Renato Nicolini


Vale, più dei ragionamenti, la forza dei fenomeni, di quello che accade: l’esplosione demografica. Per la prima volta nel mondo, ho letto da qualche parte pensando subito all’Elias Canetti di Masse e Potere, la massa dei viventi supera quella dei morti. Tutti quelli che sono morti prima di noi, dalla comparsa del primo uomo, sono inferiori al numero di quelli oggi in vita.
Di quest’immensa massa più della metà vive oggi nelle grandi città, e questa percentuale è destinata ad aumentare, spazzando via così l’idea stessa di un ritorno alla campagna, ci ripete Richard Burdett, curatore della Biennale Architettura 2006.
Lo sprawl delle periferie in Europa, gli sterminati suburbia, edge cities … americani, prosperano sulle ceneri dei grands ensembles, almeno tendenzialmente invece interni alla città, o concepiti, nel caso di Corviale, come una sorta di forma moderna delle sue mura. Di questi, colpevoli di essere visibilmente urbani, troppourbani, di non travestirsi da casa unifamiliare, s’invoca la demolizione, in Italia come in Francia. Sulle coste italiane, cementificate oltre il 50%, si stende la
conurbazione delle città. Una città continua, che magari, come Brigadoon, appare (d’estate) e scompare: l’Adriatico da Rimini a Pescara.
Gli shopping mall e gli ipermusei, anziché la strada e le piazze (dei signori, del mercato, della chiesa), sono i nuovi spazi pubblici. In molte città italiane si stanno realizzando enclaves private – e la città privata è la nuova regola di California e dintorni.
Le anime della città, la democrazia e la politica, sono ridotte a tecniche per vincere le elezioni. Alla fase esaltata della propaganda segue la gestione piatta di scelte obbligate, decise non dalla politica ma dalle necessità del mercato globale.
Qualcosa che si può affrontare solo con la giocosità di Marcel Duchamp. Selavy!

La perdita del Centrodi Sedlmayer. È il titolo di un libro fondamentale della krisisaustriaca, che ho ripreso come titolo per il piacere dell’analogia.
Dalla perdita concettuale del centro, dalla crisi teorica, Sedlmayer deduceva la crisi dell’arte. Dalla perdita quasi fisica del
centro, oggi deduciamo la crisi della città.
Come si è usciti dalla crisi dell’arte? Con le avanguardie. Qualcosa che guardava avanti. Oggi, da architetti, forse non riusciamo a smettere di guardare il passato. La deconstructionestende l’onda del post moderno, risalendo nel tempo ad epoche sempre più vicine alla nostra, fino alle avanguardie storiche. Come Portoghesi pensa di ricollegarsi alla forma di Borromini, così Zaha Hadid allo Vchutemas.
È diminuita la distanza storica, non è cambiata la mentalità.
Da appassionato di cinema vorrei partire da una frase di Giaime Pintor: ‘Il cinema ci ha fatto guardare il mondo con occhi nuovi, finalmente moderni’. Il principio del montaggio però non è specifico del solo cinema. Come osserva Edoardo Sanguineti intervistato da Gnoli, l’organizzazione del pensiero secondo i principi del montaggio ha preso, dal Novecento in poi, il posto che fu della sintassi. La legge del montaggio – unita alla legge, che il montaggio implica, del frammento
– è l’eredità (più delle forme cui si arresta la deconstruction), che le avanguardie storiche ci hanno lasciato.

Ma, il montaggioè davvero un principio che nasce unicamente dal cinema? Penso al modo in cui Nietzsche usa gli aforismi per esporre le proprie idee filosofiche. Nei libri di Nietzsche, composti come una serie di aforismi, non c’è mai veramente un inizio e una fine. La legge della loro successione è piuttosto libera, lasciata al montaggio operato dal lettore.
Il montaggionon è forse la legge occulta che regola la scrittura del romanzo ottocentesco, da quando questo si è fuso con la periodicità della stampa, diventando scrittura a puntate, settimanali o mensili, dove ogni capitolo, reso in parte autonomo dalla continuità complessiva della narrazione, deve avere i suoi colpi di scena, all’inizio ed alla fine della puntata?

E le scene madridel melodramma ottocentesco, allora?
Anche l’architettura di Adolf Loos è una lezione di montaggio. Non solo perché Loos amava la vita urbana, Knize e gli abiti eleganti, le attrici ed il teatro e perchè ha recitato come comparsa in una messa in scena della Carmen di Bizet al Metropolitan ( Parole nel vuoto). Il principio del raumplanè montaggio di spazi oltre la sequenza sintattica (del palladianesimo o dell’eclettismo ottocentesco o della scuola di Otto Wagner). Il Cafè Nihilismus di Vienna è un gioco di montaggio infinito delle immagini moltiplicate dagli specchi, che forse proviene dai giochi matematici (e dall’attrazione di Alice per il mondo che c’è nello specchio) di Lewis Carroll e sicuramente arriva fino ad Orson Welles ed alla Signora di Shangai. La colonna per il progetto di grattacielo della Chicago Herald Tribune, cos’altro è se non un fuori scala,
forma di sensibilità che il cinema ha acuito in noi?
Oggi guardiamo così le città: per montaggio. Le montiamo una accanto all’altra, fino ad ottenere una sorta di super città; questa è l’impressione che ho avuto dalla bella mostra di Gabriele Basilico. In questo paesaggio urbano ci si smarrisce non più fisicamente, ma nella foresta(Laugier) concettuale.
Percepiamo la città per frammenti. Oppure per falsa continuità (l’indefinita estensione dei suburbia) che però alla fine s’interrompe senza nessuna prosecuzione discorsiva. Ancora il montaggio.
Basilico descrive – mi colpisce questo pensiero – la totalità del silenzio, fotografando città senza più la presenza visibile dei loro abitanti.
Mi vengono subito in mente Manfredo Tafuri ed Aldo Rossi. Più vorrei staccarmi – come a volte anche Franco Purini mi invita a fare – da questi miei maestri, più li ritrovo vitali (ma forse non nelle loro parti più note).
Rossi postmodern? Penso all’analisi delle sue architetture, che mi ha letteralmente folgorato più di trent’anni fa leggendola su Controspa
zio, come montaggioper pezzie per parti fatta da Ezio Bonfanti.
E cos’altro è la città analoga, lasciando perdere il Canaletto, riferimento equivocamente classicista, se non un fotomontaggio? Qualcosa che forse è entrata nell’immaginazione di Rossi dalla parte di quel cinema che amava molto.
La perdita della discorsività ottocentesca, della sequenza, netta e riconoscibile degli spazi urbani che dalle mura arrivava al centro, nelle città ha una conseguenza immediata: la perdita del centro. Le città oggi si riconoscono al passo – diceva già Musil – non più dai loro monumenti.

Si potrebbe affermare che la periferia è una conseguenza dell’abbattimento delle mura delle città. Mao Tse Tung, abbattendo le mura di Pechino, nel 1950, appena proclamata la Repubblica Popolare, pensava che la campagna sarebbe così potuta entrare nella città.
Invece è stata la città a penetrare nella campagna, espandendosi, sempre più senza forma, senza luogo, senza bellezza.
Volendo andare avanti, ma non sulla strada dell’errore e delle illusioni auto referenziali, dell’idolatria del buon passato, occorre sapersi guardare indietro con intelligenza. Come ha fatto Fabrizio Paone, parlando delle grandi architetture residenziali concepite intorno al ’68. In qualche modo, anch’esse, se non prodotte, sicuramente legate a quel grande sconvolgimento mondiale, la fine del mondo di papà. Ma gli anni Sessanta, più in generale, anche nella loro lunga fase iniziale, che in Italia coincide con gli anni del boom, appaiono oggi come soffocati, stretti tra due ipervalutazioni ideologiche: ad un capo del tempo, l’improvviso amore per le architetture del fascismo, spinto fino agli esempi meno felici, come la teca per l’Ara Pacis di Morpurgo ed i suoi palazzoni in Largo Augusto Imperatore; all’altro capo, la contemporaneità globale, assunta come isola felice, paradiso della deconstruction moltiplicata dal computer.
Forse è il momento di considerare tutti con l’attenzione di Paone gli anni Sessanta, partendo più dai risultati, dalle trasformazioni prodotte, che dalle motivazioni ideologiche che li ispiravano. Qualcosa che ormai si fa comunemente con l’architettura fascista, partendo magari dal libro L’architettura di Roma capitale, scritto da me nel 1971 assieme
a Gianni Accasto e Vanna Fraticelli (ormai introvabile e che spesso penso di ristampare). Di questa diversa attenzione critica, espressa come si conviene ad un libro di architettura soprattutto con il montaggio delle immagini, sono stato un pioniere. Mi è dispiaciuto perciò molto vedere trasformarsi la critica in moda.
Come ugualmente si fa, magari sospinti dall’angelo del nichilismo, con l’architettura della contemporaneità. Ma è totalmente vero che l’architettura contemporanea è un cinico gioco a chi sa meglio appariree stupire? Quest’angelo, contro cui lottiamo come Giacobbe, è forte, ma è forte anche la persistenza quasi involontaria dei valori formali. Nella
sezione della facciata del progetto che ci ha mostrato Pasquale Culotta seguito a leggere il modello del palazzo rinascimentale.
È ancora fecondo leggere l’architettura partendo dalla tipologia. Così edifici come il Gallaratese, Corviale, le Vele di Franz Di Salvo a Scampia, o il coronamento di Daneri che guarda Genova dall’alto rivelano il loro significato profondo. A patto però di assumerle come tipologie formali, edifici che potrebbero essere felicemente riusati semplicemente sottraendoli al ghetto concettualedell’edilizia popolare, dove ancora li confina il tardo funzionalismo.
In loro trovo ancora molto di valido, se è vero che è stato proprio il Gruppo Architettura di Venezia, la tendenza di Aldo Rossi, Carlo Aymonino, Polesello, Dardi e Semerani, se non il modello teorico, uno dei riferimenti principali sia della Barcellona di Bohigas sia della Berlino post ’89. Qualcosa che ancora oggi ci sa parlare di architettura molto di più delle (ancora più presunte che reali) nuove centralità di Roma; e sicuramente è su quella strada giusta, che a Roma era stata smarrita con l’esito poco felice del progetto Centopiazze e l’approdo, dopo gli Ulivi piantati in piazza in Lucina, alla paranoia delle piazze salotto, all’intervento sull’uso di piazza del Pantheon proponendo ombrelloni coordinati, uguali e tutti in tinta beige, sia per il tavolini del caffè che per il MacDonald.
Nei grandi edifici degli anni Sessanta, così antigraziosi e così anti morphing, si legge chiaramente la dimensione della città. Qualcosa che sfugge anche alla Vespa di Nanni Moretti per la Garbatella, figuriamoci agli architetti tardo calviniani della leggerezzaed agli amministratori impegnati a raccontare favole a lieto fine, in cui la città contemporanea scomparirà in idilli villerecci dove tutti saranno buoni e naturalmente solidali, come gli animali nel Paradiso Terrestre.
Questi grandi edifici hanno forse il loro limite nell’essere stati concepiti come parti di città autonome e formalmente compiute. Partendo da questa scelta, rivelano i loro diversi riferimenti concettuali. Il Gallaratese di Aymonino; l’Europa, con incastonata, come gemma della memoria, l’abitare in Lombardia attraverso la casa a ballatoio di Aldo Rossi; Corviale, il Karl Marx Hof (riferimento di cui mi assumo la piena responsabilità, mia e degli altri assistentidel corso di Mario Fiorentino, Gaia Remiddi, Gabriele De Giorgi, Giuseppe Cappelli, Fabrizio Sferracarini e Roberto Secchi); Scampia, le vele del Mediterraneo.
Se la città perde il centro, la forza dell’architettura da sola, espressione della sua autonomia, non può bastare. A questa deve accompagnarsi la consapevolezza di far parte di un problema più ampio, il problema del modo in cui oggi possiamo abitare.
Tutto si tiene. Per dare identità al cittadino che abita in periferia – senza dimenticare che oggi tutto è periferia – bisogna agire sul senso di appartenenza alla città come insieme, non sul fallimentare tentativo di rendere grazioso il particolare quartiere di residenza (centopiazze, demolizione dei ponti del Laurentino). Anche attraverso eventi e spettacoli
effimeri, che però ti fanno dimorarein quello che simbolicamente è ancora percepito come zona centrale. Come la zona archeologica, il parco centraledi Roma, Massenzio, Colosseo, Circo Massimo.
L’autosufficienza e l’autonomia, Corviale che in fondo si presenta come le nuove mura della città, il nuovo limite (dall’altra parte c’è la Valle dei Casali percepibile come non urbanizzata), subiscono i
l paradossale handicap di chi tenta di farcela da solo. Non basta presupporre, come Corviale fa, la grande dimensione promessa a Roma dal PRG del ’62. Anzi, la sua mancata realizzazione, la sua assenza effettiva, trasforma Corviale in un mostro, un albatro baudelairiano.
Le difficoltà delle città deindustrializzate dell’Inghilterra, della banlieu parigina, dei fatti del Trullo a Roma o di Napoli, le periferie Far West che terrorizzano la stampa benpensante, non dipendono da carenze di servizi (basti pensare alle città della cintura di Parigi, come Nanterre o Bobigny o Champigny, ricche anche di prestigiosi teatri) o dall’isolamento (la Metro o la RER parigina consentono di arrivare rapidamente nel cuore di Parigi; quanto a Roma, basta ricordare la cagnara contro la fermata della metropolitana a piazza di Spagna), ma da qualcosa di molto più complesso ed immateriale, dalla perdita del centro della città, che non viene più concepita come un intero e tanto meno vissuta come appartenenza ad un insieme politico, la polis.
Spostandomi in America, vorrei solo aggiungere, a quanto ha già detto benissimo Marco D’Eramo, l’esempio di Celebration. La città costruita dalla Walt Disney, dove chi vuole comprare una casa deve impegnarsi, alla firma del contratto d’acquisto, ad una residenza non inferiore ai sei mesi all’anno. E non solo: nel periodo di residenza, ci s’impegna a passeggiare sulla Main Street, dalle cinque alle sette, almeno tre giorni a settimana. Celebration presenta altre significative particolarità, gli edifici sulla Main Street sono a scala rimpicciolita di un terzo, ostentano la propria irrealtà.
L’America delle griffe come qualcosa di sufficiente all’identificazione di un luogo (il marchio del Mac Donald’s), sta diventando l’America delle città parco a tema, concepite essenzialmente per soddisfare il bisogno di sicurezza (con qualche sogno che i consumi possono generare e far comprare). Vivere in un parco a tema è qualcosa di intimamente
imparentato con il vivere in un reality show. Come intuisce genialmente Peter Weir nel Truman Show, ambientato in una città-giocattolo che esiste realmente (fondale dell’orizzonte a parte), opera di un architetto venturiano sedotto evidentemente da Leon Krier.
Follia per sette clan di Ph. K. Dick (scelgo questo tra i tanti spunti che i romanzi di Philip K. Dick offrono sempre allo studioso delle città) ci rappresenta un mondo i cui abitanti vivono in città sotterranee, impegnati come schiavi nella produzione bellica che assorbe tutto il loro tempo di vita ed ogni loro desiderio, ai quali vengono continuamente mostrati, attraverso la TV, gli orrori della guerra in superficie. In realtà la guerra è finita, e sulla superficie vivono, nella condizione idilliaca così cara agli amministratori delle città italiane, le èlite, che sono le uniche a conoscere la verità. Qualcosa di simile c’è anche in Isaac Asimov, un autore più tranquillizzante, che comunque immagina, nel
ciclo della Fondazione, il mondo di Trantor come un mondo che viene abitato, sempre per paura della guerra, in città sotterranee. Quello su cui voglio richiamare l’attenzione è sul carattere della vita in queste città, quelle immaginate da Philip K. Dick, ovviamente, piuttosto del, comunque avventuroso, mondo di Asimov (da cui soprattutto è possibile fuggire). Una vita simulata, vissuta più con l’immaginazione che fisicamente: una rappresentazione della vita come fuga e perdita della realtà, come in un parco a tema.
Poiché nel mondo globale si compete, gli USA oggi esportano anche i parchi a tema. Ad esempio, Europaradiso, proposto da un gruppo di imprenditori israeliano-olandese, in un luogo dalle risonanze storiche come le foci del Neto, il fiume dell’antica Kroton.

Questo gruppo ha già al suo attivo la realizzazione di Venice, città clone di Venezia, nella città di Las Vegas, e di un albergo zoo-Safari in Sud Africa.
La gentrificazione che li contagia vistosamente, non sta del resto trasformando i centri storici (in Italia quelli di Venezia, Firenze, Roma in testa), in grandi shopping mall e bar a cielo aperto, organizzati come parchi a tema, dove il tema è proprio la rappresentazione, di ciò che quelle città sono state nel tempo?
La periferizzazione ristruttura gli schemi dell’immaginario. Un tempo c’era la derive teorizzata dai surrealisti, perdersi nella città come scoperta della vera struttura della città, il suo inconscio. Oggi non ci sono punti di riferimento, non è dunque più possibile smarrirci.
Volevamo la metropoli, abbiamo avuto la periferia ovunque, nei centri storici come nei musei, nei luoghi deputati alla custodia della memoria e dell’identità.

Nietzsche diceva: in tempi di bassa politica, alta cultura.
Io l’ho citato, nel 1981, intervistato dalla rivista francese Revueche all’ etè romaindedicava un numero monografico, per dire perché avevo inventato l’estate romana. Ma senza pretendere di essere l’erede della Gaia Scienza, sapevo come sarebbe potuta andare a finire la mia invenzione. Bensì per dire che, non essendoci nemmeno più l’alta cultura, mi ero inventato qualcosa … Per intervenire sulle periferie ho mirato al centro, tentando anche di mantenergli – in forme mutatissime – quel tanto di eccezionale (oserò dire la parola sacro?), senza il quale il centrodi una città non esiste.
Gli anni ’60 forse sono importanti perché sono stati gli ultimi a collegarsi alla posizione sulla città del Movimento Moderno. Costruire nuove periferie voleva dire, per Le Corbusier come per il Weiussenhof come per Ernst May a Francoforte (come per Rossi, Aymonino, Fiorentino e Daneri), costruire la nuova città (o almeno le nuove partidella città). La città dell’uomo al posto della città dell’asino. Non commettiamo lo stesso errore alla rovescia.
Scartiamo la forma della città orizzontale di Hilberseimer, troppo contaminata con la sociologia, o le propagandistiche visioni di città di Le Corbusier, e prendiamo queste elaborazioni come frammenti.
Compresi i proundi El Lisitskij, o gli studi degli allievi di Malevi’c allo Xutemas, o il New York Boogie Woogiedi Mondrian.
Non credo che l’architettura italiana possa proseguire in quella che mi sembra assomigliare pericolosamente alla damnatio memoriae della sua architettura degli anni Sessanta e Settanta, Quaroni, Tafuri, Aymonino, Aldo Rossi inclusi, comprese le elaborazioni teoriche, lasciando il campo a figure forse ormai esauste, a giudicare da qualche perdita di smalto (Koolhaas, Eisenmann), autoreferenziali o autopropag
andistiche; o al più
recente architetto con la valigiache ignora i luoghi perché non appartiene a nessuno di questi. Come ha detto Fuksas, con straordinaria chiarezza involontaria, a proposito di Roma ‘che non gli appartiene’.

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