Oggettistica: eresia o arte?

Fino a tutto il 1700 la qualità dell’oggettistica sacra è stata legata al normale percorso dell’arte. Per molto tempo neppure è esistito il termine di oggettistica (brutto termine) che usiamo oggi; né esisteva la distinzione tra i generi che è venuta affermandosi in seguito. Ora si richiede di recuperare il decoro degli oggetti per uso liturgico.

La maggior parte dei prodotti passati che consideriamo arredo sacro e che abbiamo ancora la fortuna di possedere, è legata al talento di artisti anche di rilevante spessore. Quando gli artisti non erano in grado di eseguire i propri progetti li passavano alle botteghe artigiane nelle quali trovavano la risposta che si aspettavano. Del resto tra gli artisti e gli ar tigiani non esistevano distanze abissali; le sponde che li dividevano avevano confini piuttosto labili. Solo la qualità del prodotto rinviava alla capacità del talento. Facendo una corsa mnemonica nei grandi e piccoli musei diocesani scopriamo come siamo imbarazzati nel definire artistico o artigianale quanto vi troviamo esposto. Solo un’arida classificazione positivistica ha potuto creare certe nette separazioni di generi. Rivisito alcuni reliquiari eseguiti prima del mille, provenienti dall’area carolingia, alcuni acquamanili tedeschi del secolo XII, un crocifissoreliquiario in bronzo bizantino del IV secolo, la Stauroteca aurea smaltata di Pasquale I (817-824), già nel tesoro del Sancta Sanctorum della Scala Santa. Chi si preoccupa di indagare se gli esecutori di questi pezzi appartenessero alla categoria degli artisti o a quella degli artigiani? Quello che invece importa sapere è che tali oggetti erano il prodotto di una cultura che si esprimeva con coerenza in ogni aspetto della vita che quella cultura aveva prodotto. Gli architetti, i pittori, gli scultori, gli artigiani che allora erano incaricati di disegnare, eseguire un tabernacolo, un reliquiario, un calice, un candeliere vivevano la loro cultura e le opere loro la riflettevano senza forzature. Ora gli stessi creativi hanno rinunciato quasi sempre a questo diritto-dovere e hanno consentito l’invasione del prodotto industriale, che ormai tracima sfacciatamente dai negozi della cosiddetta ‘arte sacra’ con un campionario che chiamarlo scadente sarebbe un pietoso eufemismo. Allora dai musei diocesani passiamo a questi negozi dai quali ormai si riforniscono i responsabili del culto e delle chiese, nella generale disattenzione e noncuranza, appunto, dei progettisti e dei liturgisti.Vi si trovano, in questi bazar di ‘arte sacra’, acquamanili, croci, candelieri, calici, statue e statue e ancora statue: tutto così degradato da sconfinare nell’eresia per i contenuti e per certe amenità formali che definirei di felliniana memoria. Se ci fermiamo a considerare i loro riferimenti stilistici possiamo dividere, grosso modo, questi prodotti in due categorie: quelli che rifanno l’antico e quelli che vorrebbero essere moderni. Se si vuole offrire all’acquirente un calice ‘prezioso’ o una croce ‘davvero speciale’ gli si danno oggetti in ‘stile gotico’.

Il prodotto industriale ormai tracima sfacciatamente dai negozi della cosiddetta ‘arte sacra’.

Ma c’è anche una larga offerta di prodotti barocchi. Se, invece, ci si orienta sul ‘moderno’ allora la gamma dell’offerta è pressoché illimitata. Ma in quale repertorio di arte contemporanea, i disegnatori che lavorano per le ditte che riforniscono i suddetti negozi, pescano le loro idee per ammannirci quei loro calici dalla impugnatura grumosa, lacerata, densa di spunzoni, difficili da tenere in mano e che non stanno in piedi sulla mensa, nessuno lo sa. E come permettono i progettisti di nuove chiese che il tabernacolo, per esempio, venga modellato da un improbabile scultore che te lo stipa di tagli, vetrini, raggi ed altri inutili accessori e di dimensioni arbitrarie che mal si adatteranno allo spazio ad esso destinato? Il tabernacolo è un oggetto per un uso specifico e fa arredamento. Se arreda, non è compito e nell’interesse del progettista disegnarlo, in coerenza con lo spazio che egli ha progettato? Ma la situazione è ancora più insostenibile quando questi nuovi fantasiosi prodotti vengono collocati in chiese dalla ricca, inviolabile storia artistica. Il vulnus che si arreca a questi spazi ‘protetti’ non sarà più sanabile perché, quasi sempre, gli oggetti precedentemente rimossi, sono finiti ignominiosamente nei negozi esclusivi dei predatori antiquari. Con questi prodotti così degradati e artisticamente inconsistenti, non si arreca danno solo alla cultura. La sensazione di provvisorietà che se ne riceve, priva il rito, nel quale essi sono impiegati, di quella organicità, di quella solennità e coerenza tra il simbolo e lo strumento che lo esprime e che invece la liturgia ha sempre perseguito. Il fedele nella sua vita sociale non è indotto a queste schizofrenie di gusto, a questi scempi tra la qualità dell’oggetto d’uso e il suo impiego. Il design industriale gli fornisce dei prodotti atti all’uso e stilisticamente belli, spesso preziosi o sofisticati, tutti volti ad esaltare non solo la funzione, ma anche ad accendere il gusto del fruitore. Perché il design, se c’è, che si occupa dell’oggettistica sacra non si è messo sullo stesso percorso? L’esteso commercio che si fa di questi prodotti l’ha forse dispensato dalla serietà dell’offerta. E implicitamente ha considerato gli acquirenti e i fedeli privi di sensibilità e di gusto. Privi di amore per la loro liturgia, privi di interesse per il decoro della casa di Dio e del culto che lo riguarda.
P. Tito Amodei

 

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