LA SCIENZA DEL TEMPO E L’ARCHITETTURA SACRA

L’impressione più viva e insistente, riflettendo sulle forme-di-chiesa di Danilo Lisi, mi introduce nella plasticità del tempo, più che dello spazio. Si dice “i segni del tempo” e si pensa innanzitutto all’usura delle cose passate. Invece, se fossimo in una civiltà dove l’oggetto del desiderio è generare, non consumare, i segni del tempo sarebbero testimonianza dei sogni delle generazioni, che giungono fino a noi: rendono testimonianza della loro vitalità nella nostra maturità che li custodisce, attraverso l’inevitabile cambiamento.
Il corpo tutto preso dall’ossessione di cancellare i segni del tempo, cancella la vita: rende inutile il passato, sterile il presente. E si prepara un futuro stupido come un intonaco di gesso, che rinfresca gli ambienti coprendo affreschi che hanno avvolto la comunità come atti d’amore scritti sul suo corpo.

La tradizione, però, non versa flussi di vita nelle vene delle nuove generazioni, se non concorre alla nuova nascita. La tradizione, in sé, non è oggetto di culto: è grembo di cultura. Lucidare l’argenteria di famiglia – stanca routine di un rito della nostalgia – è inerzia dell’abitudine a una vita che si è congedata, non felice cura della dote da offrire in dono alla vita che ricomincia – non è la stessa cosa. Risentimento del presente, persino. E incredulità del futuro, altro che cura della tradizione: offende gli antichi testimoni, che ci hanno attrezzato la vita per la fede che ora tocca a noi di far vivere.

I corpi ecclesiali di Lisi, che sono certamente pensati come il grembo di una vita della comunità che continua iniziando da qui, e non come sacrari di una memoria che custodisce la nostalgia di se stessa, sono abitati – avvolti, compenetrati, intarsiati, profumati – dai segni che ci consentono di abitare l’intero della ekklesia che vive nel tempo, fin dalla sua fondazione.
E anche prima, nei misteriosi percorsi di Dio alla ricerca della terra in cui porre la sua tenda. Nel suo corpo vivo sono percepibili i segni del tempo e delle generazioni che ci hanno condotti sin qui.L’oro e le vetrate, le pietre e i mosaici, le torri e le colonne, le feritoie e le campane. L’intera storia del luogo che ha nutrito il segno-corpo in cui sono stati generati molti figli – da ultimo, anche noi – si fonde, abbraccio morbido e incorporazione solida, ad un tempo – con la giovane forma che ha ora. E non solo la nostra storia.
L’intera storia della religione abitata dagli umani, nella speranza di una presenza divina, nell’invocazione di una sua risolutiva irradiazione nel nostro habitat quotidiano. A cominciare dalla pietra squadrata e dall’area circolare, che sono la grammatica del luogo sacro di ogni immemorabile tradizione: punto di tangenza e cerchio protettivo fra le costellazioni celesti del sacro e le radici terrene dell’uomo.
La strada della contemporaneità cristiana dell’arte per la liturgia passa certamente – tutta – attraverso questo modo di allestire il rapporto vivo con la memoria.
Per ambientare l’intero spazio dell’edificiochiesa dobbiamo riambientarci con l’intero tempo della Chiesa. È tempo di coraggio dell’umiltà, questo: la presunzione di un nuovo inizio, che si lascia tentare dalla pura rimozione del genius loci che ci ha condotti alla soglia di questa transizione, genera nudità sgraziate. È anche tempo di audacia della generazione: che trae dalla sapienza dei padri e delle madri le parole-chiave per affrontare la nostra iniziazione.
Insomma, è tempo di un’architettura sacra che accetta di farsi scienza del tempo, prima che dello spazio. E non è detto che non se ne apra una strada, alla fine, anche per la città dell’uomo. Più storia, meno geometria, nella composizione. Più musica, che metafisica, nel racconto delle pietre sacre. La musica, in chiesa, vola più alto.

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