Nel comignolo il segnale della casa

Un camino esce prepotente dal tetto, sale diritto a confrontarsi col cielo, fuma profumando d’alloro l’intorno.E’ un’immagine di casa e di territorio vissuto. Nel disegno d’architettura esso ha assunto la gerarchia della composizione, vuole spiegare alla gente il piacere di stare davanti alla fiamma, la sua dimensione è tale da farti immaginare un interno spazioso.

Carpaccio nei suoi teleri racconta una città fatta di tanti torrini a campana rovesciata. L’immagine del paesaggio urbano ha subito una profonda trasformazione, il gasolio ha ridotto all’anonimato i tetti delle nostre città. Il paesaggio fra la massa del costruito e lo spazio del cielo non fa più parte del nostro pensiero. I fumi salgono da canne omologate a forma di cappa di finta nebbia dall’odore pure omologato, la città o le città si sono unite in un unico pasticcio urbano ininterrotto da Torino a Venezia, la cintura di “case chiuse” della vacanza ha separato il mare dall’entroterra. Di notte la colonna di luci in movimento si confonde con le luci immobili del costruito, solo gli spazi scuri indicano luoghi dimenticati dove forse è ancora possibile ritrovare il senso del tempo e la civiltà da cui trarne il moderno. Mi affido al ricordo per ritrovare il piacere della differenza. I nuclei rurali anneriti dal fumo sapevano di tannino e di castagno, il fuoco era acceso al centro del locale abitato; salendo nella Valle del Liri arrivavi a S. Salvatore. Una locanda, in cui si diceva venisse servito prosciutto d’orso, aveva un torrino decorato da fori con la forma dei semi di un mazzo di carte. Il fumo che usciva nella prima mattina scendeva verso il basso col profumo intenso di larice e pino, poco distante un gufo in lamiere di ferro girava seguendo il vento per orientare il tiraggio della stufa.

Salivi verso il passo Publino per affacciarti alla pianura, la parte soliva delle Orobie aveva abitazioni in pietra col tetto di lamiera arrugginita dal colore delle rocce ferrose, torrini coperti da una pioda e da un sasso formavano un paesaggio di tetti reso vivo dalla loro presenza: il fumo azzurro di legna secca denunciava l’abitare di uomini dalla parlata incomprensibile. Sette ore di cammino racchiudevano sensazioni infinite. L’odore del fumo delle essenze bruciate ti diceva la quota raggiunta, nella nebbia serviva per orientare il cammino. Nell’immenso disordine del costruito di oggi non trovi nulla capace di fissarsi nella memoria, ognuno vive in un “pancotto” fatto di noia a cui cerca di opporsi consumando l’inutile. Nella stagione secca in Valtellina si sente l’odore acre del fumo dei boschi bruciati, le ramaglie raccolte in fascine per i forni del pane sono divenute esche di incendi: i prati abbandonati non servono per alimentare vacche ma fuoco. Nel “pancotto” della modernità nessuno osserva un gufo di ferro nero sullo sfondo arancione della valle che resta nell’ombra per tre mesi in un anno. Mi piace credere ad un presente diverso in cui vi sia spazio per la vita lussuosa fatta di niente. Il lusso che intendo è la capacità di apprezzare i simboli a cui sai dare significato. Un camino esce prepotente dal tetto, sale diritto a confrontarsi col cielo, fuma profumando d’alloro l’intorno.

E’ un’immagine di casa e di territorio vissuto. Nel disegno d’architettura esso ha assunto la gerarchia della composizione, vuole spiegare alla gente il piacere di stare davanti alla fiamma, la sua dimensione è tale da farti immaginare un interno spazioso. il “pancotto” della modernità ha trasformato il fuoco in decorazione. Mi riempiono di tristezza i comignoli del nostro presente, insignificanti rispetto alla massa in cui abbiamo sistemato mobili e gente. Parallelepipedi intonacati e suddivisi in “celle residenziali” non danno spazio alla vita ma sono depositi di umanità simili ad un carcere. Un comignolo può assumere l’importanza di un monumento messo lì a ricordare che ancora esiste un modo diverso di vivere la vita. All’architetto dobbiamo chiedere di riappropriarsi del mestiere, al forma deve caricarsi di significati, un focolare nella casa deve diventare una presenza esterna capace di raccontarsi. Sul tetto dobbiamo chiedere di riappropriarsi del mestiere, al forma deve caricarsi di significati, un focolare nella casa deve diventare una presenza esterna capace di raccontarsi. Sul tetto dell’unità d’abitazione di Marsiglia la forma scultorea del camino è un credo nell’architettura come arte, a Barcellona mi emozionano le forme dei torrini di Gaudì; nella valle alpina un gufo di ferro ha lo stesso fascino perché è parte del pensiero che desidera la notte illuminata: l’ uccello durante il giorno è il simbolo che ti fa assaporare il fuoco serale. La città come luogo di cultura è finita da tempo, produce forme che esprimono un manierismo senza sostanza.

Giuseppe Galimberti, architetto, nato nel 1936 a Sondrio; geometra, si è poi diplomato a Brera e laureato in architettura. Dal 1966 svolge come libero professionista, attività di progettazione; ha insegnato nelle scuole medie inferiori e superiori; ha svolto attività di cultore della materia dal 1982 al 1999 presso il Politecnico di Milano.

Dalla grande tenaglia della fonderia di Sesto S. Giovanni non esce più fumo, le stanno togliendo il vestito mettendo a nudo la sua struttura d’acciaio, poco lontano, dalla Bicocca, tetti coperti da condizionatori mostrano un mondo privo di fiumi, un mondo di uomini da tenere a temperatura costante. La gioventù teme di non essere “moderna” se non segue il carozzone dell’uniformità, ancora non sa rendersi conto che il nuovo va ricercato nel positivo della storia. Attività che sa interpretare il moderno senza rinunciare alla tradizione è l’agricoltura: solo le forme del coltivato hanno il sapore del logico, non le abitazioni. La campagna ha subito e subisce la colonizzazione della città senza cultura, le zone scure della notte moderna, bianche dell’urbanistica, sono gli spazi in cui l’architettura senza edilizia può impostare la modernità. I camini che bruciano legna sono neutro nel bilancio dell’inquinamento;questo dovrebbe invitare a dar forma coerente alla loro funzione. Anche i torrini nel tetto spiegano la civiltà di oggi, ci raccontano l’insicurezza
di chi, volendo certezza, ha toccato la incertezza assoluta. La non cultura della città si tocca ogni giorno. Lì si è rinunciato ad un rapporto costruito/ lusso. Il nominatore è cresciuto a dismisura e il denominatore è diventato piccino. Considero il “fare” visibile base della cultura.

Ogni idea si manifesta con le forme che la interpretano, se l’idea è condizionata da chi non capisce, la forma diviene rappresentazione dell’inutilità. La città esporta al suo esterno questa visione burocratizzata della vita, si uccide senza rimorso il lavoro creativo, si impone in ogni luogo la stessa minestra. I rustici neri che sapevano di tannino sono oggi seconde case truccate con cotiche di legno, barbecue di piastrelle decorano i giardinetti col nanetto di gesso, gli spazi interni sono contenitori di tristezza a cui la città non sa più rinunciare, non un vero torrino esce da questi rustici diventati finzione. Pochi credono ancora nel mestiere dell’architetto, a cui devono assegnare il compito di scardinare la noia, parte integrante del nostro presente. Mentre scrivo queste note ho il pensiero sulla burocrazia incapace di leggere in un mio progetto, la volontà di costruire nella campagna una casa per l’agricoltura in grado di dare risposta alla convinzione, condivisa dal mio committente, che solo un lavoro attento all’intorno e alle sue possibilità di divenire giardino può cambiare la storia di un piano regolatore senza significato. L’oggetto del contendente è proprio un focolare il cui torrino supera la “sagoma” limite. Sono convinto di risolvere il “grande problema” ma il tempo perso per niente mi pesa, la vita non è poi così lunga.
(Giuseppe Galimberti)

PER SAPERNE DI PIÚ… È IN LIBRERIA
Camini di Venezia
Gjlla Giani
DI BAIO EDITORE

“Quando, arrivando a Venezia dal mare, vedremo fumare i camini di Carpaccio potremo sperare nel nuovo. Grandi boschi curati nell’entroterra serviranno a dare la legna, i profumi di salmastro e di quercia combusta ridaranno alla città il suo ruolo. I fiumi che si muovono nel loro spazio diranno l’inutilità dei condizionatori usati senza criterio, spiegheranno alla città senza cultura la bellezza del mondo possibile a cui essa non ha saputo dare futuro".

Il fumaiolo
Una precisa disposizione di legge (la cosiddetta “antismog” attuata col D.P.R. 1391 del 22/12/1970) stabilisce che ogni canna fumaria deve terminare con un comignolo di sezione non inferiore al doppio di essa, conformato in modo da non ostacolare il tiraggio e da favorire la dispersione dei fumi, e che la bocca deve risultare più alta di almeno un metro del colmo del tetto, di eventuali parapetti e di ogni altro ostacolo o struttura distante fino a 10 metri; inoltre la norma UNI 7129/92 prevede che la sommità della canna fumaria, a prescindere dal comignolo, deve trovarsi al di fuori della zona di reflusso, per evitare pericolosi fenomeni di contropressione (cioè pressione negativa che attirerebbe a sé i fumi) che ostacolerebbero il naturale deflusso dei prodotti della combustione. La zona di reflusso varia a seconda della pendenza del tetto, come si può ben vedere dai sottostanti disegni (tratti da una pubblicazione di Ala), dato che le falde più o meno accentuate e la posizione stessa della canna possono creare diversi flussi negativi: su un tetto con pendenza di 15°, ad esempio, tipico della pianura padana, la zona di reflusso ha uno spessore di 50 cm, su uno a 45°, usuale in montagna, arriva a 150 cm, ben il triplo del precedente. (Roberto Summer)

 

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