Mario Manganaro



Premessa
Parlare di architetture naturali sembra un controsenso, perché l’architettura è sicuramente un artefatto, di per sé non naturale. Si intende quindi parlare di spazi che si ancorano alla natura tanto da sembrare parte di essa, che tentano di imitarla o di confondersi in essa, di architetture che nel tempo si adattano al di là di ogni previsione tanto da sembrare perenni e nello stesso tempo prive di monumentalità artificiosa.
Quanto detto lega in qualche modo gli elementi primordiali dell’architettura agli spazi elementari, che sembrano senza forma, ma che hanno sempre interessato coloro che si occupano della conformazione dello spazio, avendo ricercato in essi l’essenza stessa dell’elemento primigenio, il formarsi della cellula architettonica e le leggi di aggregazione in forme via via sempre più complesse.
La ricerca di questi elementi attraversa tutta la storia dell’architettura e si ritrova anche in opere moderne e contemporanee come quelle di Frederick Kiesler, Andrè Bloc, Giovanni Michelucci, Leonardo Ricci, in cui raggiunge livelli diversi, alcuni di élite, altri di grande espressività e comunicatività sociale.
Oltre alla cultura anche il luogo può influenzare il nascere e conformarsi di un’architettura?
Leonardo Ricci è rimasto in qualche modo influenzato dal paesaggio degli Iblei o da quello di Pantalica, nei suoi progetti a Riesi o a Pachino? Cosa è rimasto di ciò nell’architettura costruita?

Pantalica. S. Micidiario
Sperlinga. Abitato in roccia

Quasi alla ricerca dello spazio primitivo
L’interrogarsi sul nucleo originario da cui si sviluppa il concetto dell’architettura, relativo allo spazio utilizzato per funzioni relative al lavoro o alla residenza, rimanda necessariamente alla struttura sociale e ad una visione conforme alla vita dell’uomo, alle risorse disponibili ed alla sua cultura in quel tempo ed in quel luogo. Tutto ciò è antico e moderno e nello stesso tempo ineludibile; è quello che fa di uno spazio un’architettura legata al suo tempo, ne da conto, tenta risposte e quindi apparecchia forme. La forma è legata anch’essa al proprio tempo.
Le forme di spazi eccezionali sembra che durino e si trasmettano più a lungo delle altre. Attraversano più tempi anche se sono significative soprattutto del loro tempo. Ci si chiede anche quanto peso abbiano avuto nell’influenzare architetture di periodi posteriori, che in qualche modo riprendano o continuano un metodo compositivo basato sull’osservazione attenta della natura e sull’uso del minimo essenziale.
Considerare la finestra come uno strappo che lacera la pietra per mettere a nudo lo spazio interno, che a sua volta si rivela attraverso uno schermo di calcestruzzo e infisso, è un procedimento volto a convogliare e gradualizzare l’immissione della luce verso lo spazio interno.
Espedienti più o meno raffinati con l’uso di materiali diversi sono spesso strumenti per costruire spazi essenziali e significativi, come nell’esempio di Ricci accennato in premessa.
In questo caso ci sembra che il percorso seguito dall’architetto sia il risultato di una riflessione complessa che parte dallo spazio primitivo, da quell’essenza primordiale che può ritrovarsi nella caverna, prima che l’uomo abbia pensato di farsi un ricovero con i tronchi d’albero: la grotta come rifugio atavico, precedente alla costruzione della capanna. La grotta infatti è uno spazio dato (esistente o adattato) a cui viene imposta la funzione dall’abitante, sia esso stanziale o passeggero.
Essa ha una sua stabilità, qualunque opera di adattamento faccia il suo fruitore. La capanna invece è un’opera completamente costruita dall’uomo ed è soggetta a continue manutenzioni; il suo abbandono comporta il deperimento e la rovina o il cambiamento di padrone.
La caverna non fu solo il principio. È stata riutilizzata come rifugio in periodi particolari, di difesa e arroccamento, di povertà e di mancanza di comunicazioni.

Riesi. Monte degli ulivi
Alia. Grotte della Gurfa. Vista dall’interno

Di solito viene riferita a tempi bui, in contesti di guerra o di carestie.
La capanna invece ha ancora in sé il senso del nomadismo, dell’abitare precario, ancora non consolidato; diventerà poi una costruzione stabile e più sicura con i muri di pietra e la copertura di travi di legno o con volte di mattoni.
Nel tempo le civiltà che usarono ai loro albori le caverne, se ne liberarono, uscendo alla luce del sole e innalzando templi sontuosi ai loro dei. Le caverne finirono per restare ricovero temporaneo per animali, per pastori o viandanti privi di alloggio. Si riscontrano popolazioni che usano le caverne anche oggi in territori lontani come in Africa o in Asia. Ancora nel secolo passato anche in Sicilia e in Basilicata esistevano abitati in grotta. Nella grande necropoli di Pantalica si trovano i resti dell’abitato bizantino tutto scavato nella roccia nei pressi della chiesa ipogea di S. Micidiario. Nella zona di Ispica solo dopo il terremoto del 1783 furono abbandonate le abitazioni scavate nella roccia della cava. A Sperlinga (Enna) le abitazioni in grotta, vicine al maestoso castello, anch’esso con locali ipogei, sono stati dismessi solo d
a
qualche decennio.
Le grotte di Alia (Palermo) erano utilizzate dai pastori fino a pochi decenni fa. Lo spazio principale di esse è scavato nella roccia a forma di campana con un occhio nella parte sommitale. Pur se nel tempo è stato usato e modificato per usi legati all’agricoltura o alla pastorizia del territorio circostante, resta nel nudo e maestoso spazio qualcosa di particolarmente significativo, misterioso e sacro nello stesso tempo. Non sempre la grotta è ricerca del rifugio o del nascondiglio; è anche ricerca del profondo che c’è in noi stessi, chiusura momentanea verso l’esterno per riprendere le fila di un gomitolo impigliatosi o arruffatosi nelle maglie della confusione della megalopoli, nell’intrico fuorviante dei nuovi percorsi, che hanno perso le rassicuranti simbologie degli antichi luoghi o dimenticato i ritmi legati alle stagioni e alla
natura.
Al di là di quello che hanno rappresentato in passato, alcuni spazi scavati, con lavoro di levare più che di mettere o giustapporre costruendo, sono straordinari. Visti forse in un contesto completamente diverso da quello in cui furono costruiti, fanno apprezzare maggiormente i valori della luce naturale nella modellazione e nella qualificazione
dello spazio, dilatandolo o contraendolo, sfaccettandolo in innumerevoli superfici dalle sfumature diverse o spremendolo in un buco nero impraticabile, alla ricerca di una dimensione legata appunto ai ritmi naturali e priva di apparati tecnologici, che fanno da filtro fuorviante tra l’uomo e l’intorno sensibile.

Riesi. Monte degli ulivi
Alia. Grotte della Gurfa. Interno

Al villaggio Monte degli ulivi
Così con lo scopo di trovare architetture della modernità che avessero quelle qualità di aderenza stretta al luogo e ad una visione di architettura più vicina all’uomo, raggiungemmo a Riesi il villaggio Monte degli ulivi, commissionato a Leonardo Ricci negli anni Cinquanta del secolo scorso dalla comunità valdese.
Trovammo spazi in sintonia con la natura, non tanto per l’impiego dei materiali, quanto per l’uso calibrato della luce, che si frangeva, s’incanalava, si distribuiva, si smorzava, scialbava o colpiva radente smaterializzando le copertine a sbalzo dei tetti, si accumulava imprimendo potenza ai muri, ai contrafforti, alle masse rugose di pietra.
L’ombra come una sorella gemella s’incuneava tra muri, tagliava diagonalmente le pareti, s’arrotolava all’attacco della sommità delle superfici, si distendeva sbattendo a terra o saltando di muretto in muretto, mischiandosi con quella frastagliata degli ulivi sulla superficie secca e ghiaiosa del campo.
Così il tempo passò veloce come il lampo, la penna scorreva senza intralci sull’album con gli anelli (avevo lasciato alla fine del mio album preferito alcuni fogli apposta per questo).
Disegnando, di solito, ci si affatica mentalmente e fisicamente, ma vale la pena ricordarsi di quelle volte in cui non te ne accorgi.
Nel girare attorno ai vari edifici del complesso mi spostavo tra l’ombra degli ulivi appoggiandomi qualche volta ai muretti di pietra. Non si sentiva altro, oltre al frinire delle cicale, nella calura dell’estate siciliana e quando andammo via non rispose nessuno al nostro saluto più volte ripetuto. Immaginai che stessero pregando da qualche parte quelle poche persone (tre) che avevamo intravisto all’arrivo e durante la sosta. Io avevo scambiato qualche frase di circostanza con un giovane straniero che ci accolse all’entrata e che aveva difficoltà a comprendere la lingua; avevo sentito invece Claudio chiacchierare con una signora affacciata al primo piano dell’edificio con i contrafforti.
I cani distesi all’ombra del portico d’ingresso ci guardarono sonnacchiosi e sazi del pasto appena consumato, senza nemmeno spostarsi al nostro passaggio. Ci accompagnarono girando solo lentamente gli occhi.

M.M. Università di Messina

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www.archeoclubitalia.it
Archeoclub d’Italia
movimento di opinione pubblica
al servizio dei beni culturali e ambientali

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