Musica per la gioia del rito

MUSICA PER LA GIOIA DEL RITO

Non c’è estraneità tra teologia e musica, piuttosto disattenzione di quella verso questa, come verso il campo del simbolico. La parola nella liturgia si struttura come esperienza di dialogo: la musica, nel confluirvi, può favorire l’unanimità, conferire maggiorgusto alla preghiera e rendere più solenni i riti. L’opinione del liturgista, Prof.Alceste Catella.

L’assenza di un pensiero teologico circa canto e musica non sarebbe da ascriversi prima di tutto all’estraneità reciproca dei due mondi (canto/musica e teologia) e delle rispettive competenze. Più a fondo quest’estraneità andrebbe riconosciuta come l’esito macroscopico di un più generale difetto di attenzione ai valori della ritualità. E ad una globale
disattenzione per l’esercizio del simbolico. Abbiamo fatto nostra questa lucida analisi di Pierangelo Sequeri che – per altro – prosegue la sua disamina collocandosi in pieno sul campo della pastorale. (…) Sarebbe necessario porre una buona volta la questione di una riabilitazione del rito medesimo: ovvero di un regime di esercizio capace di restituirlo al
profilo forte della sua funzione simbolica. Sono sempre più convinto che un’attenta rilettura della costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, come un’approfondita attenzione a tutto il faticoso cammino della recezione della medesima costituzione, sono in grado di attestare la logicità e l’intrinseca necessità di un rigoroso "discorrere" dal "che
cosa" al "perché" e al "come" si celebra: dato che la liturgia è "esercizio dei sensi spirituali" e "simbolo in azione". Alla teologia della liturgia si dischiude, allora, un interessante ambito di studio: quello del "come si celebra". E una risposta a quest’interrogativo può essere: si celebra con il "corpo vissuto", ovvero si celebra con la totalità del proprio essere e del proprio agire situato nel tempo e nello spazio. Il tempo liturgico – generalmente inteso – è il tempo vissuto come “incontro celebrativo” tra l’uomo e l’evento della salvezza che è "storico". Dunque un primo rapporto tra tempo e liturgia è dato dalla natura storico-salvifica del mistero che essa celebra: in questo senso la liturgia è "momento
sacramentale" attuatore del tempo salvifico. Ma la liturgia è anche un tempo speciale che simbolicamente
"sospende" ("rallenta") il fluire del tempo: sotto questo profilo possiamo dire che il tempo liturgico "genera" il tempo dell’esistenza nel senso che permette all’uomo di cogliere il senso e il valore dei giorni nei quali è chiamato a "lavorare". Proprio il tempo "sabbatico" è fonte e culmine del tempo operoso. Questo tempo (potremmo chiamarlo
la “festa”) – che s’inserisce e costituisce il tempo dell’esistere dell’uomo – si presenta come esperienza che ha la capacità di trasformare il tempo; è come una "modificazione simbolica" per cui il tempo liturgico non è tanto un altro tempo,ma un "tempo altro": qualitativamente diverso. Anche per quanto riguarda il rapporto tra spazio e
liturgia possiamo partire dalla constatazione che originariamente questo rapporto si fonda sulla "connaturalità"
tra la struttura della salvezza e la struttura della celebrazione liturgica.
La salvezza è una realtà che, non solo si realizza nel tempo, ma anche nello spazio: nello spazio cosmico e nello spazio che l’uomo costruisce e abita. In qualche modo la liturgia è l’ambiente dell’attuale donarsi dell’evento salvifico, l’ambiente ove è data possibilità all’uomo di incontrarlo e di accoglierlo.
Ma la liturgia origina – per così dire – una sorta di spazio "altro": le chiese con la loro struttura e il loro arredo sono quella "sala superiore ben adornata" che non solo "contiene", ma anche "dice" il mistero che ivi si fa presente.
E quello spazio – in quanto "fatto" (abitato) da ognuno e dall’assemblea – è capace di "dire" la natura e i compiti di ciascuno e dell’assemblea tutta, anzi, in realtà, è l’assemblea la vera chiesa, il vero spazio, il vero luogo dove l’evento della salvezza si attua sacramentalmente. Le azioni liturgiche – in quanto azioni celebrative (simboliche e rituali) – constano di diversi elementi, quali le parole, i gesti, i suoni, i silenzi, i movimenti… Nella loro umana ricchezza (e povertà) essi sono il “modo liturgico” di esperire e di “aver parte” del mistero della salvezza in quanto celebrato.
Ora, un elemento che appare massicciamente presente nella celebrazione liturgica è certamente la "parola". Possiamo raffigurarci svariate "situazioni di parola": uno legge da un libro e – correlativamente – tutti ascoltano; uno rivolge a Dio la preghiera e – correlativamente – tutti partecipano e aderiscono; tutti dicono una parola che può essere di risposta,
adesione, proclamazione, lode, invocazione… Osserviamo come le situazioni di parola quando non siano analizzate singolarmente ma nel loro intrecciarsi e nel loro provenire dal silenzio (o andare verso il silenzio) in realtà si strutturano come una vera e propria esperienza di ascolto e risposta: una esperienza di "dialogo".
Rinveniamo qui quella che potrebbe essere chiamata una "costante" della celebrazione cristiana: ogni struttura celebrativa appare come "realtà dialogica"; come dialogo tra Dio che parla e il popolo che ascolta e risponde; questo è motivato dal fatto che di natura dialogica è tutta la storia della salvezza (è una "alleanza"). E Dio solo ha l’iniziativa della salvezza; lui solo si manifesta e convoca gli uomini ad “aver parte” della sua rivelazione: la struttura dialogica
"dice/fa" esattamente questo. Un modo analogo (eppure diverso) di "situazione di parola" è dato dal canto e dalla musica. Sacrosanctum Concilium "giustifica" la presenza del canto e della musica nella liturgia adducendo tre motivi: dare maggior gusto alla preghiera, favorire l’unanimità, rendere più solenni i riti (cfr n. 112).
E’ sorprendente osservare che questi tre motivi sono, in realtà, tre fondamentali valori presenti nella
pratica umana del cantare e del suonare: cantare insieme è esperienza che esprime e rafforza l’unità di gruppo; il rivestimento musicale e c
anoro della parola è capace di strappare il testo dal suo solo contenuto per scoprirne e valorizzarne la carica poetica ed affettiva che permette a chi canta o ascolta di penetrare e vivere molteplici risonanze;
infine il canto e la musica – in quanto parte del "linguaggio della festa" – fanno parte costitutiva del tempo e dello spazio celebrativo. E la connessione tra musica, canto, sacro e rito è garantita dall’ascolto.
Il gioco musicale del suonare e risuonare educa all’ascolto che – attraverso l’intenzionalità della fede – consente di "sostare nei pressi della Parola e del Gesto di Dio". Val la pena di accennare che il "fondamento" di tutto questo è costituito da quel "confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore" (Rm 10,8-10). Qui trova fondamento ogni riflettere teologico su "la voce della Chiesa quale si esprime e si attua nelle assemblee liturgiche".Voce santa e sacra perché procede dal sacerdozio battesimale messo in opera – nella diversità dei ministeri e dei carismi- dai christifideles
in atto celebrandi (“partecipanti”). Questa vox Ecclesiae viene come "iconizzata" in e attraverso la fidei canora confessio e la "presenza" di Colui che viene "confessato" non va cercata altrove: essa si realizza là e quando la fidei canora confessio si dipana. Come non ricordare qui quegli "inni prepaolini"? Non ci parlano di una dimensione radicalmente "innodica" della professio fidei christiana? E il fatto di aver accolto nella liturgia cristiana tutta
la complessa dinamica del "salmeggiare", non ha nulla da dire? Dinamica di bocca, orecchio, cuore; dinamica di ascolto e risposta… La confessio fidei non teme d’assumere i tratti della "lirica salmica": la tenerezza e la violenza di tale "lirica"; la fiducia e l’affidamento dell’orante, ma – insieme – anche il suo avvertire l’assenza, il silenzio di quel Dio chiamato in causa, revocato in questione…
E il concreto configurarsi di gesti rituali, di ministeri, di sequenze rituali; la loro lettura e interpretazione non ci dice del farsi strada di una acuta coscienza del fatto che per tal via "figurale" del dire, del fare, dell’abitare uno spazio e un tempo, del cantare e dell’ascoltare, del suonare e ri-suonare…, accade l’appropriazione (in senso passivo e attivo) dei santi misteri? Quanto sopra detto non accade semplicemente se ho a disposizione un canto ben scritto e ben composto: occorre che questo canto passi – per così dire – attraverso una voce e un corpo. Si tratta di impegnarsi a descrivere questa "attraversata", questo "passaggio obbligato" del canto attraverso una voce, un gesto, un corpo affinché divenga "gesto efficace e significativo". Evocheremo qui – a tale scopo – tre grandi "situazioni liturgiche": – l’acclamazione e la supplica: gesto vocale direttamente rivolto al Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito; quasi traduzione vocale di uno spaesamento, di un sentirmi ed essere attratto e diretto verso una meta, verso Qualcuno…
– la meditazione: che pone e mantiene il rapporto con Dio tramite il "lavorare la Parola" e tramite il "lavoro in noi" della Parola…; meditare celebrando, servendosi del salmo responsoriale, di altri salmi, di inni…, "in lotta con il testo" letterario e musicale…; – la professione di fede: fede che vuol essere risposta a Colui che convoca, parla e dona; risposta d’accoglienza, di celebrazione, di testimonianza…; gesto vocale da cui si sprigiona una coscienza collettiva e
in cui si rinvigorisce un’identità. In fondo, però, ogni gesto sonoro autentico non può che essere una sorta di “resa”: accogliere, accettare e non aggiungere altro, perché tutto ciò che bisognava dire è "già" stato detto, perfettamente.

Mons. Prof. Alceste Catella Rettore del Santuario di Oropa

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