ARGOMENTI DI ARCHITETTURA ISSN 1591-3171 N. 6/2018 DOI: 10.13140/RG.2.2.29360.46088
Dialogo organico per lo spazio dello spirito
Chiesa della Sacra Famiglia di Salerno
ABETI Maurizio (IT)
Abstract
Questa chiesa della Sacra Famiglia, progettata e realizzata tra il ‘69 e ‘71 dall’ arch. Paolo Portoghesi, in partenrship con l’ingegnere salernitano Vittorio Gigliotti, sorge nel quartiere periferico di Fratte, un quartiere popolare della città di Salerno, ed è un’opera estremamente significativa dell’architettura moderna e contemporanea in Italia e non solo Quest’edificio-sacro sacra è stato il primo ha creare uno spazio per l’ascolto con una dinamicità spaziale cristocentrica (centralità dell’altare), eliminando quella separazione tra celebrante e comunità ante-conciliare e plasmando una unità di partecipazione. Il suo spazio liturgico ha una forte qualità simbolica di trascendenza, riassunta da sei grandi cerchi che, connettendosi tra di loro, rappresentano l’unità all’interno della Trinità. Ѐ un’opera sacra che, nel rapporto tra sistema compositivo e contenuto simbolico l’edificio-chiesa, risponde alle istanze dalla riforma conciliare dell’architettura sacra moderna: nella figurazione architettonica evoca il linguaggio di un edificio-chiesa omogeneo, in modo che la sua efficacia come metodo sia associata all’uso liturgico, non a un valore estetico, e nello schema tipologico una rivoluzione radicale della struttura spaziale degli edifici-ecclesiali pre-conciliari.
Introduzione
"Prima d’iniziare l’articolo vorrei evidenziare alcune delle riflessioni, esposte dal Prof. Paolo Portoghesi nell’intervista rilasciatami il 29 giugno del 2017, che riassumono le motivazioni che hanno dettato la progettazione di questa caratteristica ed affascinante chiesa: «Salerno corrisponde a un periodo molto importante della mia vita, perché fu un momento di cambiamenti radicali a livello professionale e personale. Innanzitutto ricordiamo che il progetto della chiesa del rione Fratte di Salerno è avvenuto tra il ‘69 e ‘71 in un momento caratterizzato da un forte dissenso sociale e politico che ebbe come protagonisti gli studenti. Contemporaneamente, la Chiesa viveva un momento di profonda trasformazione a seguito delle riforme conciliari. E su questo sfondo mi si pose il problema di costruire un edificio ecclesiale, che era una delle mie aspirazioni da sempre, da quando ero ragazzo, era il cimento mio più desiderato, avendo studiato Francesco Borromini. L’idea era di creare uno spazio per l’ascolto con una dinamicità spaziale cristocentrica (centralità dell’altare) e dove non ci fosse più una separazione tra celebrante e comunità, ma una unità di partecipazione. E che lo stesso spazio avesse una qualità simbolica di trascendenza, quest’ultima riassunta da sei grandi cerchi che, connettendosi tra di loro, rappresentassero l’unità all’interno della Trinità. Rivolgendosi a me disse: «La cosa che non sapete, che mi sembra essenziale esporla, è che i sei cerchi derivano, con una sostanziale variazione, dalla chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza. Vale a dire, nella chiesa di Borromini la figura spaziale di partenza è basata sul triangolo equilatero ed è il risultato di uno schema geometrico in cui i sei cerchi si incrociano con il triangolo, mentre nella chiesa delle Fratte i sei cerchi, invece di essere combinati secondo una regola statica, quella del triangolo equilatero, sono combinati secondo un principio di rotazione che cerca di interpretare geometricamente la crescita. Quindi, continuità ed organicità per esprimere nell’architettura i processi della creazione della vita, che rappresenta, fondamentalmente, il risultato più profondo. Un altro problema che mi posi è di dare al tabernacolo una valenza significativa: non più piccolo e messo dietro all’altare, ma che avesse uno spazio contemplativo intorno a sé, quindi collocato in una “cappella” adiacente all’aula sacra e ben visibile dallo spazio liturgico, in modo da creare, nel suo silenzio, la migliore atmosfera contemplativa di adorazione e di preghiera individuale. Progettando questa chiesa ho “vissuto” per la prima volta l’esperienza del sacro e ho compreso che la vera dinamicità del grande Mistero liturgico e la sua qualità simbolica e formale della centralità del suo spazio sacro, va oltre l’invenzione individualistica del fare architettonico; ho compreso che il significato simbolico di ogni elemento costruttivo deve evocare non solo una qualità comunicativa (riuscire a parlare ai fedeli che partecipano al rito), ma soprattutto una rivelazione. E su questi aspetti si è concretata l’idea che il Concilio Vaticano II è un’occasione per ripensarla sotto questo aspetto, partendo non dalle tipologie esistenti o dalla tipica “iconicità spaziale” (i banchi a battaglione), spesso realizzate con sistemi compositivi astratti e velleitari, ma capovolgendo radicalmente il concetto progettuale, basandolo sulla qualità simbolica, in modo da ridare all’edificio-chiesa la sua vera significazione di messaggio cristiano.»."
Questa chiesa della Sacra Famiglia, progettata dall’ arch. Paolo Portoghesi, in partenrship con l’ingegnere salernitano Vittorio Gigliotti, sorge nel quartiere periferico di Fratte, un quartiere popolare della città di Salerno, ed è un’opera estremamente significativa dell’architettura moderna e contemporanea in Italia e non solo. Voluta dai Padri Dottrinari, a cui la Parrocchia di Santa Maria dei Barbuti è affidata dal 1935, venne iniziata nel 1971 e consacrata nel 1974.
Ѐ un’opera sacra che, nel rapporto tra sistema compositivo e contenuto simbolico l’edificio-chiesa, risponde alle istanze dalla riforma conciliare dell’architettura sacra moderna: nella figurazione architettonica evoca il linguaggio di un edificio-chiesa omogeneo, in modo che la sua efficacia come metodo sia associata all’uso liturgico, non a un valore estetico, e nello schema tipologico una rivoluzione radicale della struttura spaziale degli edifici-ecclesiali pre-conciliari, che vedremo in avanti.
La sua forma libera, a schema compositivo anti-classico, nasce intorno a una rigorosa struttura geometrica in calcestruzzo cementizio a faccia vista che, caratterizzata dai i detti sei centri geometrici periferici (anfiteatro/sagrato; giardino d’infanzia; cappella del santo sacramento; e da altri il cui compito è di “accogliere” lo spazio esterno circostante), definiscono e annunciano il vuoto del volume interno e, insieme, creano un organismo unitario e avvolgente capace di diventare un’innovazione formale configurata progettualmente sulla centralità. Una nuova immagine organica tale da evolversi nell’ambiente urbano come segno manifestativo di “luogo” sacramentale. Integrazione con il contesto urbano confermata anche dal critico e teorico dell’architettura, Christian Norberg-Schulz, quando scrisse: l’opera sacra «non soltanto soddisfa allo scopo di rendere la parrocchia il fulcro del vicinato, ma illustra anche il significato più profondo del concetto di “memoria”: la riconquista delle esperienze essenziali del passato in modi sempre nuovi.»[1].
La costruzione si presenta, dunque, come un elemento segnico caratterizzante il contesto urbano, o meglio, vuole rendersi manifesta in maniera visibile -internamente ed esternamente- che non è solo una bella opera architettonica, ma ha un significato simbolico: segno di risonanza spirituale del quartiere Fratte. Questa è la sua principale forza innovativa: riconcettualizzare e realizzare la profonda trasformazione dell’edificio-chiesa dettata dalle riforme del Concilio Vaticano II (ricerca sulle forme, sui simboli, sullo spazio liturgico con l’ubicazione dei fuochi liturgici in rispetto alla nata riforma post-conciliare, e soprattutto al significato di “luogo”, quale «entità, data fenomenologicamente, con la quale siamo realmente coinvolti»[2]), in contemporanea alla palese crisi delle istituzioni funzionaliste del Movimento Moderno.
La creatività che irradia la chiesa della sacra famiglia di Salerno
La creatività architettonica che irradia la chiesa della Sacra Famiglia di Salerno (una sorte di “acclamazione” di forme: la sua copertura estesa compiutamente, a somiglianza del cielo senza colonne, sorretta con semplici volte; l e sue particolare curvature dei suoi setti verticali che creano ad ogni lato dell’edificio sacro un’“identica” facciata con la “medesima” forma, allo stesso modo che una è la forma della Santissima Trinità), ci riporta alla sensibilità architettonica di Francesco Castelli detto Borromini (Portoghesi è storico dell’architettura e Borromini studioso), il quale vivacizzava le sue costruzioni barocche con contrastanti movimenti ondulatori delle superfici murarie ed a farle protendere verso l’alto; a tali caratteristiche associava soluzioni stilistiche del tutto nuove e, non infrequente, bizzarre.
Paolo Portoghesi (fondatore del movimento postmoderno in Italia) reinterpreta la storia dell’architettura, libera da ogni finalismo, rifacendosi in ambito progettuale non tanto ad un nuovo stile quanto alla ripresa di forme estetiche del passato elaborate e realizzate con cognizione contemporanee e innovative.
Lo spazio interno ricorda, nella cadenza, la spiritualità delle chiese gotiche, ma il ritmo è nuovo: è spezzato e ricomposto e dialogato per un’“azione” liturgica. «All’interno la sensazione dello “spazio pulsante”, soggetto a continue dilatazioni e contrazioni a mano a mano che cambio il punto di osservazione, nasce naturalmente dalla connessione degli elementi rigidi del piedritto con quelli curvilinei della copertura e dall’ambiguità percettiva dei vari elementi.»[3]. Con la sua copertura a sezione a gradoni, con lo scatto di 25 cm., derivata dall’evoluzione dell’irradiamento concentrico della spazialità dei sei centri esterni innanzi accennati, (o meglio, i campi spaziali dei sei centri, “racchiusi” in cerchi geometrici, espandendosi in onde concentriche, “descrivono” lo spazio in un movimento fluido di convessità interne); con gli allungamenti verticali convessi degli elementi murari, a cui sono inscritti i tagli geometrici per le aperture delle vetrate colorate e con la sua cupola centrale a gradinata concava, generata dall’incrocio di tre grande volte sopra l’altare (questa convessità delle tre volte fa riferimento iconograficamente alle tre persone divine della Trinità), sottolinea, con effetto potente, il grande momento della liturgia: la passione e la resurrezione di Cristo.
Lo spazio interno ricorda la spiritualità delle chiese gotiche
L’ingresso dei fedeli avviene senza disturbare l’assemblea che è ordinata di fronte all’altare, in due zona della chiesa, dal sagrato superiore che è il portale principale e quella di sinistra, ad entrambe si accede attraverso due rampe che circondano la costruzione sacra.
Fermo restando alla dimensione iconografica dell’edificio sacro, la Sacra Famiglia di Nazaret, cui è intitolata la chiesa, «è richiamata dalle due rampe di accesso, che avvolgono come un abbraccio familiare»[4] l’ecclesia convocata.
Per quest’opera di Portoghesi non vorrei fare un discorso solo in chiave di spazi e volumi architettonici; sento invece l’impulso di parlare semmai di volumi e spazi liturgici o di sonorità e silenzi religiosi o semplicemente di dinamicità liturgica. Questa intanto, che illustro è, già al di fuori, una vera chiesa; e poi questa davvero nuovissima ed organizzatissima costruzione sacra è una chiesa tradizionale, cioè doppiamente vera, che non si può confondere con altri edifici di diversa destinazione: una chiesa tradizionale non formalmente, non accademica ma liturgicamente.
Architettura: potenziare il messaggio dei segni liturgici
«Non si può considerare la chiesa solo come opera muraria. Innanzitutto ci si deve porre di fronte ai soggetti per i quali sarà edificata e al Soggetto divino cui è riferita»[5]. Un edificio religioso che vede la sua architettura potenziare il messaggio dei segni liturgici e favorire, anche attraverso una emozione estetica, la contemplazione col Santo, con Gesù Cristo.
Uno spazio “sacro” attentamente progettato per realizzare una partecipazione attiva, piena e feconda del popolo di Dio alla celebrazione liturgica. Partecipazione che qui sviluppa e ritrova una configurazione liturgica cristocentrica, una centralità spaziale intorno all’altare, e che si oppone alle forme spaziali longitudinali e spettacolatrici clericali anti-conciliari. Altare che acquista una profonda forza significante (ubicato, come centro focale dello spazio sacro -centro non prettamente geometrico- su tre gradini circolari in marmo e un basamento a clessidra in cemento) e dove l’attenzione dell’assemblea converge, segnandone simbolicamente il ruolo sacramentale come cuore spirituale di questo corpo che è l’assemblea. «L’altare è il punto centrale per tutti i fedeli, è il polo della comunità che celebra.»[6].
L’altra valenza ontologica toccante di questo spazio liturgico è l’ambone, mensa della parola di Dio, che conforma nell’unità, sia architettonica che spaziale, con il Syntronos ed in modo particolare con l’altare, questa dimensione simbolica cristocentrica detta innanzi. Nella composizione architettonica dello spazio “sacro” è posizionato in alto con le stesse caratteristiche estetiche dell’altare: piedistallo formato da tre gradini in marno e clessidra strutturata in cemento e composta da anelli ascendenti e discendenti di diversa circonferenza.
Un altro tratto particolare di questa spazialità religiosa è la posizione dell’abside che, contenente il Syntronos e la sede del Presidente, segna formalmente e simbolicamente la chiusura della polarizzazione della mensa eucaristica nello spazio “sacro”.
Di grande valenza significativa e simbolica è il Tabernacolo. Questo fuoco liturgico, posto al centro della Cappella SS. Sacramento, evoca, in senso prefigurato, la tenda del convegno dell’Antico Testamento. Realizzato dallo scultore Mario Siniscalco interamente in ottone martellato. «Le geometriche essenzialità delle strutture tubolari sono assimilabili a fiamme accese che riscaldano i credenti e li orientano verso l’alto, dove le aperture circolari invitano al contatto diretto con Dio, tradizionalmente immaginato “nell’alto dei cieli”.»[7].
Un altro componente che arricchisce la composizione liturgica dello spazio religioso è la luce, la quale proveniente, come abbiamo già accennato, dai segmenti geometrici ricavati dalle parete (vetrate colorate) e dall’alto della volta centrale che la proietta sull’altare, tempra il “vuoto dell’edificio-chiesa” con un fenomeno che trascende le manifestazioni umane per arrivare ad essere valore preponderante e fantastico di elemento costruttivo di questo spazio.
Questa chiesa di Portoghesi insegna come un’architettura cristiana possa essere nobile, nuova ed inedita, e d’essere, mi ripeto, tradizionale, ma di una tradizionalità che rappresenta un buon salto di qualità eliminando le inadeguatezze degli spazi e degli arredi, tuttora diffuse.
In rapporto alla storia dell’architettura, tutto il complesso-sacro non perde mai la sua “vitalità” e “presenzialità” come opera architettonica e si offre nel processo artistico-scientifico come patrimonio dell’evoluzione dell’architettura religiosa, a tal punto che sarebbe potuta essere classificata tra le più grandi realizzazioni architettoniche sacre del XX secolo.
Note bibliografiche:
1 Cristian Norberg-Schulz, Alla ricerca dell’architettura perduta. Le opere di Paolo Portoghesi e Vittorio Gigliotti. 1959-1975, Officina, Roma, 1975, p.81.
2 bid., p. 37.
3 Paolo Portoghesi, Le inibizioni dell’architettura moderna, Laterza, Roma-Bari seconda edizione 1979, pag. 139.
4 Ibid., p. 77.
5 La progettazione di nuove chiese. Nota pastorale della Commissione Episcopale per la liturgia della CEI (1993), n. 4.
6 Ibid., CEI (1993), n. 8.
7 Wikipedia, l’enciclopedia libera: Paolo Portoghesi.
Abeti Maurizio Graduate in Architecture Independent researcher Via SottoTen. Gaetano Corrado n. 29 - 83100 Avellino (Italy) cell. Phone: +393393146816 maurizioabeti@gmail.com