Tracce di fede nei luoghi scomparsi


Nel Palazzo Vescovile restaurato si allineano testimonianze storiche e oggetti liturgici provenienti dal vasto territorio della Diocesi, ma anche opere contemporanee a soggetto profano. La nitida grafia delle sale espositive, studiata da Gianfranco Varini, esalta la qualità delle opere. Mons. Tiziano Ghirelli ne racconta la storia e il percorso.

Il Museo è un centro attivo di testimonianza e catechesi.
Mons. Tiziano Ghirelli, responsabile dell’ufficio Beni Culturali Ecclesiastici della Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla, nonché direttore del Museo Diocesano, che è stato inaugurato nel dicembre 2006, tiene a sottolineare come il concetto di questo museo risalga indietro nel tempo.
"Nasce dalla volontà, che ha trovato espressione fin dagli anni ’30 del XX secolo, di raccogliere nel Palazzo Vescovile, da tutto il territorio diocesano, le opere di interesse storico artistico al fine di evitarne la dispersione. Il fatto stesso di ospitarle nell’episcopio, accanto al Duomo, sottolinea la centralità di questo patrimonio per l’identità della Diocesi, e il
suo saldo legame col territorio stesso.
"C’è anche un altro motivo: nell’episcopio è attiva la mensa dei poveri, che offre ogni giorno fino a 300 pasti caldi gratuiti. A questo servizio caritatevole rivolto al benessere fisico delle persone si aggiunge il Museo, come servizio caritatevole rivolto allo spirito, alla cultura, alla memoria, all’identità cristiana. Entrambe le iniziative sono frutto di una stessa carità, che agisce pur su piani diversi".
Delle 319 parrocchie che fanno parte del vasto territorio diocesano, oggi solo una trentina sono rappresentate da oggetti esposti, il cui apparato didascalico evidenzia la provenienza: ma il loro numero va crescendo col tempo.
Il museo è "una realtà in divenire – specifica Monsignor Ghirelli – non solo per quel che attiene all’ambiente espositivo, ma anche per la rotazione degli oggetti, che serve non solo a offrire nuove prospettive e motivi di conoscenza, ma anche a consentire alle parrocchie di vedere posti all’attenzione di tanti visitatori gli oggetti significativi della loro storia. In quanto strumento di catechesi attraverso l’arte, il Museo è un ausilio per le Parrocchie e le comunità
cristiane. Inoltre, parte della missione del Museo è proteggere dal rischio di furto gli oggetti di valore che nelle parrocchie non trovano una collocazione sicura, o di restaurare pezzi deteriorati. Naturalmente gli oggetti usati per fini liturgici, quali calici e pissidi, restano a disposizione per le celebrazioni.

Sala della Cattedrale. Casula di San Carlo, lastra
antelamica della Majestas Domini.

Altri oggetti non usati per azioni liturgiche permangono stabilmente nel Museo, come anche gli oggetti provenienti dalla Cattedrale – per esempio il magnifico affresco che si trovava sul timpano esterno della facciata e che, strappato e restaurato, non può più ritornare alla sua collocazione originaria".
Il percorso museale si svolge principalmente al piano terra del Palazzo Vescovile.
Il palazzo fu progettato dall’Arch. Avanzini a metà Seicento. L’oggetto che per primo si osserva è un crocifisso quattrocentesco: perché dal Crocifisso nasce la Chiesa; seguono alcuni reliquiari, testimonianza del sacrificio dei martiri dei primi secoli.
Vi sono tre sezioni: monasteri, pievi e cattedrale, attraverso le quali si racconta la storia del Cristianesimo in
terra reggiana e guastallese dalle origini al XVI sec.
Nella prima Sala sono esposti capitelli del XII sec. e tessuti del XIII sec. che documentano le vicende del monastero benedettino di Marola, fondato da Matilde di Canossa. Nella seconda Sala si trovano gli oggetti, quali capitelli o plutei, appartenuti alla Pieve di S. Vitale, oggi ridotta a rudere. Sulle volte di questa sala sono proiettate immagini dei luoghi da cui provengono le opere, così il visitatore è aiutato a pensarle là dove furono concepite e dove erano collocate.
La terza Sala è dedicata alla Cattedrale. Ogni sala è contraddistinta da tracce di colore, viola, verde, oro, presenti nelle cornici e nei pannelli didascalici.
Vi sono anche ambienti usati come deposito. In uno di questi le opere sono collocate in modo ordinato e ragionato, così da essere consultabili dagli studiosi. V’è anche una grande sala per conferenze.
Il museo continua al secondo e ultimo piano: in due ambienti molto ampi sono collocate le collezioni Don Cesare Salami e Don Archimede Guasti, frutto della passione per l’arte di due sacerdoti: don Guasti ha raccolto in vita oggetti di ogni genere mentre don Salami ha collezionato argenti.
In un’altra sala sono esposti alcuni dipinti di Marco Gerra, un artista contemporaneo reggiano la cui vedova ha donato al Museo diverse opere che illustrano tutto il suo percorso creativo: dagli esordi figurativi alle ultime espressioni astratte.
"Sono opere profane – spiega Mons. Ghirelli – perché il Museo è per tutti: credenti e non".
Vi sono anche opere di Omar Galliani, Villa, Simonini, Tamagnini.
È un’offerta di dialogo aperto che rende conto di tutte le energie culturali esistenti nella Diocesi.
Nel complesso l’organizzazione del Museo offre una "teologia attraverso le immagini" e racconta la storia del Cristianesimo in terra reggiana, mostrando anche come la sua impronta traluca in tutte le espressioni culturali che in questa terra sono nate.

Dall’alto: Crocifisso, Bartolomeo e Jacopo da Reggio,
metà XIV sec., Oratorio di Tassarola (affresco strappato). La prima sala: Crocifisso ligneo, metà del XV sec.; capitelli dal monastero di Marona.

IL PROGETTO ESPOSITIVO

L’allestimento del nuovo Museo Diocesano è stato
pensato al fine di poter ospitare nel tempo prestiti da altri musei o fondazioni. Alcune opere sono state fissate stabilmente alle pareti, ma la maggioranza può essere facilmente "smontata" o addirittura, come nel caso delle vetrine, può semplicemente essere tolta sollevando il coperchio di vetro. Il lavoro di base è stato di applicare alle murature perimetrali un pannello alto m 2,5 in legno composto da pannelli
medium density su struttura di magatelli al cui interno passano i cavi della luce, recuperabili per specifiche necessità espositive.
Il colore generale scelto per le pareti applicate è un grigio tirato a pelle di daino che ben si intona con il colore rosato dei pavimenti antichi e dei soffitti, azzurro, rosso terra. I pannelli sono rifiniti sul perimetro da un doppio profilato in ferro a forma di L al naturale e protetto con owatrol. Molti frammenti di epoca medievale sono stati appoggiati alle pareti su basi lignee di tonalità grigio/azzurro, senza superare l’altezza di lettura, di m 1,5-1,6. La stanza che ha
presentato maggiori difficoltà, per la logica didattica ed espositiva, è stata quella centrale, detta “dei capitelli medievali”: ogni capitello è collocato su una base quadrata su cui poggia una struttura cruciforme in piatti di ferro spessa mm10 sulla quale è innestato un vassoio per l’appoggio del capitello. Le colonne sono aggregate a gruppi di tre, agganciate fra loro da un piatto che forma una T fissato sulle mezzerie delle basi in modo tale che nessun urto possa far vibrare i capitelli. Collocati in questo modo, distanti uno dall’altro non meno di cm 70, consentono ai visitatori
di osservare in modo ravvicinato le narrazioni fittamente scolpite, con percorso circolare. Per evitare che le opere possano essere facilmente asportate o manomesse, uno o due profili di lamiera tagliata con il laser si aggancia alla base a mezzo di brugole e s’innesta (con tasselli di gomma speciale) nella zona o nelle zone ove la narrazione è meno significativa. Il concetto illuminotecnico è il seguente: nelle sale a volta con cornicione perimetrale di bordo è stato applicato un binario leggermente aggettante su tutto il perimetro in modo tale da ospitare i faretti innestati e
orientati secondo le necessità. La dislocazione dei corpi illuminanti è indirizzata ad ottenere una buona luce ambiente con abbattimento delle ombre che ovviamente penalizzerebbero le opere esposte.

APPUNTI SUL PROGETTO DI ALLESTIMENTO
PER IL MUSEO DIOCESANO DI REGGIO EMILIA

Il progetto di allestimento del nuovo Museo Diocesano di Arte Sacra è stato pensato da subito come luogo che potrà ospitare nel tempo prestiti provenienti da altri musei o fondazioni e ovviamente potrà fare la stessa cosa con le proprie opere.
Con questa impostazione alcune opere sono state fissate stabilmente alle pareti, mentre la maggioranza può essere più facilmente “smontata” o addirittura, come nel caso delle vetrine, può semplicemente essere tolta sollevando il coperchio di vetro, con le ventose e con l’aiuto di un vetraio, rispetto alla base fissata a terra.
Il lavoro di base é stato quello di applicare alle murature perimetrali un pannello di altezza pari a 2,5 mt. in legno composto da pannelli di M.D. (medium density) su struttura di magatelli vuoto all’interno per lasciar scorrere i cavi della luce, recuperabili per specifiche necessità espositive.
Il colore generale scelto per le pareti applicate é un grigio tirato a pelle di daino che ben si intona con il colore rosato dei pavimenti antichi e dei soffitti, azzurro, rosso terra. I pannelli sono rifiniti sul perimetro da un doppio profilato in ferro a forma di L lasciato al naturale e protetto con owatrol.
Molti frammenti di epoca medievale sono stati appoggiati alle pareti su basi lignee specificamente adattate di tonalità grigio/azzurro, senza superare l’altezza di lettura da parte del pubblico di ml. 1,5- 1,6.
La stanza più difficoltosa per una logica didattica ma anche espositiva é stata quella centrale detta dei capitelli medievali: ogni capitello é collocato su una base di forma quadrata di altezza simile a quelle citate precedentemente; sulla base (cava) é appoggiata una struttura cruciforme in piatti di ferro dello spessore di mm.10 sulla quale é innestato un vassoio per l’appoggio del capitello. Le colonne sono aggregate a gruppi di tre, agganciate fra loro da un piatto che forma una T fissato sulle mezzerie delle basi in modo tale che nessun urto possa far vibrare i capitelli.
Collocati in questo modo, distanti uno dall’altro non meno di cm.70, consentono ai visitatori di osservare in modo ravvicinato le narrazioni fittamente scolpite, con percorso circolare. Per evitare che le opere possano essere facilmente asportate o anche semplicemente manomesse, uno o due profili di lamiera spessa mm.5 tagliata con il laser si aggancia alla base a mezzo di brugole e s’innesta (con tasselli di gomma speciale) nella zona o nelle zone ove la narrazione é più povera o non significativa. Con ciò si vuole dire che ogni capitello é identico in quanto a base, da terra sino al vassoio, ed é invece “individuale” quanto a criterio di aggancio alla sottostante croce in ferro. La ridotta dimensione degli agganci, pur nella forza posseduta dal ferro, non é mai così visibile da interferire con la lettura di ogni singolo capitello.
Il concetto illuminotecnico é stato il seguente: nelle sale a volta con cornicione perimetrale di bordo é stato applicato un binario leggermente aggettante rispetto a quel bordo e corrente su tutto il perimetro in modo tale da aumentare o diminuire i faretti innestati secondo le necessità od anche solo orientati verso le opere per evidenziarne il più possibile l’espressività. La dislocazione dei corpi illuminanti é generalmente indirizzata ad ottenere una buona luce ambiente con abbattimento delle ombre che ovviamente penalizzerebbero le opere d’arte esposte. Le stanze sono dotate ciascuna di due ampie finestre con portelloni oscuranti in legno nobile e risalenti alla metà del ‘600 (quelle perse nel tempo anche per l’uso improprio delle sale, sono state rifatte riprendendo fedelmente il modello: ciò consente di ottenere durante il giorno un mix di luce naturale integrata da quella artificiale riducendo al minimo la potenza dei faretti).

Foto a destra, Sala della Cattedrale: Madonna con Bambino e Santi, di Bernardino Orsi, 1501 (affresco
strappato). Lastra sepolcrale del Vescovo Pallavicini, seconda metà XV sec.
Sotto: affresco staccato dalla facciata, Cristo Pantocratore e angeli.
Pagina a lato, dall’alto: capitelli della Pieve di San Vitale di Carpineti. Pergamena firmata da Matilde di
Canossa; elenco pievi, di Bonifacio di Canossa, XI sec. L’allestimento del museo è stato realizzato da Tecton.

Nel caso di esposizione serale ovviamente tutta la luce é demandata all’impianto illuminotecnico di cui abbiamo parlato; nel caso invece di esposizione di opere (tessuti, libri, pergamene o anche dipinti particolarmente delicati) per le quali non si possono superare i 50-60 lux vi é la predisposizione per l’illuminazione a mezzo di fibre ottiche.
Nella stanza d’ingresso non dotata di cornice perimetrale a soffitto sono stati applicati a livello delle unghie i corpi illuminanti detti del tipo a cestello. In questa stanza divisa a metà da una trave in cemento ineliminabile di epoca postbellica si é proceduto nel seguente modo: sui bordi superiori esterni della trave é applicato il binario con faretti del tipo già menzionato mentre la trave stessa é servita per reggere un grande pannello appoggiato anche a terra che regge un Cristo ligneo policromo quattrocentesco di dimensioni di poco inferiori a quelle umane.
Il gioco luminoso di faretti e cestelli riduce le ombre e non altera il fine intaglio ed i colori della preziosa scultura.
Le stanze sono intercomunicanti attraverso grandi porte prossime alla parete esterna del palazzo; lo spazio che resta fra il percorso e le finestre con gli antoni di cui abbiamo parlato é occupato da doppie vetrine che ricevono la luce naturale direttamente dalle finestre, con base di altezza pari a cm.80 sopra le quali sono esposte ad es. le opere di oreficeria o come nel caso dei piatti di ceramica provenienti dalla gonzaghesca Novellara e realizzati nel ‘500 da un’importante manifattura urbinate, il tutto protetto da una cappa in vetro di forma parallelepipeda di varie dimensioni. Ad esempio quella contenente le insegne del Vescovo principe, con stocco ed elmo é ovviamente più alta.
Le operazioni più complesse sono state l’applicazione a muro della lastra marmorea antelamica con raffigurati gli evangelisti ed il Cristo Pantocratore, quella di Casalorci proveniente dalla cripta del duomo in marmo rosso di Verona con la raffigurazione dei Re Magi e collocata con la cornice in ferro realizzata nei primi anni del ‘900, per ragioni filologiche.
Forse in assoluto la maggior difficoltà tecnica ed estetica é stata quella di applicare a parete il portalino medievale di Castellarano, in arenaria, conservato per parti: sopravvivono la lunetta scolpita e le due spalle, una delle quali incompleta.
Una struttura in lamiera piegata ricostruisce in negativo ciò che manca, a partire dall’architrave, senza riproporre forme in stile e ciò lascia leggere solo il reperto antico mentre induce a pensare quali potevano essere la sua originale dimensione e geometria.
Vi é poi il caso di due vetrinette estradossate rispetto alle pareti contenenti un’antichissima mitra detta di Marola e delle capselle in piombo di epoca matildica. In questo caso la luce é stata collocata al di sopra delle vetrinette progettando una travetta a sbalzo in acciaio con inseriti dei piccoli faretti: ciò per mantenere la temperatura al di sotto dei minimi previsti dalle normative museali.

Nota dell’autore: qualche amico architetto ha letto in filigrana la lezione di Scarpa relativamente all’uso del ferro (trattato in superficie con owatrol per ammobidirne la durezza ed attenuare i punti di saldatura). L’osservazione mi ha fatto molto piacere anche se dall’inizio mi ero posto l’obiettivo di fare un lavoro antiscarpiano: vale a dire ottenere il massimo di espressività con il minimo di lavorazione e di dettagli, lasciando, come nel portalino di Castellarano un certo brutalismo come se si trattasse di un’opera provvisionale.

Arch. Gianfranco Varini

 

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