Renato Nicolini



Il mio stato d’animo non è mai stato così vicino, come oggi, al celebre giudizio di Persico sul destino d’inaridire in una ‘questione di stile’. La sua generazione si confonde con la mia. La popolazione del mondo oggi è più di sei miliardi d’abitanti, destinata a crescere ancora, in modo sempre più imparagonabile ad ogni epoca passata. Non mi sembra però ci sia un fervore di ricerche sulla nuova dimensione delle questioni dell’abitare, delle città, dell’ambiente.
La committenza politica, che (particolarmente in Italia) sembra l’unico tramite per l’architettura di qualità, è ipnotizzata dagli aspetti più appariscenti della globalizzazione, come il potere della griffe e l’impero delle comunicazioni. Al consumo crescente dei suoli, ed alla loro trasformazione in bene scarso, non corrisponde né una maggiore qualità urbana e dell’abitazione, né l’efficienza dei servizi. Della politica si accentuano le tecniche di persuasione e di controllo, di gestione del potere: mentre sembra persa non solo la capacità di progetto, ma anche di previsione. I nuovi paesaggi urbani sconcertano e smentiscono architetti ed urbanisti, che per di più sembrano affrettarsi ad inforcare gli occhiali della regressione nostalgica, del rimpianto del mondo agricolo perduto.

Non riesco a trattenermi dal gioco verbale ‘è nato prima il paese o il paesaggio?’ (come ‘prima l’uovo o la gallina?’). Domande senza risposta, le due cose nascono insieme, non esiste gallina senza uovo, o natura senza uomo che l’osservi. Tra paese e paesaggio da qualche tempo si è interposto un arbitro, universalmente accettato, la sostenibilità:
che dovrebbe governare la trasformazione, l’equilibrio tra permanenza e sostituzione. Peccato abbia consistenza fantasmatica, neanche l’araba fenice; proprio mentre diventa all’improvviso molto visibile (come l’immondizia in Campania) il suo contrario, l’insostenibilità.
La trasformazione dei rifiuti in energia attraverso raccolta differenziata, recupero ed inceneritori – termovalorizzatori è la nuova favola che ci raccontiamo per addormentarci tranquilli. Di trasformarla, per quel che è possibile, in progetto, se ne dovrebbe occupare l’architetto (riallacciandosi alla lezione dell’ingegnere lecorbusiano). Ma questi, oggi, avendo (ri)scoperto che l’architettura è comunicazione, riesce a comunicare soprattutto la sua ambizione a diventare una star, come Sarkozy o il Papa.
La difficoltà è accresciuta dalla scomparsa del conflitto, precipitato nel politically uncorrect, esecrato dalla politica ridotta a governance.
Siamo tutti sul nuovo Titanic efficacemente evocato da Marco D’Eramo?
Stiamo ripiegando le sedie a sdraio sul ponte mentre l’orchestrina suona l’ultimo valzer (il fascino ormai assolutamente indiscreto del kitsch, rivelato dai grattacieli dei concorsi per Ground Zero o per l’ex Fiera di Milano, dai tre scarabei egiziani dell’Auditorium di Piano a Roma, dalle meraviglie di Dubai …)? Pensiamo davvero di salvare il paesaggio toscano demolendo le villette, dove si sono trasferiti gli abitanti di Monticchiello dopo aver venduto le loro abitazioni nel centro
storico? È davvero brutta la tangenziale di San Lorenzo a Roma? Siamo davvero soddisfatti dello spettacolo della demolizione di Punta Perotti (un Renzo Piano sconfessato dall’autore) a Bari? L’ecomostro (lo dico da responsabile scientifico del progetto Paesaggi & Identità della Regione Calabria), comincia a sembrarmi il capro espiatorio della rinuncia al progetto.
Rem Koolhaas nel suo ultimo libro, Junkspace, riconnette le cose: il degrado, i terrain vagues, gli invisibili (rom, immigrati …) nascosti nelle grandi città come il Fantasma dell’Opera nelle fogne di Parigi, sono l’inevitabile conseguenza della bigness, della grande dimensione.
Bisogna dunque rovesciare il nostro modo di pensare, affrontando di nuovo con lo spirito degli anni Sessanta i costruttori (che in Italia oggi sembrano invece tenere per le palle i Sindaci, dipendenti da loro per far quadrare con ICI ed oneri di urbanizzazione i magri bilanci) per riqualificare le città, partendo dal recupero e dalla trasformazione delle periferie novecentesche degradate anziché proseguire per la strada nota del consumo del territorio. La povertà reale viene mascherata da responsabilità e ricchezza. Mi spiego con un riferimento a qualcosa che, per la mia storia, conosco piuttosto bene, l’effimero delle estati e delle Notti bianche. La ricchezza, anche contraddittoria, di punti di vista diversi e di sperimentazione degli anni Settanta, trasmessa dall’effimero di quegli anni, si è trasformata nella promozione, dominata dal politically correct, di immagini positive quanto auto referenziali ed anche (un po’) infantili della propria città, dei buoni sentimenti, dei ‘valori fondamentali’. Nel politico prevale la gratificazione del consenso sull’ansia della scoperta, il bisogno di rassicurare sulla paura di perdere non già quello che si possiede ma quello che ancora
non si ha.

Gli occhi che non vedono! Anch’io finisco per tornare al grande Le Corbusier, al suo invito, valido oggi più che mai, a spalancare gli occhi sulla realtà. Che non è quella delle immagini mediatizzate del bombardamento televisivo (il Guggenheim a Bilbao di Gehry o la Fiera di Milano di Fuksas viste sempre attraverso le stesse fotografie). Galvano
della Volpe, grande filosofo dimenticato del marxismo italiano degli anni Sessanta, nella sua Critica del gusto rifletteva sul significato dell’architettura, ponendola a paragone da un lato con la sua celebre definizione morrisiana (‘qualsiasi modificazione interessi la crosta terrestre’) e dall’altro accostandola alla musica (‘qualcosa che, al limite, non significa niente’). Mi viene in mente il nothing, il nulla, così ricorrente nell’opera di Shakespeare. Ricordate Macbeth? ‘La vita è una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di strepito, che non significa nulla’. Aldo Rossi nonaffermava qualcosa di diverso, nella sua Autobiografia scientifica, quando definiva la citt
à come la scena fissa della vita. La scena non può sovrapporsi, con soffocante idealismo, alla libera imprevedibilità della vita. Penso a volte di essere diventato comunista – voglio confessarlo – per un errore (rispetto a quella che è stata la realtà storica dei paesi comunisti), perché vedevo nel comunismo (il giovane Marx dei Manoscritti economico filosofici), l’estinzione dello Stato e il passaggio dal dominio della necessità a quello della libertà.
Aldo Rossi letto correttamente – come faceva un altro grande dimenticato, il critico e storico Manfredo Tafuri – non apre le porte alla loquacità post moderna, ma al silenzio tautologico dell’architettura.
Perché dovrebbe comunicare, infatti, se non per scambiare il suo valore di scena fissa della vita con quello (premoderno) di scena del principe? Scriveva il viennese Hermann Broch, comprendendo in modo straordinario già nel 1928 l’intima natura dell’architettura: ‘qualunque cosa faccia l’uomo, lo fa per annientare il tempo, per abolirlo, e quell’abolizione si chiama spazio (…) si può anche capire che a tutte le manifestazioni che si riferiscono immediatamente allo spazio
competa un significato e un’evidenza sensibile, quali non potrà mai pretendere nessun’altra attività umana’. Il significato dell’abolizione del tempo attraverso lo spazio è dato da un (lento) processo di trasformazione dei segni in forme simboliche (il tempio, l’arco, la prospettiva come forma ordinatrice delle città). Questo processo assorbe, trasformandola,
la memoria degli avvenimenti effimeri, della vita che vi si svolge. Non lo si può forzare con la maldestra impazienza dei (pretesi) ‘scienziati della comunicazione’.

Quel che vediamo nelle nostre città e nel continuo urbanizzato che ormai caratterizza il territorio, ha probabilmente poco a che fare con la forma. Nella storia estetica della prima metà del ’900, ha prevalso la tendenza crescente all’astrazione formale. Il neoplasticismo di Mondrian riduceva i colori ai tre colori fondamentali, i volumi ai piani, negava gli angoli per la continuità. Mies van der Rohe ne era l’equivalente architettonico. Mies e Mondrian sono le forme più nobili, il distillato, dell’astrazione. Quell’astrazione che Carlo Belli, in un suo fortunato quanto bel libretto dei primi anni Trenta, Kn, poneva – con preciso riferimento a Kandinskij – alla base dello spirito nuovo.
Fontana, Burri, Rothko, Jackson Pollock ci hanno invece riproposto – dopo gli orrori ripetuti della guerra mondiale – l’irriducibilità della materia (e del corpo) alla forma. L’informale non è l’estrema espressione della forma attraverso la sua negazione, quanto la constatazione dello scacco del tentativo di sostituire l’astrazione alla realtà. Non c’è un metodo, non c’è una disciplina trasmissibile con chiarezza accademica. Ci sono frammenti che dobbiamo accettare in quanto
tali, senza illuderci di poterli rinchiudere in un sistema chiuso di conoscenza.

Questa serie di considerazioni ci propone, in modo del tutto inatteso, una nuova responsabilità dell’architetto. Il politico (credo mi sia permesso di dirlo, perché è un mondo che conosco bene, nella mia natura anfibia, di architetto e studioso di architettura, ma anche di amministratore, ex deputato, ex assessore, ex consigliere comunale), sembra oggi attratto irresistibilmente dal mondo di Walt Disney (ulivi, margherite, asinelli …). È facile scambiare il clone per l’originale. È
esemplare, a questo riguardo, la vicenda dell’intervento di Franco Minissi per la visita (e la protezione) dei mosaici romani a piazza Armerina. Il suo modo – necessariamente complesso, sperimentale e moderno di intervento – è stato scambiato dal solito Vittorio Sgarbi per un mucchio di ferri vecchi, di cui ci si poteva sbarazzare mettendo tutto
sotto un’unica cupola di vetro. Dove si dovrebbe essere precisi – e dunque complicati – il potere politico vuole il bianco e nero. Il compito di dire ‘il re è nudo’, spetta al tecnico, nel nostro caso all’architetto.

R.N. architetto, scrittore, Università degli Studi ‘Mediterranea’ di Reggio Calabria

Unicam - Sito ufficiale
www.archeoclubitalia.it
Archeoclub d’Italia
movimento di opinione pubblica
al servizio dei beni culturali e ambientali

Condividi

Utilizziamo i cookie per offrirti la migliore esperienza sul nostro sito web.
Puoi scoprire di più su quali cookie stiamo utilizzando o come disattivarli nella pagine(cookie)(technical cookies) (statistics cookies)(profiling cookies)