Marco Romano



Come altre città delle Marche Camerino è in qualche misura dominata dal palazzo ducale, qui costruito sul finire del Quattrocento da Giulio Cesare Varano, reputato condottiero che, dopo aver sposato una figlia di Sigismondo Malatesta ritiene giunto il momento di dare alla sua capitale un’impronta monumentale, trasformando le antiche case di famiglia – i Varano sono di fatto, con alterne fortune, signori della città dal 1263 – in un solo grande edificio con una dignitosa veste
architettonica rinascimentale.

Se a Rimini Sigismondo Malatesta, aveva affidato a Leon Battista Alberti il mausoleo di famiglia, ma aveva rinnovato per la stirpe vivente il vetusto castello in uno stile neomedievale da far invidia ai revival ottocenteschi, Francesco Laurana nel 1465 e Francesco di Giorgio nel 1472 hanno poi suggerito a Urbino e a Urbania edifici double face, con le facciate in forma di palazzo verso l’interno della città e muraglie turrite – seppure ingentilite da logge – verso la campagna, E se
questo accorgimento non era praticabile nelle città di pianura perché un castello credibile doveva essere circondato da un fossato, che di fatto lo distanziava dalla città – sicché a Pesaro e a Senigallia dovrà venire costruito sia un castello ai margini dell’abitato sia un palazzo in una piazza della città – era invece adattissimo per Camerino, dove il palazzo ducale avrà dunque una dignitosa facciata sulla piazza maggiore e una muraglia, con la sua brava loggia, verso le dolci colline
della Marca.

Questa piazza maggiore è poi, tra quelle marchigiane con un’architettura unitaria, curiosamente ibrida, perché non costituisce la cornice al palazzo ducale come a Urbino né alla chiesa come a Loreto ma semmai a entrambi, costruita in gran parte per ospitarvi l’arcivescovado e gratificata di una splendida statua del concittadino papa Sisto V, decretatagli subito dopo l’elezione, al soglio pontificio.

Tuttavia a Fermo, e persino nella vicina Caldarola, in una piazza simile troviamo il palazzo municipale: ma qui il palazzo municipale lo rintracciamo risalendo dalla piazza maggiore su per la strada principale, lì sulla destra, con la sua appropriata piazzetta di fronte, ma in un sito del tutto incongruo, perché la strada principale prosegue oltre codesta piazzetta, e poiché per consuetudine la strada principale è disposta tra una delle porte della città e la piazza principale, risalendo la via fino al suo termine, dopo gli ultimi negozi di pregio, compare la vera piazza principale di un tempo – quella appunto dell’arengo, dell’assemblea pubblica – l’attuale piazza Garibaldi con la sua allegra fontana bacchica dove si ergeva un tempo il modesto palazzo municipale.

Quanto a quello fastoso di oggi, a mezzo della strada principale, era nel 1575 il palazzo vescovile, generosamente ceduto al Comune dall’arcivescovo dopo l’inaugurazione del nuovo nella piazza maggiore, di fronte al palazzo ducale.

L’urbs – che ha nel centro come di consueto la piazza principale con il palazzo municipale – è dunque a sud ovest della piazza maggiore, nelle stradine dov’era il ghetto, nella antica chiesa di San Francesco – come di consueto, vicina ai quartieri popolari – e nella più recente chiesa di San Filippo con la sua piazzetta, ma anche nella strada monumentale, con le tracce dei maggiori palazzi patrizi, che dalla piazza principale scende – dalla parte opposta rispetto alla strada
principale: ma anche questa è una disposizione ricorrente – verso la bella facciata barocca di Santa Maria in Via e verso il mercatale, il prato della fiera lì disposto nel 1283.

Quando, nel 1728, si costruirà un vero teatro – seppure in legno – lo si realizzerà, a costo di erigerlo nel cortile del palazzo municipale, nella strada principale, e lì verrà mantenuto anche nel 1855, quando lo si vorrà rifare com’è oggi, in muratura. E dall’Ottocento verrà consolidata una sequenza parallela più a valle – scandita dal portale di qualche antico palazzo – con nel 1828 l’orto botanico (subito sotto il palazzo ducale), con l’elegante revival rinascimentale della Cassa di Risparmio, fondata nel 1845, con l’albergo moderno dei Duchi, e dopo il 1860, annunciata dalla piazza di Santa Maria in Via e dalla sua facciata barocca, sarà proprio lì davanti, nell’antico mercatale, che verranno realizzati il giardino pubblico e la piazza nazionale con il monumento ai caduti.

Come in quasi tutte le città del XII secolo la cattedrale era disposta ai margini dell’incasato, e nel nostro caso in un grande sagrato dove Gentile Varano costruisce subito – quattro anni dopo la radicale distruzione ghibellina nel 1259, nel fervore della sua energica ricostruzione promossa raccogliendone dai villaggi vicini i dispersi abitanti – la casa della propria famiglia e dei suoi discendenti, cui i camerti rimasero soggetti, dopo questo episodio di rinascenza, quasi per naturale devozione seppure non sempre graditi, né d’altra parte i Varano saranno solleciti nel riconoscere ai cittadini i loro diritti consolidati, solo alla fine del Quattrocento un nuovo ospedale e solo ai primi del Cinquecento il monte di pietà.

Quasi corte della loro dimora, il sagrato diventa piazza d’armi e lizza da torneo – reputato valente giostratore fu Giovanni Varano nei primi decenni del Quattrocento – e costituisce il limite simbolico dell’urbs, dove prende corpo un borgo dominato da temi connessi alla sfera religiosa avviato, dietro l’abside della cattedrale, nel sussulto della chiesetta
di San Venanzetto, in una sequenza aperta dal convento dei domenicani con il suo immenso chiostro: un ordine predicatore che combatte le eresie sul versante teologico piuttosto che, come i francescani, con il semplice esempio della propria vita rigorosa, e dunque qui la sua collocazione dalla parte opposta della città rispetto al convento
francescano – contrappuntata nel 1615 dal monastero di Santa Caterina sotto la loro direzione -suggerisce la colta nobiltà del borgo rispetto al cuore dell’urbs.

La chiesa di San Domenico annuncia poi il grandioso santuario di San Venanzio, protettore di Camerino, alto sul paesaggio lontano, quas
i l’annuncio della città su un profilo di tetti, non dimentichiamolo, di case intelaiate di legno e al più di due piani. La loro sequenza crea, nel contrasto con la loro pretenziosa presenza, il silenzioso e defilato spazio dove agli inizi del Cinquecento Giulio Cesare vorrà edificato il Tempio dell’Annunziata, che – come il Tempio malatestiano a Rimini e numerose altre chiese contemporanee, a Cortemaggiore, a Sabbioneta, a Senigallia – sarebbe dovuto diventare il mausoleo di famiglia proprio quando le signorie, compresa quella dei Varano, vanno declinando.
Una singolare navata ritmata da robuste e tozze colonne sostenute da alti basamenti cubici e concluse da massicci capitelli corinzi sormontati da un pulvino, completata, dopo la morte del padre e dei fratelli strangolati dal duca Valentino, dal figlio superstite: ma sarà, il suo, quasi una sorta di ultimo guizzo della dinastia. Ottenuti da Leone X la mano della nipote, Caterina Cybo, e l’agognato titolo di duca, sarà nel 1545 sua figlia Giulia a perdere definitivamente il ducato, passato all’amministrazione diretta di un legato pontificio: e se i Varano, rimasti doviziosissimi, si estingueranno nel 1882, nessuno verrà mai solennemente sepolto nel Tempio dell’Annunziata.

G. Marucci, Camerino, veduta della basilica di San Venanzio, disegno a china, 1998

La basilica del Santo protettore distinta dalla cattedrale, sede del vescovo, è ricorrente – a Venezia, a Bari, a Bologna – dove spesso la fa dimenticare, ma qui la cattedrale sarà anche la sede del legato pontificio e dunque la sua piazza la esalterà.

La chiesa domenicana segna anche l’inizio di una sequenza che non ha perso vigore ma anzi ne ha forse assunto. Prima ancora di metter mano al palazzo ducale, nel 1484, Giulio Cesare Varano rileva dagli olivetani il loro convento, abbellito con un doppio chiostro e in seguito da un coro ligneo fastoso, per farne un convento di Clarisse dove trasferire la figlia Camilla – oggi in predicato di venir riconosciuta Beata – dalla clausura di Santa Chiara a Urbino. Più oltre la sequenza coglie il monastero di Santa Maria del Carmine, e forse per questo, per essere accompagnati all’ultima dimora dallo sguardo pietoso delle clarisse e delle carmelitane, che la sequenza verrà chiusa dal cimitero moderno.

Tuttavia, nonostante la diocesi di Camerino fosse una delle più estese delle Marche – sfogliata in seguito da Matelica, da Fabriano, da Treia – questa sequenza è tutta in qualche modo espressione dei Varano, realizzata nel seguito del loro dominio, e soltanto dopo il loro declino assumerà la veste attuale.

Dopo un breve periodo nel quale la politica della Santa Sede fu incline a consolidare il proprio dominio riconoscendo alle città le loro autonomie e soprattutto legittimando i loro statuti popolari – a Camerino lasciando fiorire dal 1435 al 1444 un vero e proprio governo delle arti – ai tempi del suo effettivo inglobamento cent’anni dopo promuoveva invece soltanto una giurisdizione affidata a un proprio legato e un governo aristocratico fondato su famiglie nobili di nuovo conio – seppure, per volontà della chiesa, governo di mano leggera – politica che tra l’altro in molte città dei domini pontifici stimolerà codeste famiglie a rappresentare in un palazzo adeguato questa loro irreversibile dignità aristocratica, di matrice pontificia anziché imperiale.
Ma nel frattempo il dominio pontificio cancellava le tracce mondane del dominio precedente, il ghetto giudeo verrà irreversibilmente chiuso, al centro della strada principale verrà edificato il palazzo del cardinal legato che a Recanati o ad Ancona o ad Ascoli Piceno veniva invece defilato nella piazza del mercato – al posto della lizza dei tornei sullo spiazzo davanti alla cattedrale verrà costruito il nuovo palazzo episcopale (mentre quello precedente diventerà la sede del Comune) mentre il palazzo ducale verrà aperto ai cittadini e lì dunque verranno allestiti gli spettacoli teatrali – rammentano i cronisti un legato pontificio morto d’infarto, nel 1565, mentre vi si recava a veder la commedia – mentre nella piazza maggiore verranno bruciati i fuochi artificiali e, trasformata in anfiteatro con le panche in legno, vi si terranno nel 1658 arditi certami sulla legittimità dell’amor geloso.
Il dominio della nobiltà e del legato pontificio – nel declino cominciato con la scomparsa della brillante corte dei Varano – avrà curiose sfaccettature. Per esempio, quando i gesuiti chiederanno che venga loro affidata l’educazione dei giovani, nel 1609 (e ancora dieci anni dopo), verranno loro preferiti i padri filippini, la cui povertà e dipendenza dal Comune sembrava garantire il controllo del Comune, e persino il seminario – un tempo gestito insieme al Tempio dell’Annunziata dai padri gerolamini – quando venne trasferito sulla piazza maggiore accanto all’espiscopio, venne affidato ai padri somaschi. Il palazzo ducale è diventato palazzo apostolico e verso il 1770 vi si collocheranno all’ultimo piano le scuole e, con opportuno ampliamento, la biblioteca valentiniana.
Ma qui pesa anche il principio che l’autorità della sua università, fondata nel 1366 e rifondata nel 1727, il cui riconoscimento nel 1753 come fonte autorevole di titoli riconosciuti in tutto l’impero asburgico avrà pur significato qualcosa, fosse in definitiva più accreditata di quella dei gesuiti: i quali, insisti insisti, arrivarono soltanto nel 1839, per venirne allontanati solo otto anni dopo.

Ma, ecco, di questa vicenda della quale resta vistosa impronta nel disegno di insieme dell’urbs, nelle sue sequenze, rimane invece più modesta traccia nella consistenza architettonica dei suoi palazzi. Nel settembre del 1799, nel pieno dei rivolgimenti politici e sociali imposti dalle armi francesi, un terremoto – che replica quello lontano del 1279 – distrugge la città e se verranno racimolate le risorse per ricostruire San Venanzio e la cattedrale, le famiglie non saranno in grado di ripristinare i loro palazzi, le cui rovine passeranno di mano con l’avvento di un nuovo ceto borghese, che manterrà i portoni monumentali di un tempo – consentendoci di immaginarli in allora – ma li ricostruirà poi ricorrendo alle piattabande moderne, ai mattoni pressati, aprendo negozi e magazzini: e soltanto la monumentale sede mo
derna della
Cassa di risparmio – sempre tuttavia rigorosamente nella città moderna – ha evocato e sottolineato cent’anni fa con il suo aspetto sontuoso il rilievo di Camerino, della sua sterminata diocesi.

M.R. architetto urbanista, professore di Estetica della città

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