I paramenti liturgici

Tratto da:
Chiesa Oggi 41
Architettura e Comunicazione

I paramenti liturgici

 

Antonio Santantoni Liturgista, Pontificia Università Lateranense

 

Una casula disegnata da P. Costantino per il Santuraio del Divino Amore. Il segno della croce viene esaltato dallo sfondo i cui colori e forme lo rendono tanto vicino quanto universale.


Prof.Don Antonio Santantoni

Se la liturgia è un “drama”, un’azione scenica ben misurata e rigorosamente costruita secondo schemi e ritmi ordinati e precisi, allora bisogna che tutto in essa sia misurato e previsto secondo regole altrettanto stabili (non però immutabili) e precise. Non è pensabile un’azione teatrale, un’attività tra le più vicine alla natura dell’azione liturgica, in cui ciascuno agisca a suo arbitrio, dagli attori allo scenografo, dal costumista al coreografo. Una tale anarchia pregiudicherebbe gravemente l’efficacia drammatica dell’azione, e non solo sul piano estetico. La stessa capacità di trasmissione del significato spirituale e sociale del messaggio originario ne sarebbe gravemente compromessa. Da questo punto di vista un errore di valutazione nella scelta di un particolare potrebbe comportare un totale capovolgimento di senso, fino a rendere comico il drammatico e farsa la tragedia.
La linea di confine tra i diversi generi può essere talvolta incredibilmente sottile. Riflettevo su queste apparenti ovvietà tenendo un corso sul simbolismo di paramenti e parati per la liturgia. Certo nessuno si sognerebbe di mettere in discussione il sacrosanto principio che nulla merita più decoro e bellezza, splendore di forme e ricchezza di materiali dei sacri arredi e dei paramenti liturgici. Lo stesso splendore delle insegne e dei sacri simboli ci parla della sublime grandezza del mistero che in essi si nasconde e al tempo stesso si rivela (antica formula romana dell’Ordinazione episcopale). E tuttavia anche altre vie potranno risultare utilmente praticabili, sebbene apparentemente antitetiche rispetto a quella appena indicata. Così nessuno potrà contestare l’uso di arredi e di paramenti semplici ed essenziali e perfino poveri in uno spazio liturgico nudo e disadorno. Che ci farebbe in una cripta romanica o in un oratorio francescano la sontuosa ricchezza di un broccato e di un ricamo barocco?
I linguaggi sono diversi, e se il secondo ci parlerà dello splendore della gloria divina, i primi, rifuggendo da ogni ricercatezza di tessuti e di materiali, di ricami e di accessori, si propongono come superamento della faticosa mediazione del simbolo per appagarsi nella ricchezza inesauribile della povertà di Cristo. Proprio questa legittimità della doppia lettura simbolica dell’arredo e del paramento per la liturgia rendono ugualmente legittime le diverse interpretazioni conosciute nel corso della storia. Diversità di interpretazione manifestatesi non solo nel senso di uno sviluppo diacronico e per così dire rettilineo, ma anche in un continuo intrecciarsi, sovrapporsi e fiancheggiarsi in senso sincronico. Legittime ambedue. Con un solo limite e a una sola condizione: che l’una e l’altra lettura siano veramente efficaci nell’assolvere la loro vocazione di trasmissione del mistero, di quella parte di verità che si impegnano a veicolare e a trasmettere.
Nel mistero infatti c’è spazio per ambedue le visioni: lo splendore dei materiali, dei tessuti, delle forme parlano della grandezza e della sublime santità del sacramentum celebrato: la croce gemmata non è il tradimento della nudità del legno ‘di maledizione’ (Gal 3, 13), ma è il simbolo glorioso della potenza del Signore risorto e la figura della sua nuova condizione di trionfatore del peccato e della morte. Non è male, da questo punto di vista, che le due letture coesistano. Il nostro occhio non è in grado di distinguere nel raggio di luce bianca tutti i colori dell’iride. Per questo serve un prisma.
Nella liturgia tale ruolo è svolto dalla celebrazione, coadiuvata da tutti gli elementi che la arricchiscono. Il fasto di un paramento barocco mal si accompagna alla povertà di un romitorio, così come la solenne austerità di una cocolla non si adatta alla solennità di un pontificale. La banalità di un falso ricamo può forse essere tollerabile nella semplicità di una chiesa di campagna, ma stonerebbe pesantemente nella magnificanza di una grande cattedrale gotica o rinascimentale. E spesso sia il primo sia le seconde affondano come smarriti e privi di senso nell’essenzialità di certe architetture moderne, dove è la luce a farla da protagonista e quasi da demiurgo nello spazio liturgico. Proprio per questi casi mi sento di dire che oggi parati e paramenti liturgici andrebbero creati da un vero artista nella chiesa finita, completata delle sue finestre e delle sue vetrate, dei suoi pilastri e delle sue coperture, per riprenderle e riassumerle, per farne parte e farsene interprete. Non mancano esempi in proposito, anche se ancora troppo rari. Preziose, in proposito, le iniziative di avanguardia di Colonia. Illuminanti gli esempi di P. Costantino Ruggeri, che sembra riassumere nelle sue casule gli effetti tematici e cromatici delle sue vetrate. Una strada promettente, su cui vale la pena di continuare a camminare e a sperimentare.

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