Una tradizione che continua

Servizio di Alberto Pitton

Elemento tipico e fondamentale della cucina friulana è il fogolâr, parola dialettale che significa focolare, simbolo ed epicentro delle case friulane soprattutto negli ultimi quattro, cinque secoli di storia.

Prima del suo avvento la struttura preposta per il fuoco all’interno delle abitazioni era costituita da quattro legna messa in croce e poste sul pavimento, al centro dell’unico locale dove si viveva. Il fumo prodotto usciva da una piccola finestra posta in alto alla stanza o attraverso la porta, a seconda delle stagioni ; non c’era canna fumaria, poiché essendo il tetto di paglia c’era pericolo che le faville che uscivano dal comignolo provocassero incendi. Inoltre il fumo, prima di uscire, vagava per la cucina deponendo caligine sulle pareti e sulle travi. La cucina veniva chiamata cjase de fum (casa di fumo). La gente allora sapeva convivere con il fumo: bastava stare seduti mentre la cappa di fumo fluttuava sopra le teste. Anche il forte odore che impregnava abiti e capelli non era un problema poiché tutti lo portavano addosso. Va ricordato poi che spesso veniva messa ad ardere legna verde di acacia, poiché era l’unica a bruciare senza essere stagionata. Il fogolâr, invece, è un impianto che dal punto di vista strutturale e funzionale, ha agevolato le funzioni domestiche delle persone. Innanzi tutto l’elemento caratteristico è la sua collocazione centrale, in mezzo alla cucina o addirittura in un’apposita stanza che sporge dal corpo di un edificio, retaggio dell’antica concezione del focolare inteso come centro della casa e delle attività di cucina e, ancora più in dietro nel tempo, del cerchio di pietre che ospitava il fuoco domestico che compare nelle capanne preistoriche. Questa concezione sopravvive nell’arcaica tradizione friulana del fogolâr, un impianto caratterizzato dall’enorme cappa stondata, completata di solito da una tendina confezionata dalla donna di casa) che alla funzione estetica unisce il vantaggio di facilitare il convoglio dei fumi all’interno della cappa. Quest’ultima, dall’inconfondibile tipologia "a cipolla" o "a pera" ma a volte anche squadrata, raccoglie i fumi dell’enorme focolare aperto e li convoglia nell’apposita canna fumaria.

Per ottenere questo risultato, numerosi sono gli accorgimenti e le regole da dover rispettare nella costruzione di tale impianto. Innanzitutto è importante la distanza tra il piano cottura e la cappa: più breve è la distanza maggiore e più rapido è il con-vogliamento del fumo verso l’esterno. Per un buon funzionamento della canna fumaria, è necessario che il fuoco non venga mai acceso perpendicolare alla canna fumaria: il fumo nel percorso di uscita deve formare una "S", perché altrimenti l’aria fredda che scende dalla canna fumaria, schiaccerebbe l’aria calda non permettendo al fuoco di irradiare il calore.
Tanto più che per non far entrare troppa aria fredda dall’esterno la cappa non deve essere troppo grande. Il focolare vero e proprio è costituito da un rialzo quadrato o circolare, di almeno 50-60 centimetri rispetto al pavimento, con un rivestimento esterno di mattoni ed il ripiano superiore in lastra di pietra o sempre di mattoni. Sempre nella parte anteriore c’era una piccola rientranza ad arco (le entrade) che permetteva alle donne di avvicinarsi alle pentole.
Sempre nella parte anteriore, vicino al pavimento, c’era una cavità che serviva a contenere una piccola scorta di legna. Ai lati delle entrade c’erano due sportellini che, contenevano due fornelli che riempiti di braci, servivano a cuocere pietanze senza fuoco vivo. Tutt’intorno, poi, era circondato da panche o sedie. Sopra la base del focolare troneggiava il cja-vedâl chiamato in italiano "alare doppio". Solo in Friuli si è conservata la tradizione di questo antico attrezzo che, nelle grandi cucine, assicurava la contemporanea presenza sul fuoco di vari contenitori e nello stesso tempo faceva da reggilegna. Da sempre è in ferro battuto.

Fabbro Canciani.

A Nimis, un paesino, inserito nei colli orientali del Friuli, la famiglia Canciani si trasmette da quattro generazioni l’arte del farro battuto.
Rinomata e assai conosciuta è stata soprattutto, per quanto riguarda la costruzione
dei cjavedâls, l’opera fertilissima di Romano Canciani che ha operato in questo
settore fino all’età di 93 anni.

Il cjavedâl: era composto essenzialmente da quattro barre che gli davano la forma rettangolare (all’incirca 1,20 m di base e 1 m di altezza) e poggiava su due coppie di piedi distanziate dal traviers. Nei montanti verticali erano situati due bracci girevoli recanti una breve catena che terminava con un gancio a cui venivano appesi i pentolini per la cottura per tenere in caldo il cibo. Nella parte superiore di questi montanti, si trovava un cestello a forma di calice (le citarie) che serviva a contenere la ciotola del sale, ma anche per tenere in caldo qualche pietanza,gli accessori del cjavedal, che venivano appesi ad esso mediante un uncino erano: le molecje, pinze utili a smuovere le braci ed el palet che serviva per la cenere. Sempre unito al cjavedal era il cjadenàç, una pesante catena che pendeva dal soffitto direttamente sul fuoco e serviva a sostenere il paiolo (cjardèrie), quasi sempre in ghisa o in rame,
per la polenta, alimento principale della famiglia friulana, che veniva mescolata (pocade) con un grande mestolo di legno (le mace de polente). Altri recipienti sul focolare erano il cjalderin, una piccola caldaia in miniatura, di rame, usato per fare il caffè d’orzo ed eventuali padelle di coccio (pignates di crep). Inoltre, sul piano cottura vi erano la gardela (la griglia), il tire boris , strumento per accostare le braci durante l’utilizzo della griglia e il il soflèt per ravvivare il fuoco.

 

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