Rosario Pavia – Nuovi labirinti



Cos’altro ancora nasconde il mito del labirinto? Perché continuiamo ad associare alla sua figura la forma e il senso della città contemporanea?
Cosa ci aspettiamo ancora da questo mitologema che attraversa tutta la storia della cultura occidentale e che avvicina incredibilmente la nostra condizione spaziale contemporanea a quella antica del mondo arcaico e classico?
Alcune risposte le conosciamo da tempo: il labirinto non è il risultato del caos, non è sinonimo di disordine, ma piuttosto di un ordine superiore, di un sistema complesso le cui regole sottese ci sfuggono di continuo. Il labirinto è un dispositivo, costruito ad arte per confondere, mettere alla prova, produrre smarrimento e meraviglia. Fin dall’inizio il labirinto si pone come artificio e progetto (Ugo 1991; Pavia 2002).
Dedalo è ricordato come il primo grande architetto. Con il termine daidaleon i greci indicavano, del resto, ogni costruzione di qualità, ogni manufatto con caratteri artistici (Kerényi 2007, p. 111).
Il labirinto, nella sua riduzione a disegno geometrico che s’avvolge su se stesso come una spirale, è anche la rappresentazione dello spazio sul piano. Il geografo Franco Farinelli ha visto nel labirinto la traccia a terra del crollo della torre di Babele (Farinelli 2003, p. 21).
Proiezione sul piano di un corpo tridimensionale e nascita della pianta come dispositivo di descrizione e rappresentazione del mondo. C’è un legame tra Babele come verticalità e il labirinto come orizzontalità che va ancora esplorato: a queste due figure facciamo ancora riferimento ogni volta che pensiamo alla complessità della metropoli. Fin
dall’inizio della modernità la grande città appare babelica e labirintica.
Nel suo disordine ci si perde come in una foresta, il suo attraversamento è una sfida, un rito misterico, un’esperienza iniziatica, il suo intreccio è lo sfondo delle trame dei grandi romanzi tra ’800 e ’900.
Anche la città moderna sembra dispiegarsi come un racconto, come una narrazione che si sviluppa attraverso la continuità degli spazi pubblici e dei grandi assi viari. Come il romanzo anche il progetto dell’urbanistica moderna ha esaurito da tempo la sua capacità di rappresentare il mondo.
La mappa della città come il piano urbanistico non sono più capaci di descrivere e interpretare la complessità delle relazioni spaziali e sociali, di dare loro leggibilità e prospettiva. Siamo realmente nel labirinto.
Perdersi nel disordine, accettarlo passivamente, o ricercare nella confusione un senso, una struttura sottesa in grado di orientare il progetto, come ci ha indicato Ludovico Quaroni (Quaroni 1967)? Forse dobbiamo tornare a reinterpretare il mito originario del labirinto e nello stesso tempo immergerci ancora di più nella complessità della città contemporanea, analizzarla con gli strumenti della ricerca scientifica, ma anche con la profondità dell’immaginazione.
La nostra condizione è molto simile a quella descritta da Paul Auster ne La città di vetro, quando sembra volere rintracciare nei percorsi di un suo personaggio, vagante nelle strade di Manhattan, un codice genetico della città, una scrittura originaria capace di disvelare il segreto del labirinto urbano.
Torniamo ancora una volta all’origine del mito. Il labirinto è la prima architettura complessa che organizza un luogo circoscritto, separandolo intenzionalmente da ogni riferimento con lo spazio circostante.
L’edificio fatto costruire da Minosse per nascondere il Minotauro è un grande interno frantumato da un intrico di corridoi e incroci. Il dispositivo respinge lo sguardo d’insieme, riportando costantemente l’attenzione sul luogo in cui si è (Damisch 1996, pp. 39-57). Questa estraneazione, questa assenza di centro e di orientamento spaziale rimanda immediatamente alla città contemporanea, al suo labirinto infinito.
In un certo senso il labirinto cretese è il lato oscuro e antitetico dell’architettura e della città: la sua mancanza di forma si contrappone alla solare leggibilità volumetrica dei templi, alla chiarezza geometrica dei tracciati urbani ortogonali. Il labirinto arcaico è il polo negativo di un percorso dialettico che approderà alla positività dell’architettura classica.

Dionisio e Apollo. Il disordine del labirinto e l’equilibrio formale dell’architettura dei templi. La contrapposizione, tuttavia, non è mai così netta, le due divinità sono intimamente legate. Il labirinto è la condizione necessaria per raggiungere la chiarezza dell’impianto urbano ippodameo, nelle cui maglie emergono i volumi puri delle architetture dei templi e dei palazzi.
La città greca con la sua griglia ortogonale, con il suo ordine geometrico, chiaramente descritto da una pianta, è l’archetipo della città occidentale tradizionale, immediatamente leggibile nel suo insieme e nelle sue unità elementari. Mentre la città tradizionale si offre alla visione globale, il labirinto, anche nella sua versione ludica di giardino, si sottrae allo sguardo, confondendolo con arabeschi e geometrie complesse.

La metropoli è oggi un labirinto di luoghi dispersi e separati, il cui intreccio nasconde una rete d’interconnessione che collega e dà senso di volta in volta ad una serie di nodi. La rete seleziona infatti solo alcuni tracciati: sono questi a strutturare lo spazio senza centro della grande città. Interconnessione di nodi, di punti, di luoghi, intreccio e sovrapposizione di reti diverse, alcune continue, molte spezzate.
La città è il risultato di questo intreccio complesso e discontinuo.
Per questo la metafora del labirinto è ancora vitale.
Anche il filo di Arianna congiunge incroci esplorati e conosciuti; diviene una connessione di punti nodali, un tracciato che visualizza il percorso, che assicura il ritorno. E, si badi, il percorso è provvisorio, mobile perché il labirinto, con il suo mostro vagante, non ha centro.
Arianna, con il suo filo, consente l’attraversamento del labirinto, ne svela il segreto e lo rende visibile. I Greci le dedicarono una stella chiamandola Aridela: ‘visibile da
lontano’ (Santarcangeli 1984, p. 11). È forse per questa promessa di visibilità che oggi nella città contemporanea siamo alla ricerca di un filo di Arianna?

Il filo di Arianna è per noi una metafora che pone al progetto il tema dell’attraversamento nel labirinto della metropoli, secondo un itinerario narrativo e spazialmente leggibile. I fili di Arianna, come tracciati che interconnettono luoghi e nodi complessi, restituiscono il senso dell’orientamento e la comprensione delle strutture urbane (Pavia 2002, pp. 100-101).
Reti minori e reti maggiori, percorsi pedonali, sequenze di spazi pubblici, ma anche tracciati e nodi infrastrutturali i integrati con continuità nella città e nel territorio. Questa ipotesi di lavoro va portata avanti nella ricerca e nelle strategie di intervento, ma ora, analizzando l’origine del labirinto come attraversamento danzante, scopriamo un
nuovo percorso per l’interpretazione e il progetto della città contemporanea.
È possibile restituire all’attraversamento una dimensione estetica, in grado di renderci più partecipi dell’ambiente, più consapevoli del nostro corpo, dei nostri sensi, più capaci di esporci e incontrare l’altro?
È possibile rompere l’inerzia, la solitudine, l’opacità, l’estraneazione passiva della nostra condizione urbana? Come ridare all’attraversamento il passo leggero e profondo della danza? La danza nel labirinto non era altro che una delle tante forme rituali dei cortei dionisiaci.
Arianna è all’interno di questo rito, le danze nello spazio del suo labirinto sono dedicate a Dioniso. Attraverso la danza e la musica i partecipanti entrano in un rapporto integrale con lo spazio, si riconciliano con le forze della natura, ne colgono istintivamente il senso profondo.
Con la danza ci si stacca dalla propria individualità per immergersi in un tutto organicamente ricomposto, dove non c’è più separazione tra animato e inanimato, tra umano e animalesco, dove non ci sono più gerarchie, né divisioni sociali (il rito del carnevale trova qui le sue origini).
Ci si perde, per entrare in una dimensione estetica di eccitazione liberatoria (Kerényi 2007, p. 138; Otto 2006, p. 101).
I seguaci di Dioniso, i saggi sileni esaltati da Nietzsche (Nietzsche 2007, p. 62), avevano una visione disincantata della vita, ne conoscevano l’orrore, la terribilità, la sofferenza. Per questo insegnavano a danzare, ad annullarsi. Il rito danzante è liberatorio nella misura in cui annulla l’individualità dei partecipanti immergendoli nel flusso continuo ed inarrestabile della vita. Nell’ebbrezza della danza ci si accosta al mistero, al significato sfuggente della realtà. Non sappiamo quando questa ebbrezza primitiva s’incontrò con il sogno apollineo di un mondo perfetto, dove tutto è trasfigurato come ordine, misura, giusta distanza. Non sappiamo se effettivamente nelle tragedie greche c’è stato l’incontro del dionisiaco con l’apollineo (Colli 2007). Vogliamo crederlo. Vogliamo credere che già nella danza di Teseo ci fosse ebbrezza ed estasi, ma anche conoscenza e serenità. Vogliamo credere che nel teatro greco, il coro con la sua voce e la sua danza rappresentassero una visione del mondo già consapevole, che dietro il sogno si nascondeva una realtà violenta, informe, ma tuttavia vitale e che questa consapevolezza restituisse al pubblico e alla comunità una percezione della vita più piena, più matura (Colli 2007).
Il teatro greco è sempre associato a Dioniso, il cui tempio era collocato sulla scena stessa. In uno spazio teatrale organicamente immerso nel paesaggio (Morachiello 2004, pp. 102-104), lo spettacolo della tragedia era per lo spettatore, che osservava dall’alto della cavea, una rappresentazione che apriva la via alla conoscenza, rendendolo partecipe di quei valori e di quei riferimenti culturali necessari per vivere nel mondo.
Non sappiamo se i Greci sapessero veramente orientarsi nello spazio sociale e in quello fisico. Se avessero la capacità (sophrosyne) di mantenere un giusto equilibrio nelle loro diverse attività, nelle loro emozioni, nel loro modo di muoversi, di orientarsi e di esporsi negli spazi della città. Se fossero veramente ‘centrati’, come ci ha ricordato Richard Sennett (Sennett 1992, pp. 11-14). Certamente oggi non è così. Nella città contemporanea non è più possibile orientarsi, esporsi con equilibrio nello spazio esterno e confrontarsi con l’altro.
Non siamo più centrati, qualcosa si è rotto anche nella nostra persona, il nostro corpo non sente più in sintonia con la mente. Il corpo è scisso dal pensiero. Pensare con il corpo è un obiettivo difficile da perseguire.
Il nostro corpo, come la nostra mente, non sono più in grado di riconoscersi nello spazio della città, nel movimento di altri corpi, nei pensieri di altre menti. Se fossimo in grado di attraversare danzando la città forse riusciremmo a ritrovare l’equilibrio perduto, forse potremmo ancora liberarci della nostra solitudine, della nostra estraneazione, forse potremmo ancora comprendere istintivamente ed esteticamente la complessità della vita e il labirinto della città. La danza nel labirinto primitivo ha dato inizio ad un processo di cui abbiamo perso il senso e gli sviluppi. Il processo sembra essersi interrotto, esaurito.
Qualcosa del labirinto danzante, tuttavia, è rimasto, ne percepiamo le tracce nelle feste contadine, nei cortei del carnevale, nei vagabondaggi dei flâneur della modernità, nel nomadismo errante delle avanguardie situazioniste, nei riti effimeri delle notti bianche.
Il labirinto danzante è una metafora assoluta, senza tempo. Trasferita nella città contemporanea il suo mito vuol dire non solo riorientarsi, dare senso all’attraversamento, ma anche esporsi a ricercare l’altro in uno spazio pubblico diverso e continuo in grado di coinvolgere e di sprigionare la nostra immaginazione, la nostra creatività. Attraversare danzando è una richiesta di libertà, di sicurezza, di individualità e di partecipazione; è una richiesta di conoscenza.
In realtà lo spettacolo urbano non è più una esperienza conoscitiva, non è più un apprendimento istintivo, non è più un sentire dionisiaco e neppure un sogno apollineo, oggi è solo evasione, shock, estraneazione.
Nella realtà, l’attraversamento urbano, come danza, come esperienza estetica e conoscitiva non esiste. La città contempora
nea nega l’attraversamento. Le sua forma labirintica è il risultato di ostacoli fisici, di barriere, di esclusioni. Lo spazio delle metropoli nasce dalla violenza delle contraddizioni sociali, dai suoi conflitti, dalle sue sopraffazioni,
dai suoi interessi inconciliabili (Pavia 2002, p. 53). Il suo intreccio sembra condurre alla morte. Ma il labirinto, lo abbiamo ricordato, non è sinonimo di morte, è invece aspirazione alla vita, riproduce la circolarità infinita di un percorso che dall’abisso riconduce ogni volta all’inizio. Sarà possibile ritornare a danzare nel labirinto della città? Non ci sono strategie definite, solo domande. Solo un principio di speranza che non vuole rinunciare al progetto come utopia, come ricerca di una via d’uscita.
Arianna, signora del labirinto, come Dioniso del resto, è una divinità legata agli inferi. Il labirinto stesso ne è una rappresentazione: il suo intreccio spiraliforme riproduce il groviglio delle viscere, degli animali sacrificati, dalle cui disposizioni i sacerdoti traevano indizi per la divinazione.
L’interpretazione delle viscere era possibile solo attraverso l’intercessione dei morti, per questo secondo la mitologia babilonese e in seguito cretese, l’infero era chiamato il palazzo delle viscere, ma anche labirinto (Kerényi 1997, p. 34) Se sezionando il corpo ed interpretando il groviglio oscuro delle viscere, ci si metteva in relazione con il mondo dei morti, allo stesso modo, attraverso l’intreccio del labirinto si perveniva all’accesso degli inferi. Il labirinto esprime fin dall’inizio
questa relazione, questo dialogo costante tra il sopra e il sotto, tra la vita e la morte, tra la forza della ragione e delle istituzioni e quelle oscure e irrazionali del mondo sotterraneo. Il ciclo inarrestabile della vita, la sua stessa stabilità si reggevano su queste due realtà, sulla loro inscindibile unitarietà.

Il rapporto tra superficie e sottosuolo si è mantenuto a lungo nella storia dell’architettura, non solo nelle grandi costruzioni funerarie dell’antichità, ma anche nelle chiese cristiane a partire da S. Pietro, nei grandi palazzi rinascimentali, come nel complesso ducale di Urbino, nella sistemazione delle mura, come a Perugia per opera di Sangallo il giovane, che ad Orvieto con il pozzo di S. Patrizio affonda nel terreno una struttura che altri non è che una torre rovescia. Il sotterraneo è presente nelle incisioni dei monumenti antichi e negli spazi oscuri delle carceri di Piranesi, fa parte delle grandi costruzioni utopiche di architetti illuministi come Boullée. Emerge potentemente nella città moderna la cui riorganizzazione inizia nel sottosuolo con l’introduzione delle reti fognarie e delle gallerie delle prime metropolitane. Il ventre oscuro della città sotterranea entra rapidamente nell’immaginario collettivo e letterario, divenendo il risvolto negativo della scena urbana di superficie di molti romanzi tra ’800 e ’900 (Zucconi 1989).
Eugene Henard è il primo a teorizzare la necessità di un suolo urbano artificiale sotto il quale riorganizzare l’insieme delle reti tecnologiche della città. Il suolo artificiale diverrà con Perret e Le Corbusier un tema ricorrente del progetto moderno-funzionalista nel cui ambito troviamo, quasi alla fine di un ciclo di ricerche, le proposte di Edouard Utudjjan
per L’urbanism souterain (De Cesaris 2002).
La città come cantiere futurista, che Antonio S. Elia fa sprofondare nel sottosuolo, torna alla ribalta nelle tentazioni delle megastrutture negli anni ’60 del secolo scorso, con i progetti di Paul Rudolph, del Gruppo Archigram e di Hans Hollein che provocatoriamente organizza una nuova città come una portaerei sprofondata e sepolta nel paesaggio.
Tra le grandi utopie urbanistiche di quel periodo Mesa City e Arcopoly di Paolo Soleri sono quelle che maggiormente tentano di integrare l’ambiente e il paesaggio di superficie con gli spazi ricavati da megastrutture organiche che affondano come piante le loro radici nel sottosuolo. Le utopie degli anni ’60-’70 sono state gli ultimi slanci del progetto moderno di ricercare attraverso le reti infrastrutturali un nuovo disegno per la città e il territorio. L’infrastruttura porta con sé, nella sua radice etimologica, la sua vocazione sotterranea, la sua finalità a riorganizzare le funzioni urbane in superficie come nel sottosuolo.
In realtà non è stato così, in quegli stessi anni si è realizzata una frattura profonda tra architettura e urbanistica, tra città e reti infrastrutturali.
Il debole rapporto tra suolo e sottosuolo si è spezzato progressivamente.
La città di superficie è divenuta un labirinto inestricabile, ma nello stesso tempo anche il sottosuolo è diventato un intreccio smisurato, discontinuo, oscuro, un labirinto di cunicoli, di condotti di nodi e di reti infrastrutturali.
Reti sconnesse in superficie e ancora di più nel sottosuolo. Le opere infrastrutturali sotterranee aumentano di continuo la loro densità, il loro intreccio, ma anche la loro autonomia. Tra il sopra e il sotto si è consolidata una netta separazione. Mentre nella prima modernità esisteva un rapporto visibile e pianificato tra l’insediamento di superficie
e il sottosuolo (si pensi a come i piani delle reti fognarie incidevano sui primi piani urbanistici), nella città contemporanea l’orditura della città superficiale appare del tutto indipendente dalle reti sotterranee. In alcune grandi città come Londra, Parigi, New York, le reti delle gallerie dei treni e delle metropolitane hanno mantenuto ancora un legame tra il sopra e il sotto, ma altrove tale relazione si è dissolta del tutto. Al di sotto della rete stradale, un intreccio di condotti elettrici, del gas, dell’acqua, telefonici, fognari, telematici, si sovrappongono senza ordine.
Nel sottosuolo cavità, stratificazioni di tessuti edilizi, reperti archeologici, cuniculi, necropoli, corsi d’acqua e canali intubati costituiscono un groviglio di cui stentiamo ad avere una rappresentazione, una mappa descrittiva. Sotto la superfice reti di gasdotti e oleodotti, gallerie stradali e tunnel ferroviari, acquedotti, elettrodotti interrati e canali
idroelettrici attraversano il territorio. Intere regioni sono disseminate di cave minerarie, pozzi di estrazione di idrocarburi, di discariche sepolte di rifiuti e depositi sotterranei di stoccaggio del gas.
Un intreccio di reti sotterranee confligge con il delicato equilibrio del sottosuolo terrestre, con la fertilità dello strato superficiale, con il fragile sistema delle falde idriche, con le cavità dei giacimenti minerari. Il sotto
è un labirinto come il so
pra. Il mondo contemporaneo è costituito da labirinti sovrapposti senza nessun legame visibile. Non due realtà
simmetriche come nel labirinto egizio, dove senza accedere alla parte sotterranea se ne poteva immaginare la struttura, ma due labirinti infiniti e incomunicabili.
Forse è proprio da questa frattura che bisogna partire. Da questo nodo irrisolto dipendono il nostro equilibrio ambientale, la nostra sopravvivenza, il nostro modo di percepire il mondo e orientarci nello spazio.
Attraversare il labirinto significa anche questo: cercare di ristabilire un legame con la terra, con lo spessore della sua crosta, con il sopra e il sotto, individuando nuove forme di integrazione e di corrispondenza.
Come rendere visibile questo rapporto nei processi di trasformazione urbana? Come promuovere un maggiore equilibrio ambientale tra le due parti? Attraverso quali fili di Arianna sarà possibile riconnettere i due labirinti?
Per il piano e il progetto si apriranno nuovi itinerari di ricerca e di intervento.

RP

Università degli Studi ‘G. D’Annunzio’ di Chieti-Pescara

Bibliografia
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20. Sennett, R., 1990, The conscience of the eye. The design and social life of cities, New York, Alfred A. Knopf, trad. it. 1992, La coscienza dell’occhio. Progetto civiltà sociale nelle città, Milano, Feltrinelli.
21. Erodoto, 560 a.C., trad. it., 2000, Erodoto Storie, Milano, Mondadori.
22. Ruggero, V., 2000, Movimenti di città, Torino, Bollati Boringhieri.

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