci vedere che ieri, come oggi, l’aver creato attorno al santo patrono una serie di iniziative rituali o le consuetudini invalse in una comunità religiosa si sono nutriti di quel che il tessuto sociale circostante sapeva inventare e produrre: dalla gastronomia ai vestiti, dall’artigianato all’agricoltura, dall’architettura agli arredi, dagli scambi commerciali e culturali alla complessità delle organizzazioni e degli enti interagenti. In altri termini, un intero territorio è entrato in gioco e vi rientra ancora adesso se la comunità ecclesiale non si chiude nell’essenziale di qualche attività caritativa, di culto e di educazione della fede, ma lascia traboccare senza fittizie barriere nella vita quotidiana della società le ispirazioni e le energie che riceve accogliendo il Vangelo di Gesù Cristo.
Se il territorio diocesano acese oggi sconta un impoverimento progressivo di cultura d’impresa e contemporaneamente s’indebolisce sia nelle istituzioni pubbliche sia nei corpi intermedi, mi sembra opportuno tornare a puntare sui settori primari che hanno impegnato e impegnano le sue migliori forze, come l’agricoltura, l’artigianato e le piccole industrie di trasformazione.
Sono questi i settori, sebbene non esclusivamente e certamente rivisitati nei metodi, che si adattano al territorio e alla cultura di cui ci siamo nutriti; sono le energie e le capacità manifatturiere da esse scaturite che abbiamo impiegato per vivere insieme, esprimendo la fede e i valori che teniamo in onore.
A essi i giovani possono tornare, sostenuti da una generosa attività di mentore svolta da alcuni senior che costellano il territorio.
Gli stessi sacerdoti, operatori primi dell’annunzio evangelico, non restano fuori da questi processi; per quanto non adeguatamente preparati a quest’attività, è opportuno che siano spinti ad ampliare l’azione pastorale tornando, come nelle migliori tradizioni siciliane, ad accompagnare fin negli estremi lembi della società gli effetti del credo religioso.
Il visitatore, a sua volta, turista o pellegrino, è invitato a entrare in una dinamica vitale da esperire, attraverso cui conoscere e lasciarsi investire dalla vita della comunità visitata.
Si penserà alle possibilità che progetti come il Parco aprono per contribuire allo sviluppo economico e sociale sostenibile del territorio, attraverso la generazione di un’economia di indotto ma anche offrendo concrete opportunità di lavoro ai giovani.
Il problema “lavoro”, difatti, sta molto a cuore alla Chiesa Italiana che attraverso il “Progetto Policoro” ha voluto offrire da tempo un segnale di attenzione soprattutto verso il mondo giovanile.
E’ altrettanto necessario rimanere attenti alla natura cristiana dell’attività generata dal Parco, poiché essa è ispirata e si nutre continuamente della luce di Cristo uomo nuovo, uomo redento e reintegrato nella dignità originaria.
Per questo la comunità cristiana può rigenerarsi tramite questo allargamento del suo respiro alla totalità del vissuto sociale, senza dualismi e separazioni tra fede e vita, tra cultura e Vangelo.