Lo spazio “indicibile”

Mons.
Gianfranco Ravasi Prefetto della Biblioteca Ambrosiana

“Il mondo è come l’occhio: il mare è bianco, la terra è l’iride, Gerusalemme è la pupilla e l’immagine in essa riflessa è il tempio”. Questo antico aforisma rabbinico illustra in modo nitido e simbolico la funzione nel tempio secondo un’intuizione che è primordiale e universale. Due sono le idee che sottendono all’immagine. La prima è quella di “centro” cosmico che il luogo sacro deve rappre-sentare, un tema sul quale il grande studioso delle religioni Mircea Eliade (1907-1986) ha offerto un vasto dossier documentario. L’orizzonte esteriore, con la sua frammentazione e con le sue tensioni, converge e si placa in un’area che per la sua purezza deve incarnare il senso, il cuore, l’ordine dell’essere intero.
Nel tempio, dunque, si “con-centra” la molteplicità del reale che trova in esso pace e armonia: si pensi solo alla planimetria di certe città a radiali connesse al “sole” ideale rappresentato dalla cattedrale posta nel cardine centrale urbano (Milano ne è un esempio evidente, come New York è la testimonianza di una diversa visione, più dispersa e babelica). Dal tempio, poi, si “de-centra” un respiro di vita, di santità, di illuminazione che trasfigura il quotidiano e la trama ordinaria dello spazio. Ed è a questo punto che entra in scena il secondo tema sotteso al detto giudaico sopra evocato.
Il tempio è l’immagine che la pupilla riflette e rivela. Esso è, quindi, segno di luce e di bellezza; detto in altri termini, potremmo affermare che lo spazio sacro è epifania dell’armonia cosmica ed è teofania dello splendore divino. In questo senso un’architettura sacra che non sappia parlare correttamente – anzi, “splendidamente” – il linguaggio della luce e non sia portatrice di bellezza e di armonia decade automaticamente dalla sua funzione, diventa “profana” e “profanata”. E’ dall’incrocio dei due elementi, la centralità e la bellezza, che sboccia quello che Le Corbusier definiva in modo folgorante “lo spazio indicibile”, lo spazio autenticamente santo e spirituale, sacro e mistico.
Certo, questi due assi portanti trascinano con sé tanti corollari: pensiamo alla “sordità”, all’inospitalità, alla dispersione, all’opacità di tante chiese tirate su senza badare alla voce e al silenzio, alla liturgia e all’assemblea, alla visione e all’ascolto, all’ineffabilità e alla comunione. Chiese nelle quali ci si trova come in un palazzetto dello sport, schiacciati come in uno sferisterio, abbruttiti come in una casa pretenziosa e volgare.
Il Premio “Frate Sole” vuole proprio rincorrere per il mondo a segnalare non tanto una straordi-naria architettura dalla sintesi complessa e dalla stilistica sofisticata. Vuole più semplicemente isolare un segno di estrema purezza che sappia mostrare senza ambiguità o perifrasi còlte quello “spazio indicibile” in cui Dio possa essere ospitato – Lui che “i cieli e i cieli dei cieli non possono contenere”, come dice Salomone proprio nella preghiera di consacrazione del tempio di Sion – e l’uomo e la donna lo possono incontrare.
In questo senso, come è accaduto per Tadao Ando nel 1996 (in occasione della prima assegnazione del Premio) e come accade ora con l’arch. Alvaro Siza, presenta davanti al fedele e al costruttore, al committente e all’architetto, quasi un paradigma che in modo immediato e incisivo riveli l’idea semplice e quasi prototipica del tempio, al di là delle connotazioni specifiche confessionali. E, come è noto, la semplicità di un’opera o di un’affermazione è paradossalmente ardua da raggiungere, richiede una purità e una purificazione, una liberazione e una trasparenza. Richiede appunto che dica subito il “centro” e la bellezza, cioè il senso ultimo e l’armonia dell’essere come luoghi dell’incontro con l’infinito e l’eterno.
Solo così i segni molteplici del culto e delle presenze acquisteranno il loro valore e si compirà quello che auspicava uno dei maggiori teologi ortodossi del Novecento, Pavel N. Evdokimov (1901- 1970), quando nella sua opera Ortodossia del 1959 scriveva: “Le forme architettoniche di un tempio, gli affreschi, le icone, gli oggetti di culto non sono mai riuniti come se fossero esposti in un museo; come le membra vive di un corpo, essi sono pervasi da una stessa vita misteriosa, immersi in un unico canto di idee”.

Mons. Gianfranco Ravasi

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