Mutamenti di Cosmologie

Credo che, per parlare oggi di natura e architettura, di costruzione e di ecologia, si debba partire dall’analisi di quel mutamento di cosmologie che è carattere fondativo della modernità.
Ci faranno da guida nel percorso alcuni autori, che su questo tema hanno svolto parte significativa della loro ricerca, da Goethe a Morris, a Loos, a Caillois, a Eisenman.
La svolta nella concezione della natura ha un luogo, un momento e un’immagine: il quadro di Tishbein che ritrae Goethe nella campagna romana, a giacere sul suolo classico, come Anteo sulla madre terra.
Parlando del suo ritrattista, Goethe scrive: ‘è un artista che sa dare forma anche alle cose più informi, come le pietre, e la natura’.
Con un capovolgimento epocale, per la prima volta, la natura non è il luogo del manifestarsi della razionalità universale, il modello, ma qualcosa che non ha forma se l’uomo non gliela impone.
Qualche anno dopo, a pochi passi da Camerino, il poeta parlerà della Natura Matrigna: in pochi anni, il senso della natura si capovolge totalmente. Ce lo mostrano le immagini di due testi essenziali della storia dell’architettura, quello di Ledoux (L’architecture considérée sous le rapport de l’art, des moeurs et de la législation) e quello di Viollet-le Duc (Histoire de l’Habitation Humaine). L’albero, l’abri du pauvre, è in tutte e due il primo rifugio dell’uomo, l’origine dell’architettura.
Ma nel primo caso è solare, benevolmente guardato dal cielo dagli dei; nel secondo è cupo elemento della foresta, precario nascondiglio della solitudine, lontano da qualunque cielo.
Ma esaminiamo due definizioni di architettura, quella di Morris e quella di Loos, così antitetiche da comprendere al loro interno ogni definizione possibile (con qualche chance quindi di contenere la verità), anche se molto lontane dal far riferimento ciascuna a un significa to inequivocabile, come in genere la critica preferisce ritenere.
Morris ci dice che ‘l’architettura abbraccia la considerazione di tutto l’ambiente fisico che circonda la vita umana…. è l’insieme delle modifiche e alterazioni introdotte sulla superficie terrestre in vista delle necessità umane, eccetto il puro deserto’.
Per Loos, ‘se in un bosco troviamo un tumulo, lungo sei piedi e largo tre, disposto con la pala a forma di piramide, ci facciamo seri e qualcosa dice dentro di noi: qui è sepolto qualcuno. Questa è Architettura’.
Partiamo da Morris. La sua definizione, che è generalmente considerata all’origine della modernità ‘sociale’ ha anche origini molto antiche.
È infatti una diretta permanenza della concezione precristiana del mondo, che ha traversato con poche variazioni il medioevo, in cui si riteneva, con qualcosa che sarebbe riduttivo interpretare come una forma sacrale di coscienza ecologica, che ogni azione dell’uomo alterasse inevitabilmente lo stato naturale di armonia del mondo, ed esigesse quindi un risarcimento, un prezzo, per il ripristino dell’armonia.
Con una qualche coscienza tuttavia, dal principio, che, se l’architettura ha come compito di stabilire o ricostruire armonie, queste armonie sono labili, deperibili; appena dispiegate, aprono la via, scoprono, un nuovo contrasto. Come per il Sisifo di Camus, la pietra rimane solo un istante in equilibrio, per subito ricadere. Ma, come scrive Camus ‘bisogna immaginare Sisifo felice’.Poi, che il mondo antico ritenesse che la natura fosse lo scrigno della conoscenza, il segno di Dio (‘poiché solo attraverso l’ordine e la bellezza dell’universo la divinità può darsi all’intelletto’) e la modernità di Morris lo ritenesse invece il luogo in cui dispiegare il dominio delle verità dell’uomo, sono per molti aspetti due facce di un modo analogo di agire.
Ma ciò che va sottolineato a questo punto, legato indissolubilmente al problema della perdita dell’armonia, è qualcosa di inquietante, è che all’origine, al fondamento dell’architettura c’è il delitto. Il costruttore della città, nella Bibbia, è Caino, che uccide il fratello Abele, il nomade.
E suo figlio, Tubalkain, forgerà la lama dell’aratro che feconderà la terra e la misurerà per segnare il luogo della città.
Anche nei miti di fondazione greci ci sono delitto e sacrificio, e, per fondare la città per eccellenza, occorre che sia commesso un fratricidio.
In questi rituali, come si è detto, l’aratro è insieme strumento di violenza, di fecondità e di misura della città e dei campi.
E il mondo è il luogo che, misurato, dà alle cose senso e ordine, il luogo del sacro, la manifestazione del divino. Come dirà all’inizio della nostra era Calcidio: questo mondo, ricevendo animali mortali ed immortali ed essendone pieno, è così divenuto un animale visibile, che accoglie in sé tutte le cose visibili, ed è immagine dell’intelligibile, dio sensibile, massimo ottimo e bellissimo, e perfettissimo questo cielo uno e unigenito. Il mondo è quindi, sino all’alba della modernità, il luogo dell’armonia panica, che è nostro compito conoscere, misurare, dove trovare le regole per dare radici al nostro esistere. Dove tuttavia, come racconta anche Mann nel suo ‘Giuseppe e i suoi fratelli’, per dare stabilità e durata alla casa, occorre un sacrificio per contenere la ferocia. Ma torniamo all’immagine di Ledoux. Essendo l’architettura modellata sul mondo, vediamo qui comparire due elementi che ne definiscono lo statuto: l’albero e la volta celeste.
Ancora adesso, nella tradizione africana, non è possibile costruire la casa fuori dall’ombra di un albero. Anche a Roma l’albero ha un ruolo fondativo, il re fa giustizia sotto la quercia della ninfa Egeria, che lo protegge e lo consiglia. A dare eternità alla durata dell’albero, si stendono in tutta Europa, dalla Bretagna alla Puglia, distese di alberi di pietra. Parleremo quindi di questo momento dell’architettura a partire da due modelli archetipi, la volta celeste e l’albero.
Un esempio perfetto ai nostri fini lo troviamo nella cosmologia nordica: il frassino Yggdrasill è l’axis mundi del cosmo norreno, unisce le viscere della terra al sommo del cielo, è popolato di animali divini, alla sua base sgorga la fonte Ur?arbrunnr, dotata di acque miracolose (non per caso, anche Morris racconterà la fiaba della ricerca della fonte miracolosa). L’albero, arriverà a noi anche in un’altra fiaba della tradizione anglosassone, quella del Fagiolo Magico, che introdurrà i suoi elementi di inquietudine e i suoi richiami sessuali anche nel mondo di Disney. Ma l’albero è anche la scala verso il Cielo che ascende Giacobbe dopo il combattimento con l’Angelo, e il modello orgoglioso dell’empia Torre di Babele.La volta del cielo, si fa microcosmo, imago mundi, nella pietra della cupola. Da quella del Pantheon, forata dall’oculo che fa irrompere il tempo del mondo nella fissità del modello, alle piccole cupole di Ravenna coperte di stelle, sino alle cupole forate degli hammam, dove – protetta dal cielo di pietra – si celebra la rinascita attraverso l’acqua.
L’oculo del Pantheon è anche, però, il foro nella volta celeste che permette all’alchimista di sporgersi dalla sfera del firmamento per affacciarsi sul fuoco.
Col rinascimento, la grande cupola la costruisce Brunelleschi a Firenze, ampia a coprire tutti i popoli toscani, che si popola dei santi della cristianità.
La cupola della modernità invece non rappresenta il cielo. È la volta di vetro del Crystal Palace, che raccoglie al suo interno tutti i popoli del mondo, e che, nella foto che Zola scatta dopo lo spostamento a Sydenham, nuova immagine del cambiamento, dopo il ritratto di Goethe, si costituisce a riparo della città e dei suoi abitanti. Questa primigenia vocazione sociale della modernità è tuttavia messa in crisi sin dall’inizio nello stato di inadeguatezza, che la accompagnerà sempre, dai terribili disegni di Gustave Dorè che mostrano il primo popolo della città
industriale, il Popolo dell’Abisso cantato da Jack London.
La volta di Paxton contiene al suo interno il mondo della modernità, che non si invera più sotto le stelle, ma si costruisce un suo cielo meccanico, sorretto da centine di ferro. Per conoscere la razza dell’uomo che lo realizza, guardiamo la foto di Brunel conservata nella National Gallery. È la perfetta rappresentazione dell’Ingegnere dell’800. Il suo mondo è asettico, senza atmosfera, tutto compreso, risolto, nelle catene davanti a cui si mette in posa. La natura ne è bandita.
Solo, sui calzoni e gli stivali, vediamo qualche umida traccia di fango, a palesare la crisi che corrode il mondo di questo Faust, come il peccato originale del Faust manniano (da Goethe, autore di due Faust, eravamo partiti).
Dobbiamo fare qualche osservazione sulla modernità goethiana, per parlare della nostra. Per Goethe, si è moderni tornando alle verità originarie, liberandole dalle incrostazioni e dalle falsificazioni. Infatti, tornando ai temi dei miti di fondazione, Goethe scrisse la tragedia ‘Ifigenia in Aulide’. Ma dice che riuscì a completarla solo a Roma, dove, come ci spiega, dal fuoco del sacrificio il fumo sale in cielo diritto, mentre al nord, venti di inquietudine irrazionale confondono nell’aria il fumo della pira, nascondendo il mondo alla vista. Si tratta, credo, di una delle più belle definizioni della classicità, per molti versi, ancora attualissima.
Come le altre citazioni, viene dal suo diario di viaggio in Italia, in cui però, Goethe ci fa comprendere come la sua umanità e la sua modernità siano più complesse, capaci di comprendere le contraddizioni e le inadeguatezze. Nella descrizione che ci fa del suo viaggio, ci informa minuziosamente delle rocce, delle piante, della geologia, ci palesa la volontà di conoscenza e di chiarezza che sarà di tutto quel secolo.
Ma, spingendosi oltre i confini del grand tour, fino a Palermo, la prima cosa che vi farà sarà cercare notizie di Giuseppe Balsamo, dell’alchimista Cagliostro. Per non farci dimenticare che, comunque, è necessario cercare di sporgere la testa oltre, comunque si deve cercare di vedere il fuoco.Abbiamo visto mutare il senso del mondo nei cinquant’anni intercorsi da Ledoux a Viollet. Il compimento del mutamento di cosmologie che ci riguarda si attua nel mezzo secolo che intercorre fra la foto di Zola e l’Albero Rosso di Mondrian.
Mondrian, all’inizio pittore della realtà, trova con l’Albero Rosso una realtà altra, comprende l’albero come albero meccanico, trasforma la mimesi della natura, come scrive Jaffè, in mimesi dell’universo tecnologico, quella che i futuristi chiamarono la Ricostruzione Futurista dell’Universo. Gli ultimi quadri di Mondrian sono come mappe di città, in cui si muove la folla silenziosa e determinata delle fabbriche, quella di cui ci farà una descrizione di un entusiasmo tragico Edoardo Persico; la folla di Metropolis, la città del futuro che ne è stata presto superata, come diceva Wittgenstein, ma di cui qualche traccia è rimasta.
Blanchot, scrivendo del saggio di Caillois ‘I giochi e gli uomini’ riflette sul rispecchiamento evidente e impossibile tra lo spazio del gioco e quello del lavoro: per il loro valere solo per il tempo che durano, per il loro seguire regole assolute e formalizzate, per l’ineludibile coazione a ripetere. Chi riteneva possibile, chi sognava lucidamente un mondo amoroso in cui il lavoro e il gioco fossero parte della stessa felicità era Fourier. E forse non è casuale che i templi dismessi della religione della fabbrica siano divenuti i teatri del rave, che il gioco della festa sopravviva a quello del lavoro, quasi in una vittoria postuma dell’Utopia.
Del resto, capovolgimenti come questo sono avvenuti spesso.
Uno dei cantori del mondo meccanico, Buckminster Fuller, costruttore di cupole geodetiche e sognatore lucido della cupola che copre la città, ha visto le sue cupole divenire da un lato gli shelter degli hippies, dall’altro l’astronave aliena che copre e distrugge Manhattan in Indipendence Day. E dopo la distruzione, dal cielo non potrà che scendere sul mondo desertificato la mano del dio che Philip Guston dipinge mentre spegne l’ultima sigaretta.
Nel frattempo, la grande narrazione della cupola si è trasformata nel racconto inquietante del piccolo oggetto attaccato al tetto. Dalla volontà di proteggere la città, all’egoismo ingordo del succhiarle la vita.
Dall’aspirazione all’armonia, all’esaltazione della perturbazione dell’originalità, della coazione al fare diverso. Su questa bulimia di diversità che caratterizza il presente, da molto tempo ci ha detto Caillois: ‘Se l’originalità non consiste che nel comporre un’opera che non rassomigli a nessun’altra, non c’è dubbio che la si possa ottenere a buon mercato e senza alcuna creatività, nient’altro che per effetto di qualche volgare artificio del tutto meccanico, che basta adoperare alla cieca. Ma che conquista illusoria e fragile!
Quest’opera ieri sorprendente e nuova, il giorno dopo non la si distingue più da quelle che si sono subito fatte seguendo la stessa ricetta; e la novità è superata. Certo, era moderna, d’avanguardia, come dite. Ma questo non dura, è chiaro. Non speculate sul tempo. Perderete a colpo sicuro. Vi desiderate in anticipo sulla vostra epoca. È come desiderarsi in ritardo su quella che viene. Ci avete pensato? Evitate la pretesa del continuo superamento. Vi mettete nella condizione di essere superati a vostra volta e fornirete le verghe per battervi.
Temete piuttosto che un’opera così facilmente ottenuta e con una mira così grossolana, non abbia difesa dalle contraffazioni. Abbandonate un progetto miserabile e sforzatevi di scoprire un’originalità inaccessibile, che la distanza isola ed eleva, come accade per le grandi vette, all’opposto delle piccole, che prima paiono grandi e poi si abbassano e sono confuse.Non è cercando l’originalità che si soddisfa una tale ambizione; ma è preferendole la perfezione, cercando di fare non diversamente, ma meglio’.
Far meglio, invece, è ormai un’aspirazione minoritaria, l’originalità vuota sembra vincente quasi senza rivali. Il contorcersi del grattacielo è solo la manifestazione più evidente di una malattia dell’anima che si infastidisce ad accettarne la semplice stereometria originaria. E dopo l’astronave aliena su Manhattan, vediamo come, da un villaggio vicino a Calcutta delle donne cantastorie disegnino i loro grattacieli foggiati all’orientale colpiti e distrutti dall’aereo-BinLaden, realizzando la visione di Corbu per cui Manhattan era ‘una catastrofe al rallentatore’.
Del resto, grattacieli contorti inutilmente in una sgraziata ginnastica, le coperture stropicciate, le pareti insofferenti della gravità, hanno precedenti nel futurismo. Finsterlin e Virgilio Marchi sono in qualche modo i genitori incolpevoli di Gehry o Eisenman. Ma, dopo aver parlato di fabbrica e di gioco, è bene che consideriamo che queste forme architettoniche erano per Finsterlin anche giocattoli.
Non novità per il tè delle archistar, ma sogni per la Slumberland di Little Nemo. A noi tocca invece cercare un orientamento in questo catalogo concitato (dice Virilio ‘chi non sa dove andare, va in alto’).
Da cui, come ci fa vedere Peter Gilliam in quel bellissimo film sulle nevrosi della modernità che è Brazil, aprendo uno dei casier dell’unità d’abitazione, l’Angelo che abbiamo incontrato all’inizio, a combattere con Giacobbe per dargli la conoscenza, si allontana in volo per lasciarci soli con la nostra presunzione.
Proprio per cercare di capire il momento attuale, può essere illuminante ascoltare un dialogo fra architetti, Christopher Alexander e Peter Eisenman, invitati dagli studenti di una università a confrontare le loro idee. Eisenman, fra
l’altro, in questa conversazione parla esplicitamente di cambiamenti di cosmologie. Ci spiega che l’attuale angosciosa instabilità deriva dalla perdita del centro (che la cosa fosse stata rilevata quasi un secolo fa da Sedlmayr è notizia con cui, come spesso accade ai supereroi della nostra modernità boriosa e tricheuse, ritiene meglio non gravare il suo ragionamento e la nostra attenzione), e ci insegna che compito dell’architettura è mettere in scena l’angoscia di questa perdita. Che l’architettura, nella sua riflessione sull’abitare, non possa fare direttamente ciò che è compito di altre arti, e che debba comunque accostarsi al dolore del mondo dispiegando la fatica della metafora, è pensiero che non lo tocca. Piuttosto, forse la rinnovata coscienza della perdita del centro ci permette di capire che molti degli esercizi acrobatici delle archistar sono la pietrificazione della loro ambizione di costruirsi un piccolo centro personale in cui intrattenere i clienti.
Per questo, conviene qui riportare come ad Eisenman risponde Alexander: ‘Ma non credi che al giorno d’oggi sia diffusa una più che sufficiente dose di ansia? Credi veramente che sia nostro compito confezionare più ansie sotto la forma di architetture?’.
Io credo di no. Anche se non penso che il nostro mondo possa tornare ad essere come le mura di Marrakesh, fra la terra rossa e i monti bianchi di neve, a contenere la vita sotto il verde cupo delle palme.
Ma, dopo più di mezzo secolo, ci può ancora aiutare a capire quello che Roger Caillois ci racconta di Babele: ‘Niente di programmato nell’edificio della passione, niente di coordinato nel tempio della rivolta.
Tutto doveva corrispondere, anche il metodo di costruzione, all’ispirazione che l’aveva voluta.
Tutti abbandonarono così i progetti, arnesi come squadre o fili a piombo, e si diedero da fare disordinatamente, ammassando materiali informi, e nulla facevano i costruttori per renderli solidi e armonizzarli alle leggi implacabili della gravità: era l’opera di un capriccio.
La costruzione della torre venne sospesa. A poco a poco, il monumento all’orgoglio, che era divenuto il monumento alla confusione, (si cominciava a credere che questo fosse il significato del nome Babele), cadde in rovina …Non fu l’effetto di un intervento soprannaturale che, creando all’improvviso la diversità tra le lingue dei costruttori, impedì a ciascuno di loro di capire ciò che gli diceva il suo vicino. È una superstiziosa leggenda che vorrebbe farcelo credere.
Essa si fonda sicuramente sul fatto che gli operai giunsero, tra tutti gli altri eccessi, a non voler più adoperare le parole nella loro tradizionale ed usuale accezione, e diedero a ciascuna un significato secondo l’umore del momento. Fedeli ai loro princìpi, non potevano sopportare che il significato delle parole fosse loro imposto: in questo, come in tutti gli altri campi, pretendevano di avere libertà totale d’azione e di scelta. Così, si abituarono a intavolare discussioni su argomenti oscuri ed incoerenti, in cui si compiacevano di escludere tutto ciò che apparisse intelligibile. Al punto di disordine in cui si trovavano non era più molto importante che si capissero.
Del resto continuavano a fingere di capirsi e in ogni occasione non mancavano di applaudirsi, sia per incoraggiarsi l’un l’altro nel sostenere la parte, sia per diffondere l’idea di una loro lingua sublime, incomprensibile ai profani.
Come si vede, la confusione delle lingue non fu la causa, ma la conseguenza della loro condotta sregolata. Era fatale che, rifiutata ogni forma di disciplina e ogni convenzione, dovessero prima o poi trattare la conversazione orale come tutto il resto. Non era che una delle innumerevoli aberrazioni a cui li avevano condotti i princìpi adottati all’inizio.
Questi e questi soli provocarono la distruzione della torre, che perì delle conseguenze di quei sentimenti medesimi che l’avevano fatta innalzare, preferendola ad ogni altra opera umana dai progetti ragionevoli, dagli scopi precisi e dalle dimensioni razionali.
Sopravvissero comunque i primi piani: quelli costruiti in un’epoca in cui le regole dell’arte architettonica non erano state ancora abbandonate.
Ai nostri giorni, sulla terrazza a metà diroccata con cui ha termine la costruzione, si può distinguere la sagoma di un gruppo d’operai gesticolanti. Tentano di mettere in piedi nuovi muri, pezzi di materiale privi di forma e di scopo che subito crollano inesorabilmente. Ciò non sembra scoraggiarli, sostenuti come sono dall’alta considerazione che nutrono di se stessi e dall’ingenua ammirazione delle masse che, scorgendoli da lontano darsi da fare sull’enorme pedana e sentendo vagamente le loro grida discordi, li immaginano impegnati in un’impresa misteriosa la cui importanza sfugge alle anime semplici. Rimangono stupefatti da questa agitazione sconcertante; cercano senza trovarla la ragione di quell’accanirsi inutile; ne suppongono una, straordinaria, stupefacente. Ben presto però si stupiscono di continuare a non capire quelli che, se così non fosse, non sarebbero niente.
Altri assicurano che la tentazione di imitarli o di unirsi ad essi è per l’uomo un continuo pericolo’.
Su questa conclusione, una postilla. Nel febbraio scorso c’è stato il terribile terremoto del Cile. Il giornalista leggeva le notizie con lo sfondo di una strada terribile di case colorate, deformate, piegate, distorte dal terremoto. Sembrava tragicamente una mostra di architettura à la mode.
Se è vero che la vita imita l’arte, forse occorre maggiore prudenza nella fornitura dei modelli.

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