Filarete e l’ecologia urbana

Poiché si ripubblica qui il “Trattato di architettura” di Antonio di Pietro Averlino, detto il Filarete (Firenze c. 1400 – Roma 1469), sembra corretto porre in copertina l’immagine dell’opera più nota di questo grande autore rinascimentale: la torre completata nel 1905 da Luca Beltrami che domina il Castello Sforzesco verso via Dante e che del Castello è anche l’emblema.
Già il succedersi e il sovrapporsi dei nomi dice tanto della storia dell’architettura del capoluogo lombardo – che peraltro in questo non si discosta di molto dalla storia di moltissime altre città.

Il Castello prende nome dagli Sforza, perché questa famiglia dominava nel cuore del ‘400, quando a Milano ebbero luogo i lavori per opere viarie e canalizzazioni molto importanti, nel clima acceso e fecondo del primo Rinascimento: ma in realtà le sue fondamenta e la gran parte delle sue mura furono erette a partire dalla metà del ‘300 per volontà di Giangaleazzo Visconti.
Sotto il profilo filologico forse sarebbe più corretto chiamarlo “Castello Visconteo” o, più semplicemente, “di Porta Giovia”, come il toponimo dell’epoca suggeriva.
Allo stesso modo in realtà la torre “del Filarete” fu eretta, appunto, dal Beltrami quattro secoli e mezzo dopo che il grande fiorentino aveva lasciato la città.
La si potrebbe persino considerare un falso.
Tuttavia, nella contrapposizione tra le scuole del Ruskin, che com’è noto impone la conservazione del rudere onde non apportare elementi di falsità storica, e quella del Viollet le Duc, che invece propugna ricostruzioni “in stile” con diritto a qualche licenza, ci piace ritenere che l’approccio di Luca Beltrami sia stato quello più misurato e appropriato: fondarsi sulla più accurata ricerca storica possibile e ricostruire nel modo più fedele possibile, al fine di rendere alla città la ricchezza di monumenti che ne costituiscono il carattere: e che sono i veri, duraturi, espliciti documenti che ne testimoniano l’evoluzione nei secoli.In questo modo i luoghi e i loro nomi non sono un’affermazione di possesso o di potere,  ma le tracce di un percorso che è generalmente profondamente complesso e intricato, e hanno la funzione di offrire alla popolazione un ricordo chiaro e visibile, semplice e ben distinguibile di quanto è passato.
Beltrami ha studiato con attenzione tutta la documentazione, che era disponibile alla fine dell’800, sullo stato del Castello nel momento del suo pieno fulgore, cioè nel ‘400 degli Sforza.
È noto che si servì delle sinopie presenti nell’Abbazia di Chiaravalle e di una pittura di Francesco Napoletano: ma probabilmente anche i graffiti della cascina Pozzobonella hanno costituito materia di studio per l’architetto che operò a cavallo del ‘900.
Quando Beltrami assunse la direzione delle opere di ricostruzione del Castello, questo era ben presente e vivo nella memoria della popolazione: una memoria assai travagliata da ferite recenti, infatti il Radetzky da quegli spalti aveva fatto bombardare la città durante le “Cinque Giornate”.
Ma un’opera come il Castello non può ridursi a emblema di un singolo episodio, o di più episodi, per quanto dolorosi e nefasti: esso racchiude una più lunga storia e la sua ubicazione, proprio grazie all’apertura, avvenuta a fine ‘800, della via Dante, lo pone in posizione privilegiata lungo una direttrice radiale (proprio come quelle che aveva vagheggiato il Filarete) che lo collegano al Duomo, cioè al centro della città.
La torre principale del Castello, che si trova proprio in posizione prospiciente sulla via Dante, era stata abbattuta già nel 1521, a seguito dell’esplosione delle polveri in essa ricoverate.
Ricostruendola, Beltrami ha ridato alla città un brano di grande importanza, un luogo ben visibile, il pinnacolo che rende unico il Castello: ché altrimenti i suoi quattro torrioni angolari e le sue possenti mura sarebbero rimaste relativamente “anonime”.
Senza la torre del Filarete, il Castello Sforzesco sarebbe un castello come tanti.
Possente, massiccio, difficilmente espugnabile.
Ma con la torre che originariamente il Filarete disegnò e costruì, quel castello è qualcosa di diverso: assume uno slancio gentile, un vezzo da casa signorile che lo ubica non come presenza minacciosa, ma come figura di pregio nel contesto dei palazzi della città.
Lo scopo originario della costruzione doveva essere quello di offrire una vista privilegiata sull’intorno urbano. Un belvedere, più che un torrione, come ve ne sono tanti nei palazzi signorili di tutte le epoche.C’è un altro aspetto, che è stato più volte sottolineato nei trattati di architettura e che ha ripreso anche Leon Battista Alberti nel suo trattato “Sulla Famiglia”, che è poi uno dei primi testi di economia e di buona amministrazione: se il palazzo è proprietà privata dei “signori”, la facciata è di tutti. Dentro il palazzo si vive secondo gli agi che la dimora consente, ma la bellezza autentica di questa appartiene comunque alla città.
Così quella torre del Filarete era anche un omaggio di carattere estetico ai cittadini milanesi. All’epoca del Beltrami ne sarebbe diventata anche proprietà, passando il Castello dal rango di dimora signorile a quello di proprietà del Comune.
E questa idea, di rendere alla città quel che le appartiene, è vera e valida sin dal ‘400, e il Filarete la faceva sua.
Quale architetto che si sente responsabile non solo di rispondere al singolo committente, ma anche alla popolazione in generale, il Filarete esprimeva la coscienza dell’oggettivo coincidere degli interessi pubblici con quelli privati che era tipica del Rinascimento e che radicava già nella aneddotica dell’antica repubblica romana.
Si può dire che, oltre a essere “utero” dell’idea architettonica, un progettista come il Filarete è anche “balia” dell’architettura, nel senso più ampio del termine.
Architettura intesa non come singolo elemento isolato, ma come parte di un tutto. Di qui il suo interesse per il piano della città: un piano visionario quanto realistico, come dimostra il fatto che la Milano che si è configurata nei secoli successivi ne ha raccolto diverse suggestioni.
Si potrà dire che in realtà quella Milano già in parte esisteva prima di Filarete così come le opere di canalizzazione e i sistemi di chiuse, che Leonardo ha disegnato con tanta abilità, esistevano già almeno tre secoli prima che lui le ritraesse.
Ma tutto questo non fa che evidenziare il ruolo e la responsabilità particolare dell’architetto: che certamente inventa il nuovo, ma soprattutto è chiamato a migliorare l’esistente.
Nell’opera del Filarete c’è un chiaro intento che oggi potremmo definire “ecologico”, ma che è più semplicemente esteticamente fondato: sia nelle realizzazioni progettuali, sia nell’elaborazione teorica. Tale approccio estetico ed etico assieme deriva dall’attenzione che rivolge al rapporto tra spazio costruito ed essere umano e, contestualmente, al rapporto tra spazio costruito e assetto naturale.
La bellezza, da questo punto di vista, è intesa non come frutto della mera creatività, bensì come espressione di una coerenza già insista nell’esistente che va mantenuta pur nelle trasformazioni apportate.Nel tratteggiare la sua “città ideale” Filarete specifica che essa dovrà porsi lungo le rive di un fiume (e Milano già era, come tuttora è, in tali condizioni, grazie alla prossimità col Lambro), in un territorio pianeggiante ma possibilmente protetto, che là ove vi sono boschi questi dovranno essere mantenuti…
La città non è intesa come contrapposizione all’assetto geologico o naturale del territorio, bensì come un suo completamento: come un’aggiunta armonicache rende abitabile la natura.

Alla luce di questo atteggiamento rispettoso, appare tanto più significativo che il Beltrami abbia voluto “dare
a Filarete quel che è di Filarete” e che pertanto, nel rendere nuovamente integro il Castello a Milano, lo abbia coronato con la torre che reca l’impronta ideale del grande maestro fiorentino.
Un’opera tanto più importante, alla luce del fatto che il Filarete solo recentemente è stato rivalutato: nel corso della storia la sua figura è rimasta generalmente in tralice, nascosta se non svalutata, a fronte dei giganti coi quali ovviamente, dato il periodo cronologico in cui è vissuto, viene a essere messo a confronto: da Leonardo a Bramante, all’Alberti per non dire di Michelangelo o di altri.

È giusto recuperare appieno il significato di Filarete per la storia dell’architettura: un capostipite degli urbanisti e un progettista attento e rispettoso.
Ma progetto di una città e realizzazione di alcune sue parti cruciali, quali l’ospedale maggiore, noto come Ca’ Granda, e la Torre del Castello, formano parte di un unico metodo operativo, volto a comporre spazi adatti al benessere della città.
Milano non è una città ideale e non è stata progettata da Filarete.
Questi ha tratto molte delle indicazioni che ha trasfuso nel suo trattato, dalla Milano che esisteva già all’epoca, oltre che da altri nuclei urbani a lui noti.
Ma Milano si è venuta configurando nelle sue parti migliori anche sulla base delle elaborazioni di un grande come Filarete, una persona che ha fatto compiere un significativo passo in avanti alla cultura del progetto inteso come visione ampia e armonica di un insieme complesso in cui costruzione e ambiente naturale convivono serenamente.
Oggi più che mai siamo in grado di apprezzarne il legato.

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