Un’arca al colle

Prof. Domenico Bagliani

Inviato dalla Sezione Arte e Beni culturali dell’Arcidiocesi di Torino per un sopralluogo, visitai, al colle Don Bosco, il tempio superiore, e notai le carenze di tipo strutturale. Vidi gli schizzi a colori della proposta progettuale dello studio Trucco. Quelle piccole prospettive dense ma trasparenti, che lasciavano intravedere profondità e vibrazioni, mi piacquero e pensai: “…quel diavolo di Stefano ha di nuovo fatto centro”. Quando poi vidi l’opera compiuta provai un effetto di spiazzamento, un vero crowing-out, come direbbero gli Inglesi. La piacevole incertezza degli schizzi era violentemente sopraffatta da una solida e solare struttura lignea scatolare dal disegno chiaramente controllato dai complessi calcoli che solo l’informatica di oggi rende certi ed efficaci. Il pavimento, formato da lastre di pietra fiammate in superficie, pareva un vasto tappeto di lana grigia.
Tappeto ricoperto però dalla fitta schiera di solidi banchi lignei che con la loro possente presenza richiudevano, con eguale tono cromatico, il guscio ligneo verso il basso. Questa fodera interna, questo guscio reso accattivante e gradito dal legno di faggio, non mi pareva una inutile cattedrale del caos, una gratuita rincorsa dell’impossibile: mi pareva, piuttosto, una dimostrazione di come si possa essere capaci di usare i materiali tradizionali non solo in modo intelligente, ma anche in maniera suadente e poetica. A lungo seduto a un solidissimo banco pensavo a molti maestri dell’architettura, tra cui Sverre Fehn; alla linea da loro tracciata, secondo cui l’architettura non deve avere nulla di più dello strettamente necessario alla costruzione del manufatto. Pensavo alla ricerca contemporanea sull’autonomia espressiva della “pelle” di rivestimento.
Qui, la pelle ideata (ma è una pelle o un manufatto autonomo all’interno di un manufatto più vasto?) si sovrappone volutamente alla costruzione esistente, ma in sé la complessa struttura lignea non ha nulla che si sovrapponga allo strettamente necessario della sua stessa costruzione. Pensavo alla ricerca di Jørn Utzon, alla volontà di subordinare la forma alla disciplina del materiale, al metodo costruttivo piuttosto che ad un disegno fortemente prefigurato. Questa fodera, chiesa nella chiesa, lontana seppur memore della casa nella casa cara a Oswald Mathias Ungars scientia pluribus disciplinis et variis eruditionis ornata, per dirla con Vitruvio, contiene in sé molteplici chiavi di lettura. Certamente come “complessità e contraddizione” alla Robert Venturi, qui però, intese come valenze entrambe arricchenti e positive. Come vestito della struttura architettonica esistente, come Alfred Kempner che in un Journal of Riba del 1900 sosteneva che “… l’architettura è l’operare di leggi in gran parte matematiche e tutte scientifiche. L’arte architettonica è il vestito della struttura scientifica…”. Come segno formale alla Edwin Landseer Lutyens, che trent’anni dopo sosteneva in Architectural Review: “… l’architettura comincia dove finisce la funzione”. Come utile servizio, alla Charles Batteaux che a metà Settecento scriveva: “…l’architetture n’est pas un spectacle…mais un service”. Come segno del tempo, alla Camillo Boito: “…l’architettura è l’arte dei popoli, monumento di una età di un popolo”. Come segno volutamente dichiarato, come architettura “parlante” alla Claude – Nicolas Ledoux.
Come segno più profondo alla Arnold Whittick, che durante la seconda guerra mondiale, a Londra, scrivendo su Erich Mendelsohn sosteneva come l’architettura “…ritragga abituali sollecitazioni del corpo umano (anche la mani giunte in preghiera? – ndr) …o la memoria di una esperienza fisica che il fruitore vi ritrova” (la perfetta risonanza del curioso e insolito organo nuovissimo?).
Come lettura spaziale: Salvatore Vitale in L’estetica dell’architettura sostiene: “…L’architettura si vive dal di dentro, non si contempla da fuori come un quadro e una scultura”. Come sosteneva Antonio Sant’Elia nel suo manifesto dell’Accademia futurista: “Lo sforzo di armonizzare, con libertà e con grande audacia, l’ambiente con l’uomo, cioè rendere il mondo delle cose una proiezione del mondo dello spirito”. Quest’arca di legno, comunque la si voglia leggere, desta indiscutibile sorpresa. Mi ricorda un vecchio ingegnere uruguayano, oggi ottuagenario, Eladio Dieste, che descrivendo la sua casa, costruita 40 anni fa, come autoritratto architettonico, su una duna prospiciente il Rio de la Plata, diceva: “L’architettura ci invita a contemplare. La vita va consumando la nostra capacità di sorprenderci e la sorpresa è il principio di una visione autentica del mondo”.

Due particolari delle tele eseguite da Mario Bergani,
che richiamano episodi salienti della vita del santo
 

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