Ecologie contemporanee

Come coniugare la salvaguardia dell’ambiente con le nuove tecnologie producendo un habitat contemporaneo, quindi né nostalgico né punitivo? Ecco una domanda alla quale oggi progettisti di tutto il mondo stanno cercando di dare una risposta, che si preannuncia complessa perché mentre è abbastanza semplice proporre di ritornare alla vita di un tempo – ridimensionando quei dispositivi meccanici ed elettrici che a partire dai primi del novecento (i primi brevetti dell’aria condizionata risalgono al 1906 e l’aspirapolvere al 1902) l’hanno resa più confortevole – è molto più difficile prefigurare un modello di sviluppo sostenibile, in cui le abitazioni godano i benefici che questa società delle telecomunicazioni, dell’informatica, del digitale promette senza subirne, o subendone al minimo, gli inevitabili portati negativi.

Come per tutte le parole magiche, accade che il termine ‘ecologia’ ognuno lo usa a modo suo: tanto è vero che in Italia oggi esistono contrapposte famiglie di architetti ecologically correct. A differenziarli è il rapporto che hanno con la tecnologia e con la ricerca formale.
Vi sono innanzitutto gli ambientalisti che vedono in qualsiasi costruzione una minaccia. Secondo loro bisogna solo recuperare e riadattare l’esistente. Sono in prima fila contro la cementificazione anche quando, come è accaduto con il boicottaggio dell’auditorium di Niemeyer a Ravello, di natura incontaminata ne esisteva poco e nulla. Vi sono poi gli architetti tradizionalisti che guardano all’architettura vernacolare.
Presenti in prima fila alle conferenze che Leon Krier tiene in Italia, comprano la rivista Abitare la terra diretta da Paolo Portoghesi.
Una terza categoria è rappresentata dai low-tech. Orientati verso una ricerca linguistica d’avanguardia, la perseguono attraverso l’uso di apparati tecnologici relativamente semplici e un intelligente uso delle risorse naturali. Tra questi vi sono i giovanissimi gruppi degli Avatar e di 2a+p: i primi nel progetto per VeMa presentato alla recente biennale di Venezia hanno mostrato alcune inaspettate possibilità del bambù; i secondi stanno da tempo lavorando sull’uso del verde all’interno dei processi costruttivi.
La quarta categoria dei contestualisti raccoglie gli architetti particolarmente sensibili al tema di un contemporaneo landscape metropolitano, cioè di un paesaggio in cui architettura e natura si integrano perdendo la loro originale diversità. Ci stanno lavorando, con approcci diversi, studi di notevoli dimensioni come quello di Benini i cui ultimi progetti sono spesso risolti nel sottosuolo per lasciare in superficie ampi spazi trattati a verde ed equipe decisamente sperimentali, come T studio e Metrogramma, con proposte in cui la dimensione territoriale è prevalente su quella edilizia.
Alla quinta categoria appartengono gli ‘umanisti tecnologici’, quegli architetti come Renzo Piano e Mario Cucinella che lavorano su tecnologie avanzate, ma senza mai cadere né in una eccessiva esibizione di strutture e impianti, come per esempio accade in molti edifici Hi Tech, né in un troppo impersonale e autocompiaciuto – sino ai limiti del virtuosismo manierista – Soft Tech, come negli ultimi edifici di Norman Forster o di Santiago Calatrava.
Vi sono, infine, gli architetti che lavorano con il digitale e le interrelazioni.
Che pensano che l’edificio, diventando intelligente e cioè in grado di produrre feedback, rassomiglierà sempre di più a un organismo vivente. Questo programma di ricerca, a mio avviso molto promettente, oggi sembra essere caduto in disgrazia perché viviamo un momento in cui il nuovo produce ansia. Ma, se mi è lecito fare una previsione, la paura non durerà a lungo e proprio dalle nuove tecnologie verranno la gran parte delle innovazioni che renderanno migliore l’habitat in cui vivremo nel prossimo futuro.
Esaminati in una prospettiva storica, molti progetti tra i più interessanti si ricollegano idealmente ad altri realizzati nella metà degli anni ottanta quando nasce un nuovo sentire. Grazie all’opera di alcuni precursori che operano a livello internazionale, emerge una concezione del rapporto tra architettura e natura che scavalca le precedenti correnti
neobrutaliste, razionaliste, postmoderne e anche organiche.Natura e architettura non sono più intese come due entità separate, anche se interagenti e complementari, ma come afferenti a un medesimo paradigma concettuale e quindi in larga misura fungibili l’una con l’altra. Ciò vuol dire che il verde diventa uno dei tanti materiali da costruzione, come avevano insegnato i Site e Emilio Ambasz, mentre la
massa muraria, acquisendo intelligenza e diventando una membrana permeabile, si trasforma in un dispositivo interattivo in grado di dialogare all’interno con gli abitanti e all’esterno con la natura circostante, con una radicale ridefinizione dello statuto dell’architettura che, a questo punto, non può più essere intesa come un che di artificiale che si contrappone al naturale dello spazio circostante. Realizzazioni come l’Institute du Monde Arabe di Parigi (1987) di Jean Nouvel o la Torre dei Venti di Yokohama (1986) di Toyo Ito che, tra le prime, danno forma ai nuovi concetti, diventano modelli ampiamente pubblicizzati, riferimenti sui quali orientare una produzione in cui i confini tra animato e inanimato, materia e energia, organico e inorganico diventano labili.
Lungo questa direzione, anche se non in modo esclusivo, si muove la corrente decostruttivista che ha con la mostra Deconstructivist Architecture al MoMA di New York il suo momento di maggiore notorietà.
Architetti quali Peter Eisenman o Zaha Hadid, che appartengono a questa tendenza, si orientano lungo una direzione trans-ecologica e morfogenetica, mentre gli altri lavorano alla creazione di nuovi paesaggi metropolitani.
Vi è poi l’High Tech che, in questi anni, si trasforma in Eco Tech con edifici di Norman Foster, Richard Rogers, Nicholas Grimshaw e William Alsop, in cui la complessità tecnologica si apre all’ambiente e al paesaggio, anche al fine di conseguire consistenti risparmi energetici.
A sintetizzarne le ricerche, cercando di tradurle in termini linguistici, provvede il libro di Charles Jencks, The Architecture of the Jumping Universe uscito nel 1995.
La seconda metà degli anni novanta è particolarmente importante per la cultura architettonica italiana. Si registra un fiorire di energie – come sempre soprattutto di giovani: la cosiddetta generazione Erasmus – che si affacciano alla ribalta producendo lavori innovativi. Sulla scia di quanto accadeva nella cultura architettonica mondiale, si riscoprono, coniugandole al nuovo modo di sentire la natura, le ricerche di avanguardia degli anni dieci e, soprattutto, degli anni sessanta quali la body art, la land art e il concettuale. Si usano materiali inusuali: tra questi il verde e gli oggetti poveri e poverissimi ripresi dal cheapscape metropolitano. Si sperimentano le valenze estetiche del caos, del complesso e dell’informe contro i precetti dell’ordine e della composizione
equilibrata. Si abbandonano definitivamente le nostalgie storiciste della precedente stagione post modern per sperimentare inaspettate libertà formali.
L’effervescenza italiana riflette una euforia diffusa. È in questi anni che con la telematica e internet, si mette in discussione lo spazio concepito semplicemente in termini di hic et nunc e, grazie all’intelligenza artificiale, la concezione di involucro inanimato. Il Guggenheim di Bilbao, inaugurato nel 1997, evidenzia che è finita l’epoca della catena di montaggio fatta di elementi standardizzati e che si può cominciare a pensare in termini di unicum perché, come è stato ben sintetizzato, i nuovi metodi di produzione stanno ai vecchi come la stampante a getto d’inchiostro sta alla macchina da scrivere. Comincia ad operare una generazione di architetti ‘nati con il computer’, da Greg Lynn a Nox, attenta alle ricadute ecologich
e delle proprie ricerche.
A fare il punto provvedono sul finire del ventesimo secolo i libri della serie La rivoluzione informatica nella serie l’Universale d’architettura (il primo esce nel 1998), riviste quali Domus che dedicano alle nuove frontiere pagine entusiaste e la biennale di Venezia del 2000 diretta da Fuksas che, pur con tutti i suoi limiti, lancia il messaggio che in architettura – e, finalmente, anche in Italia – si respira un nuovo sentire.
Come spesso è avvenuto in passato, ad un ciclo propulsivo e ottimista ne subentra uno riflessivo e tradizionalista. La critica conservatrice accusa sperimentatori e innovatori di cadere preda del mito tecnologico e della cosiddetta società delle immagini (il più importante di questi saggi, anche perché ne è il precursore The Anaesthetics of Architecture di Neil Leach è del 1999). E, in Italia, ai giovani che si abbeverano all’estero della nuova cultura architettonica si rimprovera di dimenticare le proprie radici. La bandiera dell’italianità dell’architettura italiana viene sventolata contro di loro, così come contro le numerose Star straniere che, approfittando del mutato clima culturale, acquisiscono in Italia incarichi sempre più numerosi e importanti.
Da parte degli stessi giovani si registra, contemporaneamente, una caduta di tensione dovuta sia a un prevedibile, anche se temporaneo, esaurimento delle energie creative, sia al cattivo esempio di alcune Star straniere che, acquisito il successo commerciale, non esitano a ripetersi stancamente trasformando in clichè quelli che, in origine, erano stati input innovativi e vitali.
L’undici settembre del 2001, l’abbattimento delle Twin Towers segna un punto di non ritorno. Si scopre che l’ottimismo degli anni precedenti, riposto nei magnifici destini e progressi della tecnologia, era sicuramente eccessivo e che è giunto il momento per una architettura più responsabile, fatta meno di simboli e più di relazioni con gli uomini e la natura.
I fatti che seguono l’undici settembre rafforzano queste ipotesi.Si acquista la consapevolezza che l’architettura deve riflettere su tre questioni:
 come trovare una maggiore autenticità contrapponendola allo stereotipo linguistico della cosiddetta architettura firmata,
 come conciliare la standardizzazione imposta dalla globalizzazione con la pluralità delle culture locali evitando di cadere nell’appiattimento dell’omologazione,
 come aprirsi ad una prospettiva ecologica non punitiva, estranea all’ambientalismo dei divieti e delle privazioni.

Dei tre temi, il terzo appare più urgente e sollecita le migliori intelligenze anche perché, come aveva già intuito Bruno Zevi nel convegno del 1997 Paesaggistica e grado zero, ha forti valenze spaziali oltreché concettuali: implica infatti una sminuita importanza dell’oggetto in sé e per sé ed è correlato all’imperativo di un azzeramento linguistico.

Se il paesaggio è ciò che ci circonda, materializza spazializzandolo il nostro rapporto con il mondo e quindi non ha senso riempirlo di retorica, caricarlo di turbe grammaticali e sintattiche, trasformarlo nell’apoteosi dello stile.
Se in Italia si parla di paesaggio, negli altri paesi, e in particolare in Olanda, si parla sempre più diffusamente di landscape, una parola che presto diventa quasi una formula magica, che ognuno adopera secondo una propria e particolare accezione. Il termine ha, infatti, in sé un forte potere evocativo: allude contemporaneamente all’edificio, all’urbanistica, alla natura. Fa pensare al primo, ma all’interno di un contesto ambientalmente responsabile, alla gestione del territorio, ma senza monotematismi zonizzanti e ad astrazioni economiche e, infine, al verde, ma in quanto risultato di un complesso progetto di costruzione dello spazio antropizzato.
In ogni caso, nonostante la pluralità di significati proiettati sui termini, non è difficile da parte di tutti concordare che per creare un nuovo paesaggio o landscape occorre una rinnovata consapevolezza ecologica che alla luce delle nuove tecnologie, ma senza ottimismi tecnicistici, riorganizzi – anche a partire dalle piccole cose, dai progetti a scala minuta – il rapporto con l’ambiente che ci circonda, con il pianeta nel quale abitiamo.
Verso questa direzione di ricerca, come si diceva in apertura, si stanno muovendo negli ultimi anni un crescente numero di architetti che operano nel panorama internazionale. Aiutati in ciò anche dal valido supporto di alcuni studi di ingegneria che stanno sempre più orientandosi verso la progettazione di sistemi impiantistici che permettono di ottenere edifici a consumo zero, cioè energicamente autosufficienti.
Gli architetti, come sostiene uno dei partner di una di queste società, la Arup, in una intervista sulla rivista A10 ‘non possono più curarsi di disegnare oggetti firmati, ma devono realizzare edifici e quartieri densi di significato e di qualità, che siano totalmente sostenibili e così possano contribuire al benessere delle persone, della società e dell’intera umanità’.
Più che mai il prossimo futuro richiederà creatività ed attenzione.
Creatività per mettere a punto un progetto tecnologicamente avanzato e formalmente innovativo. Attenzione perché gli elementi con i quali ci si deve confrontare sono quelli di sempre.

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