CHIESAOGGI ISSN 1125-1360 N. 108
DOI: 10.13140/RG.2.2.28740.88964
ABETI Maurizio (IT)
"Nella loro semplicità, gli edifici di Emil Steffann
possono anche sembrare anacronistici. Ma potrebbe
anche darsi che la loro inattualità
sia proprio la loro attualità".
Gunter Rombold
Un personaggio di spicco del Movimento architettonico liturgico tedesco (Liturgiche Bewegung) fu il grande architetto Emil Steffann (Bielefeld, Germania,1899 – Mehlem, Germania, 1968) che, pur se distaccato dal Movimento Moderno e operando con una sua personalissima autonomia linguistica rinnovata, contribuì con le sue opere a modernizzare profondamente la concezione tipologica dell’architettura sacra, tanto da essere considerato, unitamente a Dominikus Böhm, Rudolf Schwarz Martin Weber, Otto Bartning, e ad altri importanti architetti, “progettista di chiese[1].
La sua cultura architettonica liturgica (soprattutto quella assimilata attraverso la collaborazione diretta con Romano Guardini, eccezionale
teologo e liturgista che guidò il movimento giovanile cattolico tedesco Quickborn “Sorgente di vita”) sin dagli esordi si distinse per la particolare attenzione che rivolse verso la ricerca di nuovi significati (formali e simbolici) all’interno dei “codici” dell’architettura religiosa. Nel rapporto tra le componenti razionali e irrazionali che creano il fatto architettonico, Steffann teoricamente sostenne che anche se le forme di un manufatto accendono una suggestione emotiva, non possono essere valutate nel campo dello spazio sacro come un semplice fenomeno plastico poiché la loro massima e conquistata meta è nel sostenere funzionalmente e organicamente (e cioè non solo spiritualmente, ma anche praticamente) le richieste del tema liturgico. Ancora affermò:‹‹..noi non possiamo occupare lo spazio. Dobbiamo lasciarlo libero per tutti quei compiti che non conosciamo, che non possiamo conoscere, che non siamo in grado di immaginare…››[2].
Con le sue opere, per alcuni considerate minori -la bravura di Steffann non può essere rinchiusa dalle precisazioni misere di quella critica che ha valutato l’architettura sacra secondo un vago convenzionalismo o, ancor meno adeguatamente, nei confini di un inutile formalismo-, elaborò delle chiese che sono forse le più perfette, liturgicamente, del dopoguerra, investendo anche una importante influenza e invenzione formale.
Un concetto spaziale che, per ottenere una forma partecipativa all’azione liturgica, era basato sulla tipologia architettonica pseudo-centrale, dove il centro spaziale non coincideva con il centro geometrico dell’organismo realizzato. L’idea tipologica dominante, in tutte le sue opere, è data dal suo accentrare l’attenzione dei fedeli non sull’involucro murario (contenente), ma sullo spazio interno (contenuto), nel quale i partecipanti possono essere attori protagonisti e non semplici spettatori della celebrazione eucaristica.
(La Costituzione conciliare sulla sacra liturgia (1963), Sacrosanctum Concilium, recita testualmente:‹‹Nella costruzione poi degli edifici sacri ci si preoccupi diligentemente della loro idoneità a consentire lo svolgimento delle azioni liturgiche e la partecipazione attiva dei fedeli›› – SC 124 -)
Uno schizzo[3] (Fig. 1) centrato su questo problema fu di paragonare un edificio-chiesa, basato su una composizione stereometrica e caratterizzato da una tipologia planimetrica a tre navate, con una chiesetta di campagna definita da uno spazio sacro convergente sull’altare. Su questo confronto egli si domandava quale delle due chiese fosse la più moderna (progetto redatto con Rudolf Schwarz nel 1936, per la realizzazione di una chiesa cattolica a Berlino-Lichterfelde).
Propose, già prima, quindi, della riforma liturgica, la disposizione dell’assemblea in ampiezza innanzi all’altare (coram populum), sostituendola a quella, secondo la tradizione basilicale, in profondità con i banchi “a battaglione”.
Uno degli esempi più fedele di questa dinamicità liturgica fu la PfarrKirche St. Laurentius, München (Fig. 2) , che realizzò nel 1955, dove lo studio dell’organizzazione interna dell’aula religiosa vide abolita la struttura gerarchica della comunità convocata a sostegno di un nuovo spazio sacro unificato, compatto e raccolto (actuosa participatio). Uno schema tipologico che presentava una distribuzione dell’ambiente sacro non sviluppato su un asse del sistema cartesiano (navata centrale), ma riconosciuto da una ecclesiologia polarizzata sulla centralità spaziale (non geometrica), di cui l’altare è il suo segno fisico principale, e dove i fedeli possono partecipare alla celebrazione liturgica in cerchio intorno all’altare. Quindi è comprensibile che quest’altare, in cui tutte le sequenze formali dell’organismo interno dell’edificio sacro e l’attenzione dell’assemblea convergono, segni simbolicamente il ruolo sacramentale come cuore spirituale di questo corpo che è l’assemblea. Assume una configurazione di una mensa/tavola moderatamente bassa, che in un contesto simbolico invita al “banchetto nuziale escatologico” i fedeli, convocati dal Signore per la Santa Messa. La sua collocazione è studiata in una unità spaziale con i fedeli, quasi in un contatto fisico con essi lasciando, però, la possibilità di girarvi intorno (circumstantes) in una forma di aggregazione che ne favorisca la partecipazione attiva (La Sacrosanctum Concilium 124 recita: l’assemblea deve assumere l’immagine di una famiglia intorno alla mensa comune.).
Questo ordine “geometrico-spaziale” è presente anche in altre chiese di Steffann, in modo particolare in: Pfarrkirche St. Elisabeth in Oplanden-Leverkusen (1957) ( Fig. 3); Pfarrkirche St. Maria in den Benden, Düsseldorf-Wersten (1959); Pfarrkirche St. Helena, Bonn (1959 – 1960) (Fig. 4); Pfarrkirche St.Laurentius, in Köln-Lindenthal (1961) (Fig. 5)
; Filialkirche St. Hildegard, Bonn (1961 – 1963); Pfarrkirche St. Hedwig, Köln-Höhenhaus (1966) (Fig. 6) .
‹‹La chiesa “costruita con pietra viva”, secondo la proposta di Steffann per la processione del Corpus Domini del 1932 a Lubecca, dimostra quale posto di primo piano egli riservi al significato fondamentale, immediato ed elementare dell’azione umana, in questo caso alla celebrazione comune della liturgia. La gente si raccoglie attorno all’altare, lo circonda. Per Steffann le persone formano una comunità di credenti e non un assembramento di individui anonimi in occasione di un rito. Le azioni degli uomini sono per lui la ragione prima del costruire, inteso come una necessità di vita e non come il dar corpo a un’idea più o meno bella››[4].
Quindi, per questo grande architetto, lo spazio della liturgia è il luogo dell’assemblea sacra ed in funzione di essa viene progettato e organizzato, anticipando, come indicato dai principali documenti della normativa liturgica, le riforme del Concilio Vaticano II.
Come architetto avrà “subito” un’esperienza viva, concreta di fede, una tensione religiosa, che gli ha permesso di vivere gli spazi di tale esperienza e comprendere la vera dinamicità del grande Mistero liturgico e la qualità simbolica e formale della centralità del suo spazio sacro. Considerata anche l’impostazione semplice e riguardosa; la ricerca della chiarezza e purezza della qualificazione semantica dell’architettura dell’aula sacra e questa sua volontaria rinunzia ad ogni clamorosa emergenza di grandiosità: l’edificio-sacro come dimora terrena e non l’edificio-sacro come opera architettonica.
Quindi recepì un messaggio di grande e complessivo valore che l’ho portò a realizzare, defilandosi dalla corrente razionalista, chiese ispirate ad un ordine sia negli schemi tipologici, già accennati, che nel sistema compositivo; a ricercare nella scelta dei materiali e nei giochi di luce la trascendenza del luogo sacro. Una trascendenza non di tipo mistico, ma fondata su un nuovo modello di spiritualità: il coinvolgimento attivo da parte dei fedeli nel rapporto indivisibile tra liturgia e arte. Quindi ‹‹una “
architettura liturgica” contrapposta a una ” architettura devozionalistica”››[5], in netto anticipo alla riforma Conciliare.
Un altro segno caratterizzante i suoi edifici-chiesa è il sagrato, inteso non come un elemento compositivo di secondaria importanza ma un normale continuum dello spazio interno delle chiese. Concepito, nel rapporto con il contesto urbano, come un luogo apposito rispetto alla città, ma non di una scomposizione distributiva di essa o come cesura della sua continuità urbanistica.
Un’altra componente che giocò un ruolo fondamentale nelle chiese di Steffann è la luce. Essa diventa un elemento architettonico costruttivo capace di organizzare e temprare il “vuoto” dell’edificio-religioso: magnifica e rivela lo spazio, non più, quindi, impiegata come una manifestazione solo d’irradiazione luminosa, ma diventa la parte costitutiva dello spazio – come l’intensificare l’illuminazione sull’altare che favorisce il vivere di questo Mistero liturgico ed è palpabile in quasi tutte le sue chiese – (Fig. 7) .
Le chiese di Steffanncon la loro naturalezza ed “ospitalità”, tale da coniugare benissimo la composizione architettonica con la dinamicità liturgica, ci conferiscono un senso di pace proiettandoci nell’attesa del Cristo Risorto.
Così va recepita la forza intensa ed espressiva dei materiali in Maria in den Benden a Düsseldorf-Wersten (1959): ‹‹L’interno è semplicissimo; un semplice tetto inclinato poggia – senza alcun accenno di modanatura – su muri di mattoni altrettanto disadorni. Il soffitto, in pendenza dal cortile verso l’abside, lascia filtrare una lama di luce solamente dalla parte alta, offrendo una cornice raccolta alla “isola dell’altare” che emerge dalla parte opposta. File di banchi sono raggruppate una di fronte all’altra da entrambi i lati del presbiterio centrale…››[6] (Fig. 8).
A questa diligenza spaziale Steffann impiegò materiali semplicissimi e solidi come: pietre, mattoni in vista e legno, tenendo presente la concezione che ogni parte dell’edificio-sacro comparisse nella sua vera natura. In seguito alle distruzioni causate dalle devastanti ultime due guerre mondiali, riciclò e riutilizzò, per le sue costruzioni religiose, materiale proveniente dalle macerie o da vecchi fabbricati da demolire. Romanticamente dichiarò: quando questi ultimi ‹‹appartengono alla lingua del luogo non possono che esibirsi nella loro verità costruttiva, ossia nell’umile assunzione del ruolo loro affidato nella fabbrica della chiesa››[7].
Solo in alcuni casi ha impiegato materiale proveniente da cave, tipo calcestruzzo. Per l’utilizzo di quest’ultimo ‹‹Emil Steffann lo ha illustrato nei suoi scritti e disegni. Quando non c’erano più pietre dalle macerie…..e quando lo spazio richiedeva una disposizione più libera delle pareti con caratteristiche del materiale impossibili per le pietre tradizionali, ci si ricordava del cemento armato››[8].
-Anche l'”incontro” col cemento armato si presenta, nelle opere sacre di quest’artista, in una estetica elegante della delicatezza e della esilità.-.
Sull’impiego di questi materiali (poveri) affermò (in una relazione sul “Costruire in coerenza e fedeltà con i materiali”,1963): “Costruire in aderenza al materiale significa agire in conformità al principio costruttivo, infatti, bisogna sviluppare la modalità del costruire partendo dal materiale impiegato, bisogna realizzare la costruzione più adeguata al materiale di costruzione”.
‹‹Nelle opere e negli scritti, Steffann assume la materia costruttiva antica…come manifestazione poetica della coralità che si contrappone decisamente a qualunque rischio rappresentativo del sacro. Come nella tradizione medioevale la materia della costruzione non evoca lo spirito, ma la tensione della materia verso lo spirito. Così la materia stessa diventa preziosa protagonista di un processo che porta a identificare la casa della collettività con la comunità dei credenti.›› [9].
Così, le opere sacre di Emil Steffann non sono solamente un’originale composizione, con un proprio soggettivismo e creatività, ma sono certamente segno tangibile e visibile della presenza sacra nel contesto dove sorgono.
L’autenticità, la semplicità, l’accoglienza, il “rifugio”, sono le qualificazioni che rendono importante e famoso quest’architetto, che non includono, e sarebbe limitativo e riduttivo, un comportamento di rifiuto, di abbandono o di mancanza di estro e sensibilità, ma di una ricerca architettonica sacra di caratterizzazione dell’edificio-chiesa, in modo che la sua efficacia come mezzo sia associata all’uso liturgico, non a un valore estetico. Egli si richiama a questo ragionamento quando afferma: “L’azione è tutto, la forma è nulla” (Fig. 9).
Tutta la metodologia compositiva (la spazialità organizzata, gli elementi costruttivi dei particolari, dei dettagli, i giochi di luce innanzi detti, i “limiti” dei materiali accennati, ecc.) sfugge le sfrenatezze formali, per rilanciarsi in un’immagine d’insieme ricca di una significazione simbolica sacramentale capace di echeggiare non solo una qualità comunicativa, ma soprattutto una rivelazione.
‹‹Steffann, scrive Frédéric Debuyst, nel confronto con Rudolf Schwars, seguirà una linea molto più sobria, più omogenea, ma anche più densa e umana, e sicuramente più preziosa per la configurazione di una vera chiesa per il nostro tempo. Egli rimarrà sempre vicino al tema della chiesa-casa››[10].
La cosa più impressionante è che queste chiese sembrano far parte del paesaggio in maniera totalmente naturale e che questa loro “
aspirazione” alla continuità ambientale è dettata (con rapporti umani e proporzionati) da una volontà di liberarsi dal rigore tecnico del messaggio funzionalista dell’architettura.
Questi edifici-religiosi insegnano come un’architettura delle chiese possa essere dignitosa, moderna ed attuale, ed essere ciò nonostante fra le manifestazioni oneste e fedeli. La sua semplicità è una genialità, è un’autenticità: essere autentici significa di più che essere conservatori.
Note bibliografiche
1. Cfr., ADRIANO CORNOLDI, AA.VV., L’architettura dell’edificio Sacro, Officina Edizioni, Roma 1995, p.14.
2. GISBERT HULSMANN (a cura di), Emil Steffann, Akademie der Architektenkammer Nordrhein – Westfalen und Deutsche Unesco Kommission, Bonn 1984, p. 54.
3. GISBERT HULSUMANN (a cura di), Emil Steffann, Akademie der Architektenkammer Nordrhein – Westfalen und Deutsche Unesco Kommission, Bonn 1984, p. 54.
4. MANFRED SUNDERMANN, Il silenzio entro le mura. Emil Steffann e la sua scuola, in AA.VV., Architettura e spazio sacro nella modernità, Editrice Abitare Segesta spa, Milano 1992, p. 159.
5. ADRIANO CORNOLDI, Op. cit., p. 103.
6. G. E. KIDDER SMTH, Nuove chiese in Europa, Edizione di Comunità, Milano 1964, p. 182.
7. GIORGIO GARAU, La materia, in AA.VV., Adriano Cornoldi, op. cit., p. 63.
8. KARL JOSEF BOLLEMBECK, La progettazione delle chiese nella Renania – Westfalia dal 1945 al 1995 illustrata sull’esempio dell’Arcidiocesi di Colonia, in AA. VV., Chiese, città, comunità, SAIE Fiera Internazionale di Bologna
1996, Faenza Editrice S.p.A, Faenza (RA) 1996, p. 160.
9. MANFRED SUNDERMANN, Emil Steffann, nei periodici: Archives d’architecture moderne, Bruxelles 1981, pp. 47-55. (La nota bibliografica è stata tratta da: GIORGIO GARAU, La materia, in AA.VV., Adriano Cornoldi, op. cit., p. 61).
10. FEDERIC DEBURYST, Permanenza di un’architettura specificamente liturgica da Guardini ai nostri giorni, op. cit., Architettura e spazio sacro nella modernità, Editrice Abitare Segesta spa, Milano 1992, p. 57.
Abeti Maurizio
Graduate in architecture
Independent researcher
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