Renato Nicolini


Un punto interrogativo rimette in discussione, se non addirittura sconfessa, il titolo di un mio articolo, poi pubblicato su ‘Abitacolo’, che avevo inviato come abstract al Convegno. Vorrei – col punto interrogativo – scongiurare anche solo l’idea di una possibile gerarchiatra i due termini , di un’ arte della città che si configuri come una sorta di superarchitettura.
Tra arte e città si stende piuttosto una rete di relazioni possibili tra i due termini. Una serie di reti, direi anzi, tanto più fitte – ed intrecciate – quanto più sono plurali i fenomeni estetici (acustici, visivi, tattili, percettivi – effimeri – oggi anche telematici, virtuali, immateriali) che ne costituiscono le maglie, e quanto più si rivela plurale (e conflittuale) il linguaggio dell’architettura.

Di fronte ad una selva così intricata, per farmi largo afferro l’ascia di Musil. Una frase dalla pagina d’apertura de ‘L’Uomo senza Qualità’. Le città si riconoscono al passo. Qualche tempo fa, a Siena, a cena nella contrada del Bruco con un amico rivisto dopo molto tempo e che oggi insegna Estetica proprio nell’Università di quella città, Alberto Olivetti, abbiamo progettato un Seminario sull’estetica della città, che partisse proprio da questa frase; contaminandola con i risvegli notturni di Marcel Proust. Prendere una particolare forma dell’esperienza estetica, la nostra sensibilità al rumore e al silenzio (‘ascoltare il silenzio / ascoltare le pietre bianche’, scriveva di Venezia il più grande compositore del Novecento italiano, Luigi Nono) ed applicarla alle città, partendo dalla condizione (così analoga alla derive surrealista) del risveglio. Mi accorgo di aggiungere rami al mio labirinto, anziché fare largo. Torniamo perciò alla frase di Musil, che nel nostro caso va applicata in tutt’altro senso. In coppia con un’altra considerazione di Musil, sempre in apertura di romanzo, in cui Ulrich si interroga su come mai tutta la soggettivitàdel nostro mondo moderno, la sua inaudita varietà di comportamenti, finisca per approdare all’oggettività della statistica e della prevedibilità. Come mai, insomma, il massimo apparente di soggettività si trasforma in qualcosa di straordinariamente simile al suo contrario, la meccanicità? Musil è anche figlio di quest’aporia, e da questa considerazione risulta più vicino al Futurismo di quanto in genere non venga riconosciuto. Anche questa è una divagazione. Di questo ragionamento sottolineo
l’importanza della riconoscibilità di qualcosa che, più che avere una propria consistenza specifica, è la sommatoria di componenti diverse ed eterogenee, come il passo, cioè la sommatoria dei modi di spostarsi e dei rumori che producono, di una città.

Ille his est Raphael, timuit quo sospite vinci rerum magna parens, et moriente mori. ‘Questo è Raffaello. Lui vivente temette d’esser vinta la Natura – la grande genitrice delle cose – e lui morto di morire con lui’. Così dice l’epigrafe sulla tomba di Raffaello al Pantheon. Un luogo che mi è caro, dove entro ogni volta che passo nella piazza, anche quando vado di fretta, sospinto dagli impegni – tante sono le cose, per me sempre nuove, che ha da dirmi. Quanto però è ormai lontano dal nostro tempo!
La chiara distinzione tra Soggetto ed Oggetto, tra Soggettività ed Oggettività, fondamento del mondo classico ed espressa nell’idea di percezione esattadel reale, è ormai irrimediabilmente compromessa. Non solo l’oggettivo, addirittura il meccanicoè entrato – quasi di contropiede, proprio nel momento della massima offensiva dell’avanguardia
contro la corrispondenza tra realtà ed oggettività – nel campo del soggettivo, ibridandolo in modo irreversibile.

Il fascino dell’inorganico e del meccanico non è stato avvertito soltanto da Musil, è stata generalmente la controparte della soggettività nella nuova rappresentazione dell’Arte messa in scena dalle avanguardie all’inizio del Novecento. Come distinguere il vero dal falso, la donna amore della propria vita, dal meccanico doppio malvagio, dalla bambola del dottor Coppelius (il riferimento a E. A. Hoffmann ed alla sua serie di sosia, serve a ricordarci, per non tirare sempre in ballo il Lenz di Buchner nell’interpretazione di Deleuze e Guattari, come, per più di un aspetto, il Romanticismo tedesco sia stato la prova generale di questa messa in scena), alla falsaMaria androidedi ‘Metropolis’ di Fritz Lang? Col ‘non ti credo’ opposto da Grotowski (e da Carlo Cecchi) alle ‘interpretazioni’ dei suoi attori? Possiamo certamente affermare
che, nelle avanguardie del Novecento, soggettività e meccanicità si presentano come una sorta d’indissolubile sinolo aristotelico. Anche per il peso che le nuove arti tecnicamente riproducibili – come il cinema e la fotografia, dove non esiste più l’ originale- assumono nel contesto dell’esperienza artistica. È per arrivare a comprendere questo fino in fondo, che Walter Benjamin scrive il famoso saggio ‘L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica’.

Prendiamo un artista della fotografia come Henry Cartier Bresson. Non possiamo certo classificare la sua teoria dello scatto fotograficoistant decisif sotto la rubrica dell’elogio della meccanica. Henry Cartier Bresson ha sempre ricordato il proprio apprendistato artistico presso il pittore Andrè Lothe, un purista, aderente all’Esprit Nouveau di Le Corbusier e Pierre Jeanneret. La sezione aurea (la cui importanza Andrè Lothe ricordava ai suoi allievi continuamente), dunque, una
regola compositiva, non era intesa come incompatibile con l’eccezionalità dell’evento. La lezione di Cartier Bresson è rivolta a tenerli insieme entrambi, senza separare la non pianificabilità dello scatto e l’accuratezza dell’inquadratura dell’immagine.
Gli ultimi vent’anni, per la direzione imprevista che ha preso lo sviluppo tecnologico, non verso una sorta di monumento alla meccanica attraverso i viaggi spaziali, ma verso il piccolo del bit, del chipe della comunicazione – verso la comunicazione in tempo reale, in tutta la sua immediatezza, instantaneità e pervasività; e verso l’ingannevole perfezione della simulazione dell’immagine attraverso il computer, gli ologrammi, le tecniche della realtà virtuale – ripropongono, anche se in una prospettiva apparentemente più morbida, più disneyana – dove comunque si cerca di dare l’illusione della compattezza e della totalità, piuttosto che la percezione del frammento e della crisi – la medesima
questione.
Lo stesso progetto neorealista, ritrovare una relazione virtuosa dell’arte con la realtà, di Rossellini (o di Ridolfi) andrebbe misurato piuttosto con l’aspetto affettivo, che non con quello razionale – lukacsiano, della realtà. Così come, in architettura, Aldo Rossi o Louis Kahn (nella loro ricerca di relazione con il Mito, la Storia, la Memoria) – resistono alla seduttività della formula di Robert Venturi (l’inclusività dell’ e – e, anziché l’eclusività dell ’o – o), che non escludendo apparentemente nulla dalla realtà ne esclude però la finalizzazione, dunque l’essenza della progettabilità.
In questa tendenza generale colpisce l’assenza d’intenzioni di regia anche lontanamente paragonabili a quelle delle Avanguardie dell’inizio del Novecento. Chi ha tentato di teorizzare nuove tendenze, come Achille Bonito Oliva con la Transavanguardia, ha richiamato la nostra attenzione, piuttosto che sul loro carattere, su una situazione generale
di perenne trasformazione.Ormai senza più nemmeno l’illusione di una direzione coerente. All’artista si aggiunge un altro soggetto autonomo, che autonomamente interviene nel campo dell’estetica, il critico, votato, più che alla comprensione, all’ ideologia del traditore.

Al simulazionismo iperrealista corrispondono – in una prospettiva rovesciata – i romanzi di Philip K. Dick. ‘Ubik’, ‘In senso inverso’, ‘Le tre stimmate di Palmer Eldritch’, ‘L’uomo nell’alto castello’, ‘I simulacri’, ‘Follia per sette clan’ che ripetono, in fondo, sempre la stessa trama. La realtà, così come ci appare, si sfalda progressivamente, e, sotto le sue macerie, emergono i lineamenti di un’altra realtà, anch’essa però destinata a rivelarsi inconsistente ed a sfaldarsi. Nella quale, proprio perché l’alternanza è tra gradi diversi di compattezza fino allo sfaldamento finale, non c’è vera possibilità di mutamento. L’identità, lo aveva già insegnato Ovidio con ‘Le Metamorfosi’, può sussistere solo come mutamento. Philip K. Dick trasforma la domanda: ‘cosa è reale? Cosa non lo è?’, nell’altra, più vitale: ‘cosa è umano? Cosa non lo è?’.

Voglio cercare un ultimo esempio nella politica. Pietro Ingrao, presentando un suo piccolo libro, ha voluto sottolineare l’ egoismo, la soggettività, del suo impegno politico. ‘Se non avessi sentito le ingiustizie del mondo come un’offesa personale, se non ne avessi sofferto come se mi toccassero direttamente, non avrei avuto la forza di fare le scelte che ho fatto’.

L’essere ed il sé

La ferita di Musil all’idea stessa di qualità, qualcosa che si fonda sull’ identificabilitàdel carattere, aveva colpito proprio quel sé,che oggi sembra centrale, addirittura debordante. Non importa quanto la nostra cultura e le nostre abitudini quotidiane siano soggettive. Il loro senso è nascosto altrove – nella grande massa dell’ essere. Essere che avvolge e comprende il nostro sé. Insiemecui – anche senza consapevolezza – apparteniamo. Produttore del general intellect, della filosofia perenne(o comunque lo vogliamo chiamare), che permane; per quanto ce ne possa distrarre l’ invadente
luccicanza del sé.

Aldo Rossi, nella sua Autobiografia scientifica, cita una poesia di Holderlin, per spiegare la propria ricerca di un’architettura sprechless und kalt, ‘senza parole e fredda’. Ho ricercato e trovato questa poesia nel volume dei Meridiani dedicato alle poesie di Holderlin. La stagione sprechless und kalt è l’inverno, quando i muri si ritrovano nudi sotto la pioggia e rivelano la propria natura ‘fredda e senza parole’. Solo la banderuola di ferro cigola sopra la casa dell’uomo. Aldo Rossi ama questa poesia perché comunica in modo meraviglioso l’essenza dell’architettura. All’architettura non si può chiedere di sostituire lo splendore della natura, le trascorse stagioni, dalla primavera all’autunno, ricche prima di fiori e poi di frutta, quando la sua abbondanza riempiva tutto il declivio del colle fino a sporgersi sul lago. Forse Raffaello … Ma l’architettura oggi ci parla con un altro linguaggio, quello del riparo essenziale. Solo il suo grado zero, dice Holderlin e con lui lo ripete Aldo Rossi, può essere tollerato dall’uomo che, rilkianamente, ‘è nato per abitare l’ aperto, inconsapevole del pericolo’. Bisogna intendere correttamente il significato della venustas vitruviana, una bellezza che non è piacevolezza ornamentale, ma è indissolubile (come sono per Aristotele l’anima e il corpo) dall’ utilitas e dalla firmitas. Specie adesso, aggiungerebbe Heidegger, che ‘viviamo nella mezzanotte del
mondo’, nella sua ora più buia, quella in cui ‘i-tre-che-sono-uno (Cristo ,Dioniso ed Ercole )’lo hanno abbandonato, e solo i poeti possono ancora ritrovarne le tracce.

Intendo l’architettura come qualcosa dalla natura anfibia. Di questa duplicità, specialmente adesso che manca la stessa figura (non soltanto volontà e possibilità) del principe per infondere carattere unitario all’arte pubblica, m’interessa relativamente poco l’aspetto comunicativo, la possibilità di rappresentare ideee valori – per dirla con Galvano della Volpe. M’interessa piuttosto ciò che l’architettura quasi nasconde dentro di sé, il suo carattere quasiontologico, il legame indissolubile con uno degli a priori trascendentalidi Kant, lo spazio. L’architettura interviene nel definire la nostra relazione mentale, persino affettiva, con lo spazio: la dimora, la contrada, la città,il paesaggio.Questo non può che fare apparire secondario, effimero, destinato col tempo ad aff
ievolirsi ed a scomparire, ogni forzatura del suo linguaggio nella direzione di una maggiore comunicazione.Guardo le architetture- sculture, a partire dal Guggenheim Bilbao di Frank O.Gehry, che si propongono come griffe, firme garanzia di qualità nel paesaggio urbano, e mi domando quanto – tra un secolo – il loro destino sarà simile a quello del Monumento a Vittorio Emanuele II del Sacconi, oggi appesantito dalle sue stesse allegorie risorgimentali non più immediatamente comprensibili.

Architettura, arte e città

Come è largamente noto, per il Bellori l’arte che riportava il primato sulle altre era la pittura, proprio perché cosa mentale, più vicina all’ idea,di quanto potranno mai esserlo scultura ed architettura, che per esprimersi devono passare attraverso maggiore materia. Forse Renzo Piano, affermando, come ha fatto recentemente, ‘la bellezza è una bellissima idea’, non si rende conto di essere ancora soggetto all ’idea del Bello. Se, d’altra parte, è opportuno rovesciare l’idealismo belloriano, questo rovesciamento non può tradursi nell’affermazione del primato dell’architetturanella gerarchia delle arti.
Non che questo esperimento non sia stato fatto, anche in tempi recenti. Penso all’appello di Mario Sironi in occasione della Triennale del ’36, muri ai pittori. E, all’opposto, al ruolo dominante dell’architettura nei progetti di Terragni, come il Palazzo del Littorio di Como, ed anche in quelli eseguiti con la collaborazione dello stesso Sironi, il 1° Concorso per il Palazzo del Littorio a via dell’Impero, o l’allestimento del Palazzo delle Esposizioni per il Decennale del ’32. Questa duplicità d’intenzioni porterà a forti contrasti tra architetti e pittori, risolti con la rigidità della gerarchia dall’ Accademico d’Italia Marcello Piacentini, nei controversi tentativi di applicazione della legge bottaiana del 2%. De Stijl sottopone tutte le arti ad una gerarchia immateriale, che non privilegia nessuna di loro. Tutte tendono, in ugual modo, a rivelarci la continuità dello spazio, la sua essenza, qualcosa che è oltre l’esperienza fenomenica. Un qualcosa, sia detto di sfuggita, che acquista un altro sapore dopoil postmoderno di Philip K. Dick e la sua narrazione letteraria della realtà come un insieme di scatole cinesi (in cui l’ultima spesso contiene la prima). Di conseguenza, tutte le arti debbono, architettura compresa, non soltanto il design (siamo ai tempi del Bauhaus), sottostare a regole. È celebre la polemica Mondrian – Van Doesburg a proposito dell’uso della diagonale nel Cabaret Aubette, che Mondrian non riteneva legittimo. In questo senso non c’è né differenza di scala né gerarchia tra i problemi posti dall’arredo dello studio parigino di Mondrian e quelli del New York Boogie Woogie. L’influenza della città moderna per antonomasia d’allora, New York, è, in
entrambi casi, ugualmente assentee presente.
Aumentando la rete delle relazioni ed allentandosi ogni forma di gerarchia (non solo tra le arti; ma tra esteticaed etica, che già Wittgenstein definiva ‘due facce di una medesima attività’, senza dunque ci fosse impellente bisogno di ritornare sulla questione in una non lontana Biennale ’Architettura di Venezia …; o tra consumo coltoe consumo di massadel tempo libero) dovrebbe aumentare la rete delle possibilità. E, poiché anche il tradizionale primato delle istituzioni pubbliche nella committenza dell’ arte pubblica si allenta (il Rockfeller Center di New York non è più un esempio isolato di come il mecenatismo privato intervenga direttamente sulla città; voglio citare la Trump Tower, in tutto l’efferato kitschdella sua parete interna a più livelli, per la cui intera altezza l’acqua scorre incessantemente, perché non c’è solo l’intervento educato di Renzo Piano sul Lingotto di Torino), ne dovrebbe conseguire un aumento delle possibilità. La loro varietà dovrebbe – come logico risultato di questo ragionamento – caratterizzare il paesaggio urbano dei nostri tempi. Come avviene dunque che questa varietà non si produce affatto? E che, al contrario, una certa quantità di edifici griffe che hanno avuto celebrità negli ultimi anni, si assomigli pericolosamente? E che questi edifici possano sembrare progettati più per il non luogodella città mediatica globale, che non per le città reali in cui sorgono? L’Auditorium romano di Renzo Piano è stato comunicato come l’arrivo, quasi messianico, della contemporaneità anche a Roma;ma non si può certo affermare che la progettazione dell’Auditorium si sia preoccupata più di tanto del rapporto formale con la parte di città in cui sorge. Né con il Villaggio Olimpico, che pure unisce le firme di Libera e Moretti, né con il viadotto di Corso Francia, subiti come meri limiti.
È giusto osservare che il fenomeno della riduzione delle tendenze linguistiche non caratterizza solo l’architettura. Più che come conseguenza del tono generale, piuttosto friendly che agonistico, del postmoderno italiano, l’interpreto come conseguenza della concentrazione accentuata che caratterizza l’industria della comunicazione. Non molto diversamente – vorrei aggiungere – dalle conseguenze di gare per l’aggiudicazione di grandi appalti, come quello celeberrimo del Ponte di Messina, dalle quali è escluso come criterio di valutazione ogni parametro di qualità, che non sia configurabile come parametro tecnico e soprattutto economico.
Non credo, vorrei aggiungere, che questo panorama sia soltanto italiano. Relativamente poche opere divenute icone globali stanno prendendo il posto nel mondo che prima apparteneva ad un sistema, in perenne conflitto ed ibridazione, di culture locali capaci di governare se stesse. Questo può ritenersi una conseguenza inevitabile della globalizzazione, ma è il tipo di modello che si sta affermando – in relazione con l’astrazione della comunicazione più efficace, piuttosto
che con la concretezza di un luogo – a generare perplessità.
Per la sua neutralizzazione, occorrono più condizioni. Partirei da una rinnovata capacità di osservazione critica, che si traduca in un’ intelligenzaed in un progetto leggeri. L’ultima volta è forse accaduto con la Transavanguardia di Achille Bonito Oliva. Nel campo dell’architettura, né la Tendenza di Rossi, Aymonino, Semerani, Dardi e Polesello; né la Strada Novissima di Portoghesi alla Biennale di Venezia; né Mario Fiorentino con la costruzione del Corviale, in contrappunto ai suoi corsi ed alle discussioni
con il gruppo dei suoi assistenti all’Università di Roma, sono riusciti a tanto.
Darò una specificazione soggettiva di un’altra condizione. Questa si eserciterà all’interno dell’altra categoria kantiana essenziale alla nozione di progetto: il tempo. Paragonando il tempo occorrente all’elaborazione del progetto a quello necessario alla sua percezione, appare immediatamente che non si tratta di quantità paragonabili. Non a caso
Cesare Brandi propone per l’opera d’arte il concetto d’ astanza. La semplice presenza dell’opera d’arte contiene la quantità d’informazione sufficiente al suo godimento. Questa sensazione può essere affinata ed elaborata, ma è anche – e lo è in primo luogo – emozione immediata.
Oggi la forza dell’arma principale, con cui l’opera d’arte può imporre a noi la sua astanza, l’ immagine, è indebolita dalla sua stessa diffusione. La quantità di immagini che recepiamo ogni giorno, proposta dai mezzi di comunicazione di massa, dall’edicola dei giornali alla tv, allo schermo del computer o del videofonino, equivale ad un’iconoclastia
attraverso il potlach,lo scambio eccessivo.
Da qui la mia convinzione – ma ogni architetto potrebbe forse proporre una ricetta diversa – che uno scambio corretto tra architettura e le altre arti, che arricchisca l’architettura del loroimmaginario, anziché imprigionarla impoverendola in un altro sistema di regole, possa avere origine da una sorta di doppio movimento. In questo contatto che l’altro da, l’architettura può rinnovare la propria capacità semantica, piuttosto che tentare di assimilare la specificità di altre arti, proponendosi come una sorta di grande scultura urbana.
Il doppio movimento riguarda da un lato le modalità di progettazione. Si tratti della formula – solo in apparenza semplice – di Rem Koolhaas (‘XL, X, M, S’); o delle raffinate elaborazioni sulla sezione aurea di Cesare Cattaneo: non esiste progetto senza l’auto imposizione di una regola, la scelta di un punto di vista.Ma questa regola, ducham pianamente, è celibe, non genera nulla da sé sola. Ha ragione Franco Purini, quando afferma la qualità dell’architettura come qualcosa che deve essere nascosta. Ha ragione Mies van der Rohe quando afferma che questa qualità (cioè Dio) può rivelarsi – li abita – solo nei particolari. Voglio sottolineare che l’eccesso di comunicazione uccide il gioco, e che un certo grado di gioco sapiente, di invenzione libera e disinteressata, è necessario all’arte, in particolare all’arte dell’architettura, che già Milizia trovava a rischio di noia.
L’altro movimento, quello della comunicazione, non più la costruzione ma il suo spettacolo, sarà tanto più efficace quanto non pretenderà di integrarsi, quasi spiegandola, con l’architettura, ma vorrà piuttosto metterla a cimento. L’ effimero non ha certo aiutato a comprendere criticamente il senso né della piazza del Beaubourg, né della Basilica
di Massenzio.
Ma certo il Colosseo illuminato in rosa o in violetto, o l’aquila di Napoleone, che spiega le sue ali su tre schermi piazzati davanti all’Arco di Costantino nel film di Abel Gance, ultimo kolossal del cinema muto, hanno arricchito la serie delle relazioni simboliche che oggi – duemila anni dopo Cristo – possiamo intrattenere con i monumenti dell’antica Roma.Mentre la grande piazza inclinata del Beaubourg, realizzata con uno sventramento nel cuore del Marais, già in partenza è stata concepita come il luogo di uno spettacolo continuo, capace di dare un senso nuovo all’arte di strada parigina, e di produrre, come suo completamento, quel grande gioco urbanoche è la fontana di Tinguely. L’ evento e la sua scena fissa possono sempre trovare nuove ed impreviste relazioni, non ancora esaurite né dalla storia degli allestimenti d’artista in piazza Plebiscito a Napoli, né dai tentativi di diretta televisiva dei Capodanni urbani, dei concerti del Primo Maggio, etc.
Proprio la ricchezza delle possibilità mi fa trovare strano l’impoverimento e la banalizzazione in stereotipi, diffusi in modo ugualmente massiccio ed omologante, dell’immagine delle nostre città contemporanee. Una paradossale situazione cui è impossibile rassegnarsi.

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