Massimo Pica Ciamarra



‘Survival through design’ conserva un’attualità eccezionale. In Italia le Edizioni di Comunità diffusero questo libro di Richard Neutra come ‘Progettare per sopravvivere’, titolo efficace ma dal senso appena diverso dall’originale ‘sopravvivere attraverso il progetto’. Il richiamo di Neutra ai veri scopi del progettare precede di poco il periodo in cui
in Europa si consolidano le tesi del quasi leggendario Team X: Architettura e Società / Architettura e Città / Architettura e Sviluppo Sostenibile.
Questi temi sembrano oggi scontati, ma sostenibilità – caposaldo della nostra cultura – cinquant’anni fa era una parola quasi sconosciuta benché fosse forte la tensione verso l’architettura organica, per Zevi ‘diretta a creare l’ambiente per una nuova civiltà democratica’.
Fu la crisi energetica del ’73 ad imporre maggiori attenzioni alle condizioni regionali e locali ed a spingere l’architettura ‘alla ricerca delle informazioni perdute’. Nel 2001 l’UNESCO indica nella diversità culturale il quarto pilastro dello sviluppo sostenibile, accanto alle tre ‘e’ (ecologia, equità, economia) della Commissione Mondiale su Ambiente e Sviluppo che nell’87, per la prima volta, connota di significati attuali il termine ‘sostenibile’.
Nell’ottobre 2002 ho introdotto una tesi radicale, La sostenibilità sostiene l’architettura, rilanciata più volte innestandovi nuove riflessioni ed esperienze. Così avevo preannunciato anche questo contributo ai ‘Paesaggi urbani sostenibili’, ma preferisco riprendere il titolo base del Seminario. A volte i titoli sono sintesi meravigliose: L’architettura oltre la forma è una straordinaria dichiarazione, un forte richiamo al significato ed allo scopo del trasformare, alla finalità del processo
attraverso cui, da sempre, l’uomo modifica l’ambiente naturale per migliorare le condizioni di vita.

Un tempo i processi di adattamento riguardavano minute aliquote dell’ambiente globale; la presenza umana era modesta: 10.000 anni fa, qualche milione di individui; all’inizio dell’era cristiana, 200 milioni; nell’Europa del tardo medioevo, 50 milioni. La prima ‘frattura’ avviene nel XVIII secolo, poi l’esplosione demografica si impenna nella seconda
metà del XX. Dai 750 milioni della metà dell’800, oggi siamo oltre 6,5 miliardi in un ambiente intriso di stratificazioni prodotte dal susseguirsi di generazioni e civiltà. Nell’area metropolitana dove sono nato, rara in Italia perché continua nell’incremento di popolazione, la superficie urbanizzata per ciascun abitante è oggi 20, forse 25 volte quella di quando ero giovane. I metri quadrati costruiti pro-capite (per abitare ed ogni altra attività) non hanno subito incrementi altrettanto esasperati, ma si sono vistosamente moltiplicati. Oggi nel loro insieme le risposte a nuove condizioni e nuovi stili di vita replicano modelli inadatti ed impropri. A scala globale innumerevoli interventi atomizzati, dimensioni, velocità delle trasformazioni, determinano impatti micidiali più che pericolosi.

L’architettura – l’azione che trasforma l’ambiente di vita – ha a che fare con questi dati e con le forti diversità che assumono nelle varie regioni del mondo. Dispone di archetipi ancestrali, invarianti strutturali, ma non è indifferente a questo stato di cose. Muta negli strumenti e chiede nuove definizioni. Attraverso la forma degli edifici e degli spazi non costruiti ogni civiltà materializza valori: differenti nel tempo, differenti nelle diverse culture; un tempo espressioni di stabilità, certezze, dominanze, valori prevalenti; oggi invece manifestazioni di condizioni cambiate: incertezza, flessibilità, adattabilità. Coesistono molteplici punti di vista; in ogni realtà sono compresenti differenti fasi di sviluppo e culture diverse. I fenomeni migratori attuali, mutati non solo nelle quantità, comportano conseguenze un tempo sconosciute.
A scala globale, come all’interno di ambiti ristretti, interagiscono significative differenze nelle velocità di trasformazione; forti differenze nei fattori demografici; forti differenze culturali; specifiche economie; diversità di obiettivi.
Benché ancora priva di una Carta Costituzionale condivisa, pur coinvolgendo tradizioni e 23 lingue diverse, l’Unione Europea è permeata da un patrimonio di valori comuni: ‘unita nelle diversità’ è il suo motto, emerso da un concorso fra 80.000 giovani tra i 10 ed i 20 anni, entrato in uso nel 2000. Le sue regioni, segnate da condizioni anche distanti fra loro, puntano ad obiettivi unitari. Un complesso di fattori culturali, storici, socio-economici e demografici, fa sì che oggi gli europei – sostanzialmente stabili numericamente, da marzo 2007 con più cellulari che abitanti – siano coinvolti in uno straordinario processo che spinge all’abbandono del mito individuale e punta alla qualità dell’essere collettivo: una mutazione sostanziale ed una rivoluzione culturale che, nello specifico, trovano in ‘architettura oltre la forma’ uno slogan
felice.

Peraltroè proprio in Europa e nell’intorno del Mediterraneo – il mare più trafficato al mondo su cui conv
ergono realtà profondamente diverse, ma dal 2010 ‘zona di libero scambio’ – che si è andato affermando un senso di città altrove senza riscontri. È nella tradizione europea – nella sedimentazione di innovazioni che la connota – che ha assunto
carattere e forza un’idea di città distante da affiancamenti o giustapposizioni di edifici. È di questa tradizione urbana il diacronico susseguirsi di costruzioni in grado di dialogare fra loro, di formare piazze, di introdurre mediazioni o fratture, di partecipare ad un insieme comune. Sono proprie della nostra tradizione infrastrutture capaci di formare paesaggi di grande interesse e qualità dove coesistono natura e artificio, individualità e superindividualità. A cultura e storia di queste aree si uniscono i particolari caratteri demografici, gli assunti dello stato sociale, la ricerca di qualità della vita, obiettivi ed azioni del programma 2007-2013 – ‘Europa per i cittadini’- varato a dicembre dall’Unione Europea e seguito – Lipsia, maggio 2007 – dalla ‘Carta sulle città europee sostenibili’. Tutto questo esprime qui una domanda di coesione territoriale che contrasti dispersione, consumo di suolo e mobilità su mezzo privato; la domanda di visioni sovracomunali ed urbane; l’esigenza di un’architettura diversa da quella che oggi sembra prevalere, specie altrove. Qui vi è esigenza di qualità diffusa, non quella di edifici stupefacenti, di espressioni plastiche inusitate, di eccellenze o monologhi affiancati. Dove cambia la domanda, l’architettura si può liberare di sovrastrutture e sovraesposizioni per riprendere il suo ruolo primario, quello di strumento e contributo al miglioramento della condizione umana.

La distinzione fra ‘armatura della forma’ e ‘linguaggi espressivi’ si rivela strumentalmente opportuna. Il DNA di un intervento, i suoi principi e caratteri principali implicano scelte di fondo, sostanziali interpretazioni dei contesti. Alcune decisioni ne definiscono lo scheletro, l’articolazione dei caratteri topologici su cui poi fondare espressioni formali e gerarchie di segni: da quelli che generano paesaggi, si rapportano all’ambiente o alla scala urbana, a quelli via via meno significativi.
L’armatura della forma cerca i legami di ogni intervento ai suoi contesti, può essere imbastita attraverso procedimenti logici, consente partecipazione e condivisione. I linguaggi invece hanno diversa autonomia, sono legati alle tecnologie, sono condizionati dai componenti di produzione industriale, dal gusto, da preferenze individuali ed esigenze contraddittorie. Quasi come negli Esercizi di Stile di Queneau: lo stesso aneddoto – la stessa storia, la stessa armatura formale – nelle infinite varianti dovute a punti di vista differenti.

L’architettura – eteronoma per eccellenza ed espressione collettiva per antonomasia – non è linguaggio, o meglio, prima di essere linguaggio, è senso. Per questo l’armatura formale di un intervento delinea quanto è ‘oltre la forma’. L’aforisma dell’iceberg di Aulis Blomsted ne è paradigma: gli accosto un’espressione propria della cultura del Team X, il titolo di un contributo ad un altro di questi Seminari, la copertina del numero-manifesto 2006 del Carré Bleu. Sintetizzo così la sintonia con ‘architettura oltre la forma’, indice ed acuto interprete dell’urgenza di un ripensamento che ha radici nei movimenti che portarono alla dissoluzione dei CIAM e, vent’anni prima, nella splendida definizione dell’architettura di Edoardo Persico.
Poiché architettura è innanzitutto senso e significati – mondo delle forme, ma in primis avventura delle idee – riemerge lo slogan ‘la sostenibilità sostiene l’architettura’. I temi della sostenibilità, della gestione delle risorse naturali, l’interpretazione delle morfologie e del clima, tutto richiama agli specifici contesti ed a visioni d’insieme. Qualità basilare
di un intervento è la sua capacità di entrare a far parte simultaneamente dell’ambiente, del paesaggio e delle stratificazioni del passato che impregnano un luogo; cioè il suo essere frammento del tutto ed in simbiosi con quanto lo circonda. Ogni intervento contribuisce a formare ambiente, paesaggi e stratificazioni; li salvaguarda comprendendoli
e trasformandoli.
La felice filosofia alla base delle ‘città/slow’ presuppone – non è un paradosso – iperconnettività territoriali ed urbane, materiali ed immateriali, ed anche vivaci focalità. Gli spazi contemporanei esigono fluidificazioni, velocità di trasformazione, soprattutto flessibilità in ogni accezione del termine: La forme ouverte en architecture ou l’art du
grand nombre, il saggio di Oscar Hansen sul n. 1/1961 del Carrè Bleu, è un inno alla forma aperta in architettura, a quel tempo al centro delle ricerche di gruppi come Metabolism o del Groupe d’Étude sur l’Architecture Mobile, poi delle tesi sugli ‘spazi nomadi’ che interpretano la flessibilità come esigenza di contemporaneità, analizzano le conseguenze che i mutamenti dello spazio urbano implicano sull’etica, aprono ad una diversa problematica ambientale.

Alcune riviste e mostre di architettura vivono di immagini, straripano di figure eclatanti e ricerche formali esasperate (rese peraltro possibili da risorse non dovunque abituali). Puntano alle eccezioni. Oggi invece l’impegno è definire condizioni che consentano, oltre a promuovere, qualità diffusa: in questa direzione non occorrono regole o linguaggi, ma soppressione di ostacoli, freni ed anacronismi. Alcuni requisiti sono indispensabili: primo fra questi, che
ogni intervento miri a far parte dei contesti intrecciati in cui si immerge.
Crescita demografica e civile, sviluppo tecnologico e scientifico, etica e trasformazione dell’ambiente, non sono insostenibili. Restituendo priorità all’obiettivo del miglioramento delle condizioni di vita, architettura oltre la forma è l’efficace sintesi dell’esigenza di trasformazioni integrate/interattive. Contro quello che sembra l’ineluttabile urban
sprawl – cui partecipano peraltro anche episodi a buon diritto nella storia dell’architettura contemporanea – occorre intrecciare coraggiose visioni ed abili politiche territoriali con l’architettura: incessante ricerca di apofonia, nel suo senso attivo di volontà di stabilire ad ogni scala legami e dialoghi, privilegio dell’immateriale.

M.P.C. Vice presidente INArch
Studio Pica Ciamarra Associati, Napoli

Unicam - Sito ufficiale
www.archeoclubitalia.it
Archeoclub d’Italia
movimento di opinione pubblica
al servizio dei beni culturali e ambientali

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