Raffaele Mennella


L’Europa vista dal satellite mostra delle continuità luminose e delle intensità dalle quali sembrerebbe possibile decifrare il nostro sistema insediativo.
Ma anche in presenza di queste luminosità, e quindi di una condizione di uguaglianza ‘rappresentativa’, non tutto ci appare, territorialmente parlando, o luminosamente osservando, uguale e continuo. In questa ‘visione’ dall’alto nel supposto ‘tutto uguale’ si notano, fortunatamente, molte ‘differenze’ e discontinuità!
Gli avvenimenti economici sembrano invece restituirci, proprio alla grande scala, scenari globali nei quali i territori acquistano forme molto ‘simili’ … quasi uguali per uso e tendenza.
La domanda tuttavia è: se le mele sono tutte uguali, se le pere sono tutte uguali, provengono da giardini uguali o quanto meno simili? (fig. 1) Quando atterriamo o decolliamo in o da un aeroporto; quando percorriamo una strada ferrata o solo statale, i bordi pur mostrandoci le stesse edificazioni, confrontabili per forza di mercato e comunque
d’uso, non ci restituiscono, credo, quelle omogeneità, quelle continuità che le definizioni di città diffusa, città generica, metropoli ‘patchwork’ … vogliono indicarci. Ancora una volta: fortunatamente!

fig. 1 | L’Europa vista dal satellite, 2000
fig. 2 | Pietre Bruegel il vecchio,
La gazza sulla forca, 1568

La fisicità delle cose, presente nel territorio, non genericamente descritto, o preso ad assunto, annuncia più diversità, nel bene e nel male, di quelle che avremmo supposto nell’accettazione dei paradigmi socio-politici.
La diversità fisica annuncia, da una parte, le diversità dei supporti, delle ‘carte’ sulle quali sono scritti i racconti anche simili, dall’altra, il costante adattamento delle nuove scritture non solo al supporto, ma alle cancellature e alle conferme dei tratti, dei segni, delle parole, talvolta anche delle frasi, trovate nel supporto sul quale siamo chiamati a riscrivere.
In sostanza la città omologata anche quando è con le forme della ‘villas miserias’, o ‘barrios’ o ‘favellas’ … mette in causa la fisicità dei luoghi. Fisicità che è storia di eventi umani, di scontri sociali, di avanzamenti e resistenze culturali, tradotti in segni, regole, geometrie.
In sostanza l’oltre mura, fino a qualche tempo fa e per le città ‘storiche’, per l’Europa in generale, è stato il luogo dell’esclusione, dell’altro del vivere comune. Luogo di sepoltura, di afflizione, ma anche di festa, come nel caso delle kermesse, e per converso di crocifissione, di esecuzione, insomma di spettacolo, di rappresentazione, appunto, di evento oltre il ‘comune’, come l’ampia documentazione letteraria e artistica ci mostra (fig. 2).
Le periferie, gli insediamenti di ‘fuori’, i borghi … sono state di fatto, anche nella conseguente dissacrazione di questi stessi luoghi, variamente nominati, come delle riserve, aree d’attesa.
Un’attesa, una disponibilità, una riserva rispetto a tutte le possibili crescite della città madre. Tutto il possibile rispetto agli usi ed alle trasformazioni, comunque erano reali a partire dal ‘contingente-contiguo’ urbano; luogo urbano, quindi, in fieri da essere prima ancora che reale già parte dell’urbano, fisico, definito.

Questi luoghi hanno avuto ed hanno ancora varie denominazioni più o meno attinenti, giuste in termini o anche solo tradizionalmente distintive, pur distanti dal significato originario (a Roma, come altrove, le borgate di una volta, luoghi di segregazione, emarginazione e/o di ‘ausilio’ legale o abusivo per le immigrazioni volute e non controllate, hanno coinciso con la grande espansione degli anni settanta ed oggi sono il ‘contingente urbano’ della conurbazione metropolitana, ‘avamposto’ dei grandi insediamenti commerciali, che sono progettati come luoghi riconosciuti a misura di nuove porte di città).
Nella definizione urbana di questi luoghi, ad ogni ‘denominazione’ ha corrisposto un modo connotativo. Un modo sia formale che sociale a misura e significato, poi, delle politiche e delle culture nelle quali, quelle denominazioni, diventavano connotative:
– sub-urbani (sub-urb),
– retro-terra (hinter-land),
– luoghi banali (ban-lieu).
Anche da queste denominazioni ne poteva (e forse può) derivare la dimostrazione della forza del Centro che avendoli generati avrebbe dovuto ‘vantarsene’ e non relegarli a luogo di ‘esecuzione’ sociale e, talvolta, ‘giuridico’.
Braudel diceva, a proposito delle città medievali e dei suoi sobborghi: ‘non c’è albero vigoroso senza germogli intorno’.
La città è da sempre centro e periferia al di là delle distanze dai punti rappresentativi; ed il suo riassunto con la torre di Babele, luogo di continue commistioni di forme e di linguaggi, è un dato culturalmente acquisito dove non finito e rovina sono la misura della sua continua mutazione.

fig. 3 | Emily Allchurch,
Tower of London (after Bruegel), 2005
fig. 4 | Walter Ruttman, Berlino –
sinfonia di una grande città, 1927

La torre di Babele come divenire o come rovina, figurativamente quasi la stessa cosa sia nella figurazione di Bruegel che di Emily Allchurch, testimonia come le architetture ‘ad astra’ alludano ad un’idea di città individualista. Ma le architetture ‘ad astra’ lo sono per la diffusione di quelle ‘per aspera’ (fig. 3). Una città di architetture affascinanti rischia di essere una città al tramonto, credo!
Una città di monumenti o di edifici pretesi tali, all’urgenza dei più ed alle ‘diverse etnie’ che popolano le nostre metropoli, può apparire ed essere vissuta solo con l’indifferenza per i siti perduti: memorie per alcuni ‘eletti’, ma ‘sepolcri imbiancati’ per i ‘disincantati’ come e/o paesaggi mitici distanti e al tramonto. La nostra condizione geografica all’occidente e quindi ‘al tramonto’ del mondo e la cultura che le appartiene non conforta né sembra attenuare la presunta difficoltà e l’inadeguatezza delle risposte alle attese della contemporaneità con tutti i suoi ‘margini’ decisamente emergenti.
Nei mesi passati a Genova ed a Torino erano presenti tre mostre d’arte nelle quali le celebrazioni avevano come protagonisti: il lavoro, per i suoi effetti nei luoghi del vivere; la città, negli eroismi e nelle intuizioni degli artisti degli anni ’10 e ’20, ed il territorio della nostra contemporaneità, messa in mostra, appunto, attraverso la visione dei
paesaggi urbani tradotti in ‘Metropolitanscape’ secondo una dizione ripresa da Zeri per definire la percezione visiva dell’Italia e degli italiani nella storia della pittura.
In queste mostre d’arte la città come metropoli e questa come paesaggio, e il territorio del nostro vivere, erano visti, presentati, come una sorta di ‘tutto’ frammentato, discontinuo, in fondo, di ‘non oggettivo’.
Questa perdita di oggettività era di fatto presentata, nella mostra di Torino, come il risultato di avvenimenti catastrofici che hanno segnato il tempo passato ed hanno anche segnato quello più o meno recente.
Il tempo, quello passato carico di rivoluzioni e reazioni, era mostrato come spettacolo e veniva ricordato, citato, come monito, come rischio corso, per alleggerire molte delle nostre attuali angosce.

fig. 5 | A. Stieglitz, Vecchia e nuova New York, 1910
fig. 6 | Paul Klee, incontro di strade, periferia, 1911

L’insistenza e la graficizzazione delle bombe su Hiroskima aveva, mi pare, il ruolo di sublimare un disastro dimenticato dall’occidente colpevole di aver ‘elaborato’ un lutto con un lutto e sembrava mostrare una consapevole impossibilità all’ottimismo per ‘aurore’.
L’esplosione e la distruzione per antonomasia – se non ci hanno abituato a convivere con la distruzione – ha accentuato, tuttavia, la nostra propensione culturale di occidentali al nichilismo che pratichiamo da più di cento anni, attenuato, forse, dai molti dubbi costruiti col tramonto delle ideologie e dei materialismi storici, con le filosofie dell’interpretazione
(l’ermeneutica da Heidegger a noi per il tramite di Gadamer), permettendoci, però, l’oblio.
La ‘caduta del muro’ di Berlino viene continuamente presentata e dichiarata come presa di coscienza di tutti noi della ‘caduta dell’Impero Romano’. Ma alla ‘grandiosità’ dei Templi non si sono succedute le essenzialità e i ‘minimalismi’ romanici. Siamo piuttosto dentro le temporanee luminosità dei bagliori di Costantinopoli.
La città di Berlino, anche rinascendo dalle sue ceneri, non è riuscita a volare come l’araba fenice. La messa in scena dello stesso spettacolo, mutato solo nei costumi, sembra giustificare le distrazioni, le dimenticanze. La città degli artisti, degli architetti, messa in essere per esempio nella Posdammerplatz, nella sua esaltazione e frequentazione,
testimonia, credo purtroppo, che gli angeli di Wim Wenders hanno lasciato Berlino e che il Centro di un passato margine, terreno perduto di una ex capitale odiata, è tornato Centro, ma come centro lo sono gli outlet nei paesaggi urbani da ‘crepuscolo degli dei’.
Ma se questo è il tramonto, come e quando è cominciata l’alba? È sensato credere che ‘l’anello dei Nibelunghi’ ha avuto il suo ‘Oro del Reno’ con la rivoluzione industriale e con gli effetti sui paesaggi del vivere moderno che questa ha delineato e preteso mostrando le periferie come ‘continuum’ del centro, ragione del centro stesso, nuova natura della nuova città?

È l’inizio della ‘nuova’ storia e neanche la propaganda d’allora è riuscita ad evitare le nuove processioni e le nuove cattedrali come annullamento di singolarità a favore di masse indistinte.
Il film di Walter Ruttman: Berlino, sinfonia di una grande città, chiarisce questa attesa, e lo fa con lo strumento nuovo della rappresentazione, il cinema, appunto, con una sequenza di immagini per ‘tipi’ di avvenimenti che si sviluppano e possono essere ripres

fig. 7 | Albert Kahn, Dearborn Ford Motor, 1938
fig. 8 | Frank Thiel, Berlino 1999

i nelle varie ore del giorno da vivere nella città di ‘milioni di abitanti’ secondo la definizione di Berlino-Capitale di Martin Wagner che non poteva più essere la città borghese ereditata (fig. 4).
La città, quella città, si celebrava, ed è possibile
perché il fuori, la sua periferia, anima il dentro affollandola come ragione, per uso, per esaltarne la sua ‘aria’. Ne derivava per la città dell’occidente un ottimismo a misura di ambizione di ‘dismisura’ (fig. 5).
Le Valchirie irrompevano sui vecchi luoghi sottoforma di grattacieli con l’irruenza necessaria per esaltare gli eroi. Gli eroi rappresentavano l’amore-odio per i miti del passato. Ma gli eroi cadranno in combattimento, e verranno condotti ed immortalati nel Walhalla delle storie, nel ‘memorial’ delle storie d’architettura come ‘classicità’ perdute, tramontate.
La città dell’ambizione, nasconde ancora una speranza legata al valore ‘aurorale’ dei vari ‘rinascimenti’ che l’occidente ha vissuto. L’aurora delle idealità delle utopie urbane. È il destino dei Maestri con le loro speranze di riproporre le città ideali come recupero del perduto oro del Reno. Le speranze moriranno come Sigfrido per mano di Brunilde, paladina e forza del cinismo del capitale che aveva generato l’ambizione per la città dell’industria, per ricondurre la visione delle
cose nel preludio del Götterdämerung che al solito gli artisti, prima degli eroi compositivi, avevano indicato con qualche brutalità rappresentando città di commistioni, ibridazioni, improvvisazioni e paesaggi di desolazione come esercizio per sopportare il reale e tradurlo in necessario (fig. 6); ed infine il ‘ritorno del sempre uguale’ che si presenta come l’inevitabilità del nuovo.

fig. 9 | Olivo Barbieri, Canton, 1998
fig. 10 | Edward Burtynsky, Cina: lavorazione polli, 2005

Al necessario, globale, però, si oppone la fisicità della terra, del suolo, della geografia e della sua costruzione nel tempo.
Gli alberi di mele, tutte uguali per ragioni di mercato, non disegnano nel loro disporsi, lo stesso giardino. Anche se i giardini sono alimentati dagli stessi fertilizzanti.
L’antefatto è facile esemplificarlo nell’invenzione massima del secolo scorso ovvero, come ho già accennato, con la messa in atto della città dell’ambizione e per essa della città della ‘macchina’. Una sorta di magia ottenuta per dismisura con gli stessi effetti provocati dall’apprendista stregone che per faticare di meno nel portare l’acqua provoca
un allagamento secondo la ‘Fantasia’ di Walt Disney del 1940.
Ma la contraddizione era in termini: la macchina ed il luogo della sua produzione!
L’una cosa ragione dell’altra avrebbe potuto – nei fatti e non nelle utopie dei maestri che sulla stessa ragione avevano costruito idealità morte proprio al momento della sua massima importanza e attesa negli anni del dopoguerra – generare una vera nuova città per i cittadini e non solo per gli operai ed i dipendenti?
Jean Gottmann, negli anni Sessanta, ci ricordava: ‘come l’era dell’automobile ed il miglioramento della rete stradale hanno aggiunto un ulteriore incentivo alla dispersione …’ e quindi al tramonto della città dell’ambizione ‘per tutti’.
Il motore della dispersione era regolato dal ‘fordismo’, ovvero dal rapporto tra fabbrica e territorio con la creazione di una gigantesca periferia.
Ai margini di Detroit nasce Dearborn per 100.000 operai. E questa necessità – novella Brunilde rende vano il lavoro di Sigfrido- Hilberseimer, per esempio, con la ricerca di una linearità della nuova Chicago contro la dispersione della Los Angeles di tutte le avventure e ‘sogni’ (fig. 7).
Il racconto di questo itinerario adesso dovrebbe smettere di essere letteraio e costruirsi per immagini o per richiami al
repertorio di immagini che tutti possediamo.
Alla città senza confini si oppone un centro di segnali e di indefinizioni in cui l’attesa presenta scenari più da giorno dopo (day after) che da giorno prima.
Il dentro rispetto al fuori ha limiti, confini, ma la città che sale ha meno credibilità di una volta (fig. 8).
La città senza confini comprende tutto: nuovi centri (gli iper-mercati) fuori e nuovi ex fuori dentro (le baraccopoli urbane).
Alla metropoli e al suo sprawl si oppone la città dei ‘cul de sac kids’ che come effetto collaterale ha la caduta dell’idea di ‘suburbia’ e dell’aria buona per i figli dei colletti bianchi con la messa in atto degli ‘enclaves’.
L’apprendista stregone, sempre secondo Disney, non sa fermare la scopa e l’acqua sale di livello sempre e di più.
Per cui anche il vernacolare degli anni Sessanta, ed il ricordo delle città giardino dell’800, ha perso la lucentezza e provocatorietà a favore del neointernazionalismo globalizzante!
Quando rientrerà lo stregone quale sarà il suo ‘abba kadabra’ per arrestare questo ‘tsunami’? (fig. 9)
Nuove utopie tecnologiche? Riprese e ritrovate soluzioni dal libro dei sogni? Ricordando un antico pensiero di Giulio
Carlo Argan presente nel suo ‘libro dei sogni’ politico-ideologico, credo dimenticato, Progetto e destino, del 1965 mi piace citarlo e parafrasarlo: ‘l’utopismo del nostro tempo che comincia (cominciava) nella fabbricamodello (nel mercato globale) e finisce nella fantascienza (nel sistema a rete delle comunicazioni) è tecnologico e benché il suo
disegno finga di prefigurare l’avvenire (seguire il corso degli eventi direzionandolo con realismo ed intuizione da creativi), come modo di pensiero è arcaico, dissuadendo dall’impegno, (è di fatto) reazionario’?
Possiamo dirlo? Saranno ancora una volta gli artisti ad indicarci le nuove strade dell’utopia?
Passando per nuovi-antichi artifici per ritrovate memorie? O le strade senza uscita sono le nuove luminosità urbane che
dovremmo fingere di trovare per metabolizzare artisticamente l’11 settembre? E immaginare la fisicità del nostro pianeta solo come spinosa ostilità?
Converrà finire per quanto mi riguarda con una raccomandazione di Ignasi de Solà Morales del 2001 presente in un Lotus di quell&#
8217;anno: ‘Dal punto di vista sociale
sembra ben salda l’idea che gli architetti siano direttamente coinvolti con la città … ancora oggi ci aspettiamo da alcuni di loro che abbiano qualcosa da dire sulla città così com’è, e più precisamente, che abbiano qualcosa da proporre in una situazione di disorientamento e di mancanza di obiettivi
condivisi …’.
Coraggio, dunque! Qualche buona notizia ci verrà dalla prossima Biennale! Insomma che la forza sia con noi … e anche la terra ed il suolo. Architetti buon lavoro … o altrimenti … il globale potrebbe diventare un pollaio (fig. 10).

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