La chiesa nel paesaggio della città metropolitana

Pensare che le chiese possano concorrere alla riqualificazione fisica e sociale delle periferie, o in generale ai processi di rigenerazione urbana, è quasi spontaneo, ma tuttavia oggi problematico. 
In Italia, e in particolare nella diocesi di Milano, vi sono tradizioni ed esperienze che avvalorano questo punto di vista, sulla scorta di una ormai lunga tradizione di impegno.  
Difatti già il cardinale Schuster, negli anni Trenta del Novecento, aveva promosso la costruzione di nuove chiese-complessi parrocchiali nelle zone più povere, dove venivano accolti gli sfollati dal centro, o dove si prevedeva una rapida espansione edilizia. Il Comitato per le nuove chiese, da lui costituito, lavorò quindi in pieno coinvolgimento con l’Amministrazione comunale e con l’Istituto Case Popolari, attribuendo ai centri parrocchiali, insieme alle scuole e alle attrezzature per lo sport e il tempo libero, il ruolo di veri e propri condensatori sociali.  
Il cardinale Montini, successore di Schuster, si dedicò con nuova energia all’impegno della costruzione di centri parrocchiali intesi come caposaldi di socializzazione, non esclusivi ma necessari. La rete degli organismi parrocchiali costruiti o programmati dal 1955 al 1963 – gli anni del suo episcopato milanese – si estende su una nuova periferia che non è più soltanto quella del capoluogo, regolata dal PRG del 1953, ma si allarga ai comuni limitrofi dell’hinterland, dove i “quartieri dormitorio” crescono fuori controllo.  
Entro questo quadro l’azione di Montini fu sostenuta dalla convinzione che i nuovi edifici religiosi non dovessero consistere in “monumenti decorativi” nella monotonia dei quartieri residenziali, ma avessero il ruolo di “vere case del popolo”, in difesa dei valori spirituali della collettività, a fronte della secolarizzazione in atto nella società.  
Secondo l’impostazione del piano Montini si sono costruite per una sessantina d’anni le numerosissime nuove chiese della diocesi di Milano. La loro centralità era pensata in rapporto alla struttura di una periferia nella quale l’unità di riferimento era il quartiere. Del resto “Chiesa e quartiere” si intitolò la rivista fondata nel 1954 a Bologna, con il sostegno del cardinale Lercaro.  
Questa strategia insediativa, alla quale è corrisposta la “dimensione conforme” delle parrocchie e dei complessi parrocchiali, richiede oggi di essere modificata in rapporto alla diffusione della città in un territorio esteso e magmatico, entro cui le periferie dell’urbanizzazione continua hanno perso non solo i loro contorni, ma anche quei fattori di coesione sociale che avevano informato la politica del quartiere e finanche la sua utopia.  
Occorre quindi ricercare quali possano essere le nuove condizioni favorevoli a una presenza della chiesa che si configuri come fattore costitutivo, o quantomeno integrativo, di centralità nell’ambito metropolitano. 
Si tratta, ad esempio, di previlegiare non tanto le aree residuali entro le zone ove l’edificazione è maggiormente addensata, quanto invece di localizzare gli edifici di culto nelle parti diradate, in prossimità dei brandelli residui di campagna, o dei vuoti risultanti dalla dismissione in atto di impianti ferroviari e militari, oltre che delle industrie.  
Difatti queste sono, attualmente, le vere occasioni per individuare i luoghi dove possano prendere corpo le iniziative per costruire, in una visione policentrica, nuovi caposaldi di attività della vita associata nel territorio.  
Pertanto è nel loro ambito che conviene rinvenire le concrete possibilità di conferire alla chiesa, nel ritrovato rapporto con l’insediamento ma anche con la natura, un ruolo di rappresentatività e un incentivo di incontro sociale nella metropoli e nel mosaico del suo paesaggio.

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