Alle radici del camino moderno italiano Testo di Roberto Paleari, ingegnere edile – architetto Le Esposizioni Internazionali sono sempre state un terreno preferenziale per il manifestarsi del gusto, dove era possibile da un lato confermare gli orientamenti stilistici tradizionali e dall’altro proporre le nuove tendenze delle avanguardie artistiche. In quest’ottica è doveroso sottolineare come all’interno di queste Esposizioni venivano spesso riproposti ambienti domestici arredati da una serie di oggetti che spaziavano da mobili, porcellane, vetrate, stoffe, ceramiche, ma anche da elementi di comfort quali, per esempio, apparecchi illuminanti e riscaldanti come i camini che, all’interno di un microcosmo domestico, rappresentano non solo il senso della condivisione famigliare, ma soprattutto una conquista sociale e il sintomo di un progresso tecnico raggiunto. A questo proposito è utile ricordare come all’Esposizione Internazionale del Sempione a Milano del 1906 l’Umanitaria, Società fondata nel 1893 con lo scopo di “rendere i diseredati, senza distinzioni, in condizione di rilevarsi da se medesimi, procurando loro lavoro, appoggio e istruzione”, esponeva nella Sezione dedicata alla Previdenza, un padiglione all’interno del quale era riprodotto un bilocale del quartiere operaio di Milano in via Solari provvisto di tutte quelle nuove apparecchiature di servizio capaci di gestire il tema dell’igiene e del comfort tra cui un doppio camino utilizzato per il gas e per la legna. Camino nel padiglione della Società Ceramica Italiana, Prima Mostra Internazionale delle Arti Decorative, Monza, 1923 (1923-1930 Monza. Verso l’unità delle arti, a cura di Anty Pansera, Mariateresa Chirico, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2004). Già con l’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902, l’Italia assiste a quella “febbre vivificante” europea che poneva le questioni della modernità non solo come ipotesi di rinnovamento formale, ma come necessità di rispondere a bisogni attuali: l’esclusione delle “imitazioni del passato” a favore di prodotti artigianali con “una decisa tendenza al rinnovamento estetico della forma”, fu la prima avvisaglia di una tendenza liberty che iniziò tardivamente a manifestarsi non solo nei padiglioni espositivi ma anche negli edifici e nei loro arredi. Basterà forse citare i nomi di Giulio Ulisse Arata, Raimondo d’Aronco, Adolfo Coppedè, Ulisse Stacchini, Aldo Andreani, Ernesto Basile o Giuseppe Sommaruga per tracciare una possibile lettura dello stile floreale in Italia: se pensiamo a Palazzo Castiglioni del 1903, arredato con i mobili di Eugenio Quarti e decorato con i ferri battuti di Alessandro Mazzucotelli, possiamo notare come gli interni siano un tripudio di colori dove ogni elemento è parte di un equilibrio sotteso di delicate e fluide linee che trovano una propria espressione anche nell’utilizzo di materiali quali, per esempio, pietre di Serizzo, marmi di Baveno o di Carrara affiancati a “cementi artistici” sapientemente lavorati che incorniciano splendide vetrate policrome. Se passiamo in rassegna alle diverse Biennali a Monza, possiamo individuare all’interno delle varie sale espositive, organizzate secondo un proprio ordinamento regionale, un campionario italiano e straniero di elementi di arredo che indirizzavano una sorta di itinerario del gusto dell’epoca. Dalla sala da pranzo nella sezione triveneta di Trieste provvista di camino realizzato dallo scultore Mario Levi in marmo bianco, ricavato all’interno di una nicchia da cui era ben visibile il tiraggio della canna fumaria decorata a fasce verticali, si passava a una sala da pranzo toscana con un curioso camino “rustico” ad angolo, per arrivare con la seconda Biennale alla sezione abruzzese e calabrese provvista del proprio tinello. Le Esposizioni erano anche una sorta di vetrina per le società industriali che esponevano i loro prodotti: basterà infatti citare le porcellane della Richard Ginori, la cui direzione artistica era affidata a Gio Ponti (un esempio nella pagina seguente) o al padiglione allestito da Piero Portaluppi per la Società Ceramica Italiana di Laveno, con una serie di splendidi prodotti della manifattura del Lago Maggiore costituiti da vasi, piatti e servizi in ceramica che facevamo da sfondo a un camino con basamento e pianale in marmo rivestito nel boccafuoco da una serie di piastrelle ignifughe della medesima Società. Si può subito notare come a ridosso del Primo dopoguerra, le forme dell’arredo subiscano un radicale mutamento del gusto e dei linguaggi espressivi dove eclettismi venati di citazioni gotiche o barocchette lasciano spazio a un lessico modernista definito stile 1925 o art déco dove la geometria della linea retta e ortogonale sono le premesse culturali per l’affermarsi del neoclassicismo milanese i cui maggiori esponenti sono Mino Fiocchi, Giovanni Muzio, Gio Ponti ed Emilio Lancia. Le opere dei singoli architetti sono accumunate da un ritorno all’ordine, da una chiarezza costruttiva e da una semplificazione linguistica che passa attraverso elementi classici scegliendo “il permanente” al “caduco”, la rivalutazione della tradizione rispetto ai “primitivismi” e alle “bizzarrie”. “Rendere i diseredati, senza distinzioni, in condizione di rilevarsi da se medesimi, procurando loro lavoro, appoggio e istruzione”
Così nella IV Triennale di Monza, il cui programma era sintetizzato dalla “modernità di interpretazione, originalità di invenzione, perfezione di tecnica, […] efficienza della produzione”, il richiamo al classico è ben visibile nella Sala dei Marmi a opera di Giovanni Muzio in collaborazione con l’artista Mario Sironi, il cui accesso avveniva grazie ai cinque portali che dal grande atrio allestito per l’occasione da Alpago Novello, con rivestito in linoleum, portavano al salone. Arredato da una serie di cornici marmoree costituite da colonne e trabeazioni che segnavano l’ingresso alla Sala dei Marmi, le sue pareti erano caratterizzate dalla presenza di vasi e di camini adornati con un campionario di marmi “Modernità di interpretazione, originalità di invenzione,
Questi esempi sottolineano come l’attenzione alla tematica dell’abitare la casa diventi una componente fondamentale nel progettare gli spazi: se pensiamo alle “case tipiche” (Domus Julia 1931-1934, Domus Fausta 1932-1934, Domus Carola 1932-1936) di Gio Ponti in collaborazione con Emilio Lancia, realizzate a Milano in via De Togni per una utenza medio borghese, notiamo una precisa distribuzione degli spazi secondo il criterio della massima flessibilità tramite pareti attrezzate che riducono gli spazi di servizio a favore di un’unica grande zona giorno. Gli anni Trenta risentono quindi di una nuova modernità funzionale che cambia le abitudini domestiche attraverso un diverso utilizzo degli spazi a fronte di nuove esigenze come la stanza dello sport per l’uomo moderno o la sala per le proiezioni cinematografiche, ma anche nelle diverse tipologie appositamente congeniate per le diverse professioni quali, per esempio, la casa sul lago per un artista realizzata dal “Gruppo di Como”, la casa del sabato degli sposi realizzata dai BBPR in collaborazione con Piero Portaluppi, la villa studio per un artista di Luigi Figini e Gino Pollini, tutte esposte nel Palazzo dell’Arte di Giovanni Muzio per la V Triennale di Milano del 1933 intitolata Esposizione internazionale delle Arti decorative e industriali moderne e dell’Architettura moderna. PIERO PORTALUPPI
Per l’industria, alle Centrali idroelettriche si aggiungono gli stabilimenti per la Società Ceramiche Italiane di Laveno e, tra il 1925 e il 1928, i padiglioni Alfa Romeo, Agip e Pirelli alla Fiera di Milano. Nel 1926 con Marco Semenza vince il concorso per il Piano Regolatore di Milano, col progetto “Ciò per amor”, dall’anagramma dei loro nomi. Gli anni Trenta vedono il consolidarsi e stabilizzarsi della sua attività professionale assestata su una serie di progetti pubblici e privati di grande importanza caratterizzati da una declinazione moderna evidente nella Villa del sabato per gli sposi realizzata con i BBPR per la V Triennale del 1933. Nel dopoguerra vengono istituiti a suo carico due procedimenti di epurazione – per la carriera universitaria e per l’albo professionale – da cui sarà prosciolto tra la fine del 1945 e il 1946. Reintegrato come preside della Facoltà di Architettura, Portaluppi manterrà la carica fino al ritiro dall’attività accademica nel 1963. L’impegno del FAI per la salvaguardia di Villa Necchi
L’edificio accoglie due appartamenti “padronali” tra loro collegati, quattro tagli minori e un appartamento più piccolo al piano attico “per uno scapolo”. In “Rassegna di Architettura” si precisa come la casa “appartiene ad un tipo che, già frequente in passato, va diventando ora frequentissimo: quello cioè dell’edificio in cui la concezione aulica della residenza signorile e i caratteri della casa d’affitto si equilibrano”. Gli anni Trenta sono caratterizzati anche da una serie di sperimentazioni nell’arredo domestico dove l’attenzione ai nuovi materiali e la razionalità della composizione architettonica si uniscono a ricerche pittoriche, materiche e percettive, declinando una grammatica dello spazio di grande intensità e raffinatezza, uno “spazio atmosferico” secondo le parole di Franco Albini, costituito “con l’aria e con la luce”. Lo spazio dell’abitare nel primo ‘900
La casa pubblicata su “Domus” nel 1932 era accompagnata da un articolo firmato dal direttore dove si parla di una “signorile misura” per definire i “caratteri felicissimi di questi interni e questi mobili”, caratterizzati da “linee ferme e semplici, correttissime”, in cui la modernità è un “fatto spirituale conseguente all’abbandono del finto antico”, dove “trasportare nel campo delle nuove espressioni, delle espressioni d’oggi, una esigenza di gusto”. L’ambiente del soggiorno è arredato da “mobili di Zebrano naturale e spazzolato, con al centro il tavolo in ebano macassar con bordi di alpacca e intarsi in avoriolina”, con l’originale “mobiletto di servizio con tavoli sovrapponibili. ” Costruzione realizzata ex-novo da Albini nel 1938 a Milano è la villa Pestarini, dove secondo il commento di Pagano la “pianta di questa villa si distingue in modo particolare per aver raggiunto un minimo spreco nelle superfici poco utilizzate ai fini dell’abitazione. L’eliminazione di corridoi, l’incorporazione della scala padronale nel gruppo di ambienti di soggiorno, la razionalità nella dislocazione dei servizi, l’ottima disposizione delle stanze da letto danno a questa villa un carattere di perfetta “macchina per abitare”. Concludiamo questo itinerario domestico con la sistemazione della casa museo per Caterina Il senso domestico del focolare e la bellezza nelle sue diverse declinazioni non sembrano estranei al tempo ma soprattutto all’ambiente che lo circonda: la necessità di questo arredo passa necessariamente attraverso la possibilità di riconoscersi come parte integrante di quel sistema di delicate proporzioni che fa di ogni ambiente uno spazio unico da vivere e da condividere. FRANCO ALBINI
Nei primi anni ’60 entrano nello studio le altre due presenze importanti di Antonio Piva (nel 1962) e Marco Albini (nel 1965), che assieme a Franca Helg costituiranno un gruppo che porterà a termine numerosi progetti di Albini anche dopo la sua morte. Successivamente l’architetto ebbe numerosi prestigiosi incarichi, tra questi spiccano la sede della Rinascente a Roma (1957-61) e la stazioni della linea 1 della Metropolitana Milanese (1962-63). Albini affiancò all’attività di architetto quella di designer, soprattutto di elementi d’arredo, per tutta la carriera. Numerosi furono i premi e i riconoscimenti; tra essi si citano: i tre Compasso d’oro (1955, 1958 e 1964); il premio Olivetti per l’Architettura (1957); il premio “Royal Designer for Industry” dalla Royal Society di Londra (1971). |