Architettura del luogo e dell’ego

Natura e cultura sono alla base dell’uomo. Per Rousseau se prevale la natura, l’uomo è un (buon) selvaggio. Se prende il sopravvento la cultura, diventa un depravato.
Nel progetto eco-logico l’architettura si fa sintesi armonica di natura e cultura e ne esprime tutta la reciprocità. Nel gioco ininterrotto dove la natura si fa cultura e la cultura diventa natura, si forma il paesaggio, in una continua tessitura di relazioni che giorno dopo giorno ne strappa i fili, ne modifica e ne ricuce la trama. Ogni esperienza percettiva, che traduce il progetto in emozione e qualità della vita, è essa stessa prodotto di natura e cultura: ciò che ci si attende di vedere dipende da quanto attiene al luogo particolare ed è contemporaneamente connesso con le immagini che normalmente albergano nella mente dell’osservatore.
La percezione della coerenza delle indicazioni che si ricavano dal contesto definisce la relazione fra gli uomini e l’ambiente circostante, generando senso di orientamento e di sicurezza. Un ambiente familiare a tutti fornisce materia per la memoria e simboli comuni che legano il gruppo e permettono ai membri della comunità di comunicare fra di loro.
L’insostenibilità delle trasformazioni avvenute nell’area portoghese dell’Alentejo per la costruzione della diga dell’Alqueva, rivela come l’opera che nega il contesto dis-orienti l’osservatore, dis-greghi la comunità e crei dis-senso fino ad indurre comportamenti che de-strutturano il paesaggio.
Integrare il progetto nel paesaggio non significa automaticamente dover recuperare una coscienza filologica legata alla restaurazione di codici retorici desueti, imitandone unità spaziali, stili, forme o colori.
Se una città, come un individuo, non appartiene al proprio tempo e vive di nostalgia, muore (Eisenmann). Né tanto meno implica l’invisibilità dell’architettura contemporanea (Ouroussoff), né nega al progetto ogni possibilità di innovazione o di différance (Derrida).
Richiede piuttosto di dare direzioni di trasformazione alla sorpresa, inserendola nel discorso paesistico come un punto esclamativo, piuttosto che come un punto interrogativo.
Nel paesaggio nessun progetto è un’isola, nessuna opera è esperita singolarmente, ma lo è sempre in relazione alle sue adiacenze, alle sequenze di eventi che portano ad essa, alla memoria delle precedenti esperienze. Qualsiasi rottura della continuità visuale fra il percepito e la norma mnemonica interrompe la dinamica che connette le due cose.
Quando l’opera architettonica percepita non viene corrisposta ad alcuna immagine esterna, ma sta di per se stessa, diviene ancora più urgente il problema di cosa essa sia. E questo avviene anche in città.
Già nel 1938 Wirth, sociologo della scuola ecologica di Chicago, avvertiva che l’eterogeneità delle aree urbane produce individui profondamente insicuri, inquieti e aggressivi. Trovare la propria strada è la funzione originale dell’immagine ambientale e la base per tutte le associazioni emotive. E oggi, che navigatori e software GPS di ogni genere rendono impossibile smarrirsi in città, il senso di ansietà e di paura che sorge quando capiti di perdere l’orientamento confermano quanto sia importante riuscire a dare una struttura a quello che vediamo.
Basti pensare ai giudizi contrastanti espressi sui nuovi Landmark di Libeskind, Isozaki e Hadid per la Citylife di Milano1 o di Meier per l’Ara pacis a Roma, o dalla realizzazione di Burj Khalifa a Dubai, definita evocativa delle strutture ricorrenti nell’architettura islamica.
La questione non è se sia più opportuna l’integrazione o la dis-integrazione del paesaggio, quanto la necessità che a monte di ogni scelta ci sia la comprensione delle dinamiche percettive del contesto, di come esse siano determinate dalle ragioni strutturali dell’ambiente e dalle relazioni di coerenza fra elementi costruiti e naturali.
Il progetto che dis-integra il paesaggio dovrebbe comunque non dis-orientare.Opporre al movimento di significazione rispetto a cui si progetta la città, la considerazione del libero gioco dei significanti, rischia di svuotare l’attività architettonica di ogni spinta creativa (Barthes). Al contrario, un equilibrio consolidato fra natura e cultura non limita la spinta creativa né inficia l’identità del progetto.
Quando Libera costruisce a Capri villa Malaparte, disegna insieme contesto e committente, sino a far dichiarare allo scrittore ‘il giorno in cui mi sono messo a costruire una casa non credevo che avrei disegnato un ritratto di me stesso migliore di quanti non ne abbia disegnati finora in letteratura’.2 E anche quando Wright ricostruisce Taliesin, la propria casa distrutta in parte da un incendio, più che disegnare il proprio ritratto, lo compenetra al luogo e oltrepassa la coerenza delle forme sino a protendere tutta la struttura fino ai rami delle querce che crescono sul pendio, attraverso il prolungamento del soggiorno nel ‘sentiero per gli uccelli’.
Benché lo stesso Wright raccomandi ai giovani architetti di essere radicali ‘perché non basta cominciare da dove gli altri hanno finito’, ogni tensione all’innovazione si inserisce sempre in un credo architettonico teso a costruire un ambiente più bello per il genere umano.
I modi per dis-integrare il paesaggio sono spesso il risultato del prevalere del disegno del progettista sul disegno del luogo. L’idealismo progettuale è causa di molti mali.3 Quando ci si inserisca in un paesaggio fortemente percepito questi mali possono tradursi in una disintegrazione della comunità locale e nel moltiplicarsi del dissenso.
È quello che Ponti definisce il ‘generarsi psicologico’ dell’architettura, che ha luogo quando l’architetto invece di interpretare la vita degli abitanti, portandola ad espressione di civiltà e di cultura, impone ad essi una propria estetica, riducendo gli abitatori da vivi esseri umani a manichini.
Un esempio degli effetti della dis-integrazione è il recupero di Viboldone, un borgo rurale in provincia di Milano, sorto intorno ad un insediamento monastico del dodicesimo secolo, che ha caratterizzato l’evoluzione del paesaggio agrario della pianura lombarda. Benché gran parte dell’area fosse interessata da un vincolo storico ambientale e inserita in un parco agricolo istituito con legge regionale, la collocazione nella cintura metropolitana milanese ha indotto la proprietà a ricercarne una valorizzazione urbanistica.4 Nel 1994 la volontà di dare un nuovo segno di modernità al territorio prendeva corpo nel primo progetto concordato fra proprietà e amministrazione. Il rifiuto della comunità locale alle proposte di trasformazione ha avviato una lunga sequela di controversie che nel 2009 ha portato le stesse amministrazioni di competenza, Comune e Provincia, a confrontarsi davanti al TAR, mentre il nucleo versa ormai in condizioni di avanzata decadenza.
Sono molti gli esempi che dimostrano come l’innovazione possa coniugarsi con l’integrazione. Basti pensare al ponte sull’Artibay che apre l’accesso al piccolo porto di Ondarroa, progettato nel 1995 da Calatrava, sulla costa basca spagnola, o alla Città delle Arti e delle Scienze a Valencia. O ancora alla Modern Wing di Piano a Chicago che, pur comprendendo oltre 24500 mq, rimane leggiadra nella lettura dell’insieme del paesaggio. Diverso è l’effetto della grande chiesa progettata a San Giovanni Rotondo, che al di là dell’interesse delle soluzioni architettoniche, si impone prepotentemente sulla percezione del contesto insediativo e ambientale.
È l’uomo che si appropria del mondo e fa sì che la natura si trasformi continuamente in cultura (Eco). È il processo di appropriazione che Le Corbusier conduce con Nôtre Dame du Haut annotando nel suo diario che a Ronchamp costruirà un monumento dedicato alla natura.
‘Durante tre ore prendo conoscenza con il suolo e gli orizzonti.Per impregnarmi. (…) L’architettura è forma, volume, colore, a
custica, musica e l’avventura ha tre tempi:

1. Integrarsi al sito.
2. Nascita spontanea (dopo incubazione) della totalità dell’opera in una sola volta.
3. La vita nell’opera con la costruzione’.5

Paesaggio e progetto come prodotto di natura e cultura consentono all’uomo di appropriarsi del luogo e hanno una funzione sociale fondamentale.
Il rischio è che nell’entusiasmo dei concorsi di progettazione, l’ansia di lasciare la propria firma nel panorama dello star system internazionale prevalga sull’intenzione di migliorare l’ambiente architettonico.
Evitare che l’architettura dell’ego prenda il sopravvento sull’architettura del luogo significa sottrarsi alle repliche di Pruitt-Igoe, il complesso progettato da George Hellmuth and Minoru Yamasaki (progettista del World Trade Center) a Saint-Louis nel 1951, vincitore di un premio da parte dell’American Institute of Architects e demolito a furor di popolo, in meno di vent’anni dalla sua realizzazione.
Libeskind sostiene che ogni suo progetto nasca dopo aver ascoltato le pietre e colto i volti degli abitanti.6 Il progetto ecologico è risultato di un pensare complesso degli equilibri e delle interrelazioni. Qualunque sia la scelta finale, ascoltare queste interrelazioni è il primo passo per progettare, anche nella dis-integrazione.
Per un’architettura che resti sempre protagonista, ma non antagonista.

Note:
1. Cfr. M. Alfieri, CityLife, finanza da rinegoziare, Il sole 24Ore, 21 ottobre 2008.
2. Cfr. C. Malaparte, Casa come me, in ‘Sangue’, antologia di racconti, Mondadori, 2003.
3. Cfr. V. Gregotti, L’architettura del realismo critico, Ed. Laterza, 2004.
4. Cfr. S. Agostini, P. Pizzingrilli, P. Rausa, Beni culturali, agricoltura e territorio, Maggioli,
2009.
5. Cfr. Le Corbusier, L’atelier de la recherche patiente, Paris, Vincent Fréal, 1960.
6. Cfr. D. Libeskind, Breaking round, Sperling e Kupfer Ed., 2005.

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