Osservatorio. Storia, critica


L’architettura e l’arte

Aver scelto per questo Seminario un titolo come – Arte Architettura – è un atto di lungimiranza; ma anche di coraggio, perché vengono coniugati in esso due termini che nel tempo sono stati caratterizzati da rapporti ambigui o conflittuali. Sappiamo, infatti, che il carattere funzionale, la finalità utilitaristica, di cui si fregia gran parte dell’architettura l’ha messa spesso in posizione di minorità e sudditanza rispetto alla altre arti. Nel medioevo – per fare un esempio – a differenza della poesia e della musica, considerate ‘arti liberali’, l’architettura era posta tra le ‘arti meccaniche’, dove il termine arte significava tecnica, mestiere, lavoro, confermando così l’antica concezione greca dell’inferiorità del fare rispetto al conoscere, del lavoro manuale rispetto a quello intellettuale. Un’inferiorità che ha scavalcato i secoli ed è giunta sino ai nostri giorni con effetti nefasti, ultimo dei quali è rappresentato dalle strampalate riforme della scuola media e dell’università. Eppure – tornando in argomento – mi sembra indiscutibile che l’architettura entri a tutto titolo nel novero delle arti propriamente dette, dal momento che – per dirlo in estrema sintesi – stessa è la genesi, stessi i processi formativi, stessi quelli conoscitivi. E, d’altra parte, come non rivendicare una perfetta contiguità dell’architettura con le altre arti se nello stesso periodo in cui Kandinsky o Braque o Picasso smontano la figuratività, Shoenberg scardina il sistema tonale, Marinetti frantuma i lessici, artisti come Loos, Gropius, Meyer azzerano ogni precedente linguaggio, ogni precedente formatività, anche a partire dalla funzione?
Insomma – rovesciando le primogeniture e le gerarchie – quando all’inizio del XX secolo scultura e pittura si svincolano dai contenuti illustrativi naturalistici e assumono riferimenti figurativi astratti, come linee, piani, volumi – riferimenti che sono propri dell’architettura, da sempre – il rapporto tra le tre arti sorelle diventa meno allusivo e più diretto. Architettura arte tra le arti, dunque, e con suoi caratteri propri. Ciò che la distingue è la natura dei ‘materiali’ oggetto di manipolazione, esattamente come accade per ogni arte. Cosa intendo per materiale provo a dirlo con le parole che ha usato Aaron Copland per spiegare la costituzione della forma musicale moderna. Egli sostiene che sono materiali specifici della musica il ritmo, la melodia, l’armonia ed il colore. ‘Questi quattro ingredienti – scrive Copland – sono il materiale del compositore; con esso lavora come qualunque artigiano’. Analogamente ogni espressione artistica ha suoi specifici materiali. Tra i tanti usati per comporre l’architettura spicca proprio la funzione – una particolare funzione, se volete, cioè la funzione insediativa – che non segna, quindi, una discriminante o una fatale menomazione, come s’è pensato per secoli, ma solo una suggestiva specificità. Sulla base delle considerazioni appena svolte, mi sembra possibile condividere il titolo del Seminario laddove pone un così stretto rapporto tra arte e architettura, e in questo quadro mi sembra di un qualche interesse esaminare il ruolo di un ‘oggetto concettuale’ che ha grandissima rilevanza per l’arte, per la sua genesi, per la sua comprensione, per la sua trasmissione. Mi riferisco alla metafora, figura retorica
le cui proprietà e virtù sono abbastanza note, specie in letteratura e, in particolare, nei suoi piani alti, quelli abitati dalla poesia, dove tutto è metafora.
Ciò che vi propongo qui di seguito riguarda, appunto, la metafora ed è una breve divagazione senza centralità e senza tesi sottostanti.

Sulla metafora
È noto da tempo che la metafora è caratterizzata dalla capacità di svolgere un importante ruolo cognitivo: essa, in altre parole, è portatrice di informazione, organizza la nostra percezione della realtà. Proviamo ad esaminarla da questo punto di vista. La metafora è costituita da due ‘fattori’ tra i quali si opera un trasferimento di significato; la sua forza sta nel consentire il passaggio di qualche connaturata proprietà di uno dei due fattori all’altro. Per spiegarmi con un esempio prendo uno dei tanti modi di dire come è la frase ‘quell’uomo è un toro’ oppure – più vicina ai nostri interessi
– ‘quella villa è un bunker’. Nessuno, guardando la villa in questione, vedrà spesse pareti di cemento armato, sottili finestre a feritoia, chiusure blindate, armamenti bellici; ma, osservandola con più attenzione, noterà che è proprio connotata da qualche attributo del bunker, come la possanza strutturale, la compattezza volumetrica, l’indifferenza al
luogo, la pesantezza dell’insieme (sulla pesantezza, tornerò in seguito). Con estrema sinteticità la metafora mette in luce i caratteri salienti di quella villa. Quando abbiamo compreso una metafora, la somiglianza tra i due fattori che la costituiscono ci appare evidente e, soprattutto, sembra sempre esistita; invece è stata proprio la metafora a creare
la nuova associazione e a permettere l’apprezzamento di caratteristiche prima inosservate: ecco il ruolo cognitivo della metafora, la capacità, come diceva Aristotele, di ‘far vedere’.
Tra i due fattori a confronto si è determinata una tensione, seppure sia evidente che sul piano letterale l’espressione metaforica è falsa; ne deduciamo che le proprietà su cui gioca la metafora non sono reali, ma culturali, come nota Umberto Eco. Altra osservazione: molti termini usati dalla critica d’arte per descrivere particolari attributi di un’opera sono metaforici e, quindi, falsi sul piano letterale; eppure la loro capacità suggestiva è ineguagliabile per forza e sinteticità. Penso, ad esempio, ad alcuni aggettivi che spesso qualificano l’architettura: aperta, chiusa, narrativa, assertiva, pesante, leggera, e così via.
Della pesantezza ho già accennato parlando della villa-bunker. Sul suo contrario, la ‘leggerezza’, mi voglio soffermare brevemente perché questo attributo segna e distingue in maniera determinante la ricerca moderna e contemporanea in architettura. ‘La nuova architettura, anziché monumentale, è leggera e trasparente, mutevole’ proclamava Teo van Doesburg già nel 1925. E Giedion nel 1929 scriveva: ‘Bella è una casa che poggi con leggerezza e possa adattarsi a tutte le condizioni del terreno’.

La (piramide rovesciata come) metafora della leggerezza

‘…abbiamo esperienza del peso delle cose…’, scrive Calvino. A noi appare leggero con immediatezza ciò che si libra nell’aria. Ciò che si protende verso il cielo acquista leggerezza, come ciò che nel cielo si muove veloce alla maniera dell’uccello o dell’aeroplano, pesantissimo quando arranca a terra. Ciò che sta in cielo appare leggero a chi è destinato a muoversi sul terreno, ad erigersi con fatica dal terreno, e sul terreno costruisce la sua dimora. La leggerezza non sembrerebbe dunque un attributo dell’architettura; eppure in architettura l’attributo della leggerezza è riconducibile a vari aspetti. L’aspetto più ovvio riguarda il rapporto con il peso, cioè con la forza di gravità. Corollario della gravità è l’equilibrio statico. L’idea che noi abbiamo in merito alla gravità deriva da svariate esperienze, anche molto diverse tra loro. Per quanto riguarda l’azione di erigere manufatti, l’esperienza più semplice consiste nel gioco infantile di far scorrere la sabbia tra le dita della mano per vedere come essa si dispone sul suolo, quale equilibrio raggiunge. Come tutti sappiamo, la sabbia cadendo forma un cono. Benché questa figura geometrica sia semplice, in natura la si incontra raramente. Anche in architettura, come in natura, il cono è poco presente; tra i rari progetti ispirati a questa forma sono memorabili i cenotafi di Boullée.
Simile al cono, ma molto più utilizzata in architettura è la piramide. Il cono non ha orientamento sul piano orizzontale, a differenza della piramide che su questo requisito gioca gran parte dei suoi valori simbolici, esoterici e ambientali. La piramide egizia polarizza lo spazio anisotropo del deserto, ne assorbe le sotterranee forze e le proietta verso una particolare regione del cielo. La piramide di pietra ‘a gradoni’ di Gioser a Saqqara, costruita dall’architetto Imhotep durante la III dinastia faraonica, è la più antica tra le tante; essa ha un minor grado di astrattezza della piramide semplice – cioè senza gradoni – e nel contempo suggerisce un maggior senso di pesantezza, di stratificazione, di crescita dal basso, di costruzione artificiale.Questo ci porta ad affermare che l’astrattezza, intesa come semplicità della configurazione, conferisce leggerezza. Per le sue caratteristiche geometriche e per alcune elementari conoscenze pratiche, percepiamo la piramide come il prodotto artificiale più equilibrato, quello che meglio simboleggia gli effetti della gravità, forza che regola minuziosamente la nostra vita sul pianeta; perciò il suo rovesciamento si configura come un gesto simbolico di grande rilevanza, un gesto di liberazione da un’ancestrale schiavitù. Il rovesciamento produce interessanti effetti di natura psicologica e percettiva: l’immagine di una piramide rovesciata, appoggiata al suolo per il vertice, contrasta con le nostre idee di peso ed equilibrio statico, crea uno stato di disagio. La piramide rovesciata è, insomma, una figura ansiogena. Può sembrare, questa, un’affermazione gratuita; viceversa ha un ben preciso fondamento, che argomento con un’analogia. Carl Jung considera lo spazio e il tempo come ‘concetti di natura psichica … sviluppati nel corso dell’evoluzione culturale in archetipi inconsci per la descrizione del mondo fisico’. Come dirà Konrad Lorenz, per il singolo individuo essi rappresentano degli ‘a-priori’ trascendentali. Orbene, anche il peso e l’equilibrio dei corpi sono a-priori trascendentali che assieme ad altre entità – tra le quali appunto lo spazio e il
tempo – radicano saldamente l’umanità al mondo fisico e ne consentono la comprensione.
Questo è il motivo per il quale ogni negazione del peso, ogni vistosa alterazione delle condizioni di equilibrio genera nell’osservatore quello stato di disagio psichico al quale facevo riferimento poc’anzi; disagio che egli supera dandosi una qualche spiegazione. Per la piramide rovesciata la prima e più naturale spiegazione è la perdita del peso, cioè una acquisita leggerezza. Così la piramide rovesciata diventa il simbolo stesso della leggerezza, del riscatto dalla gravità. Nella piramide la metafora si è incarnata. Non altrettanto accadrebbe con il cubo o la sfera.
La gravità induce continue coercizioni al nostro desiderio di libertà dai vincoli fisici; eludere la gravità è dunque un’ambizione. Essa accomuna molte architetture che la realizzano in svariate maniere, la più elementare delle quali consiste proprio nel rovesciare la piramide o, più realisticamente, consiste in ogni azione concreta che si apparenti,
seppur metaforicamente, a tale rovesciamento, come accade quando s’inverte la distribuzione delle masse ed esse sembrano rarefarsi procedendo dall’alto verso il basso. Il Palazzo Ducale di Venezia o la villa Savoye a Poissy sono esempi noti di questo fenomeno: è proprio la progressiva sottrazione di massa verso il basso a determinare il senso di leggerezza e levitazione che tali edifici suggeriscono.

La metafora e la città

Per onorare il tema del Seminario, concludo questa divagazione sulla metafora discutendo alcuni esempi storici di metafore riferite alla città, ad iniziare dalla albertiana metafora della città-corpo. In questa metafora di ispirazione biologica il riferimento alla circolazione nei vasi sanguigni, al cuore pulsante, ai polmoni ossigenanti, ai diversi tessuti e alle loro funzioni diverse, al sistema nervoso che regola il comportamento dell’insieme e così via, è evidente ed ha una
forza immaginativa che ha scavalcato mezzo millennio e tuttora è vitale, seppure l’iniziale organicità sia ormai affetta da esiziali patologie, come collassi, alterazioni genetiche, tumori. Insomma: passano i secoli e non riusciamo a liberarci della città-corpo benché il cuore sia aggredito, le arterie congeste, i verdi polmoni asfittici. L’uomo comune legge ancora la città sulla base della sua fisiologia. Dall&
#8217;esempio si deduce come una metafora abbia fortuna in forza del sistema di luoghi comuni appartenenti ad una collettività; ciò significa che per funzionare la metafora deve incorporare un insieme di informazioni condivise, una competenza sedimentata, retroattiva. Ancor più suggestiva e dirompente è stata la metafora della città-foresta di Laugier. A chi conosce un poco di storia urbana, essa fa capire come, per il tramite di un effetto filtro, la metafora sopprima alcuni particolari e ne accentui altri che vengono evidenziati, scoperti. Nel caso della città-foresta, l’intrico dei corpi, la molteplicità delle loro nature, l’odore acre del sottobosco, la penombra, la resistenza all’avanzamento; d’onde la necessità di aprire varchi, accelerare gli spostamenti, illuminare le parti, dare ordine, fare pulizia, come si deve fare in una città degradata e superata dai tempi. Gli studiosi di scienze cognitive affermano che nella evoluzione scientifica il processo di tipo metaforico interviene nei momenti di crisi dei paradigmi accettati. È probabile che si possa dire qualcosa del genere anche per quanto riguarda l’architettura: la metafora della città- foresta, infatti, nasce quando la situazione di Parigi diventa invivibile, quando la città d’ ancien regime collassa di fronte agli effetti della prima industrializzazione e si impongono drastiche misure di razionalizzazione. Parigi è un’immensa foresta da incidere e tagliare per ridurla al modello che ispira Laugier: il grande e ordinato giardino suburbano dei paesaggisti suoi contemporanei, Le Von, Le Brun, Le Notre; una dimensione che cattura l’orizzonte e sarà propria della città moderna. La metafora di Laugier è sopravvissuta per oltre due secoli tant’è che la troviamo ancora dietro le idee di Hausmann a Parigi e di Mussolini a Roma. Altre due metafore sono memorabili perché hanno accompagnato e sostenuto l’avvento del Moderno. Mi riferisco alla metafora della città- giardino e a quella della città-macchina, tanto studiate e note da non richiedere commenti. Orbene, dopo la metafora biologica della città-corpo, quella naturalistica della città-foresta, quella paesaggistica della città-giardino, quella funzionalista della città-macchina, nessun’altra sembra essersi consolidata. ‘… l’importanza della metafora è che sia sentita…come metafora …’, scrive Borges: di un siffatto comune sentire oggi non c’è traccia. A questo proposito riprendo alcune considerazioni già accennate nei precedenti Seminari di Camerino.

La metafora urbana oggi

Le varie linee di ricerca sulla città complessa, diffusa, multietnica, del terziario, del conflitto, dello scarto, dei non-luoghi, ecc. che ben conosciamo, si muovono nell’ambito di aggettivazioni che non possiedono né l’identità, né la sinteticità allusiva, né la carica dirompente, suggestiva e propulsiva della metafora. Non possiedono, soprattutto, i caratteri cognitivi che prima ho descritto. Per lo meno, riferibili al progetto, al fare architettura. Non sarà forse l’origine extradisciplinare di quelle aggettivazioni a renderle poco praticabili? Un fatto è certo: le metafore costruite sul corpo,
la foresta, il giardino, la macchina nascono dal pensiero di grandi architetti o teorici dell’architettura e dell’urbanistica, non certo da letterati, sociologi, economisti, politici, le cui riflessioni, mi sembra di poter dire, danno carne all’architettura in forma sempre molto indiretta e dilazionata, solo attraverso nostre faticose rielaborazioni disciplinari. Insomma, l’universo della ‘metafora’ urbana in questo momento sembra vuoto. Forse si tratta di aspettare chi sarà in grado di proporre nuove grandi sintesi. Nel frattempo conviene assumere un approccio pragmatico e rifuggire dai millenarismi o dai pittoreschi impressionismi che, di tanto in tanto, tornano di moda quando si tenta di tratteggiare nuovi paesaggi urbani.

Unicam - Sito ufficiale
www.archeoclubitalia.it
Archeoclub d’Italia
movimento di opinione pubblica
al servizio dei beni culturali e ambientali

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