Marco Romano


Ho esposto nei miei due libri1 – e ora sul sito www.esteticadellacitta.it – la teoria dell’estetica urbana, che consente di progettare una città intera – o una sua parte, secondo criteri consolidati e sperimentati il cui corpus costituisce il fondamento concettuale e pratico di chi intenda esercitare il mestiere di urbanista, fondamento che – sia detto tra parentesi – le Facoltà di Architettura oggi non sono in grado di insegnare.
In questa sede voglio sottolineare soltanto un argomento. Perché un manufatto – una statua o un quadro – possa venire considerato una compiuta espressione artistica è sufficiente da un lato che sia stato creato con l’esplicito intento di farne un’opera d’arte e dall’altro che venga percepito come tale da almeno il suo committente: sicché la sperimentazione delle avanguardie artistiche di un secolo fa era legittimata dall’intenzione di creare opere d’arte che, seppure tali spesso non ritenute dal pubblico, incontravano l’apprezzamento di molti intenditori. Ma la città europea è un’opera d’arte formata dalla civitas intera con una serie di decisioni collettive e con un linguaggio consolidato che tutti i cittadini conoscono per averlo imparato fin da bambini con la consuetudine della loro città; un’opera d’arte offerta a quegli stessi cittadini della civitase ai cittadini delle altre città europee che tutti hanno in comune quel medesimo linguaggio, costituito da temi collettivi (palazzo municipale, chiesa principale, teatro, giardino pubblico e molti altri) e da strade piazze tematizzate (strada principale e monumentale, strada trionfale e passeggiata, piazza principale e piazza del mercato, e altre ancora) che troviamo in tutte le città europee a prescindere dalla loro dimensione.

1.2. A ovest di corso Sempione – qui sottolineata – la via Scarampo, proveniente da nord ovest, può proseguire attraverso l’area della Fiera avendo come fondale la chiesa di Santa Maria delle Grazie
3. Il quadro dei boulevard, delle passeggiate e dei viali alberati che costituiscono
la struttura estetica di Milano

La pretesa delle avanguardie artistiche degli anni Venti del Novecento di voler rinnovare anche il disegno della città, scardinando i principi che l’avevano retta da secoli, cancellando la rue corridor – di fatto strade larghe dai venti ai cinquanta metri! – per mettere i fabbricati di traverso, e di porre alla berlina le culte de l’axe, che aveva arricchito le nostre città di prospettive monumentali, ha prodotto dalla metà del secolo scorso quartieri moderni disastrosi, privi di senso, che costituiscono quel dramma delle periferie del quale tanto ci lamentiamo e che tanti danni sociali sta provocando, ma che gli urbanisti non vogliono affrontare, da un lato perché ciò implicherebbe una severa e devastante autocritica – perdendo così ogni titolo per protestare contro leggi urbanistiche che non consentono o non offrono al
Comune i necessari mezzi per realizzare piani regolatori i cui esiti sono poi città orrende e invivibili – e dall’altro perché dovrebbero ricominciare a studiare e imparare gli strumenti tecnici del loro mestiere.
Come sosteneva Max Planck, le nuove teorie scientifiche ‘non si impongono tanto per la loro verità, quanto perché muoiono i sostenitori delle vecchie’, e se questo può venire sostenuto nel campo delle teorie scientifiche, la cui verità sembra dimostrabile in modo evidente e indiscutibile, figurarsi in quel nostro campo dell’urbanistica dove alle rigorose
argomentazioni che correvano nei Congressi degli specialisti nella seconda metà dell’Ottocento – cui dobbiamo le soddisfacenti periferie anteriori al 1950 – si sono sostituiti profluvi di invenzioni lessicali che invece di produrre una bella città (l’ovvio obiettivo di urbanisti che hanno studiato in Facoltà di Architettura dove avrebbero dovuto impararne le regole) nella quale i cittadini possano radicare il sentimento della propria identità, hanno dato luogo a un immane disastro.

Regola costante di questo deserto concettuale è l’impiego di categorie a prioricui ricondurre le posizioni e i punti di vista più vari, estendendo ai campi più disparati la pertinenza delle medesime assiologie.
Così mi sono sentito dire spesso che, progettare la città secondo canoni consolidati dalla millenaria tradizione europea, sarebbe stato come non riconoscere che oggi abbiamo sulle strade le automobili invece delle carrozze; ed è curioso che questo stesso argomento venisse evocato agli inizi del Novecento, in una polemica tra Stübben e Brinckmann (devo pur dire, ben altri contendenti e di ben altro spessore culturale di quelli contemporanei) dove il secondo rilevava che la modernità della margarina non avrebbe necessariamente reso obsoleto il burro.

In realtà questo argomento costituisce l’immotivata estensione al disegno della città dell’asserzione di Viollet-le-Duc – fondata sull’analisi delle cattedrali gotiche – che ogni epoca storica produce una propria architettura derivante dall’irrompere di nuovi materiali, asserzione che ha legittimato la nascita del Movimento Moderno, ma che nessuno ha mai dimostrato sia estendibile alla città.
Voglio qui mostrare come invece il ricorso alle regole consolidate della progettazione urbana sia il solo in grado di risolvere i problemi compositivi posti dalle città contemporanee, ma invece di mostrare progetti studiati da me, illustrerò il caso dei progetti per il cosiddetto polo urbano della Fiera di Milano.
La Fiera di Milano ha di recente deciso si spostarsi in una nuova sede fuori città – progettata da Massimiliano Fuksas – e, per recuperare le risorse necessarie per costruirla, ha contemporaneamente deciso di vendere come terreno edificabile l’immensa area che occupava all’interno della città.

4.5.6. Primo progetto

Invece di vendere l’area al migliore offerente Luigi Roth, presidente della Fiera, ha chiesto che le offerte economiche fossero accompagnate da un progetto urbanistico, preannunciando che la scelta sarebbe stata condizionata in primo luogo dalla qualità del progetto presentato e solo in un secondo tempo, esclusi alcuni progetti sulla base di un giudizio esclusivamente tecnico, sarebbero state aperte le buste contenenti le offerte finanziarie dei progetti rimasti in gara, e l’area ceduta al migliore offerente. Proposito della Fiera era di offrire alla città progetti di altissimo livello, dal momento che le cordate di imprenditori interessate all’operazione – cordate di respiro globale a causa della sua entità – avrebbero fatto ricorso ai nomi più famosi del panorama architettonico internazionale. Nominati undici esperti delle più varie discipline – critici di architettura, io stesso in quanto urbanista, sociologi, economisti e quant’altro – e raccolti i loro pareri, la direzione della Fiera ha poi effettuato l’assegnazione: dell’esame che ho compiuto di questi progetti voglio qui raccontare.
Il Comune di Milano aveva stabilito le volumetrie massime e chiesto che metà dell’area fosse destinata a un giardino pubblico, senza tuttavia specificare in che cosa dovesse consistere, o forse dandone per scontate le caratteristiche assunte da quattro secoli nella tradizione europea: che sia di forma regolare, sia circondato da strade pubbliche
che ne sottolineinino l’equivalente accessibilità a tutti i cittadini della città, e sia possibilmente chiuso da una cancellata come quegli altri che già a Milano esistono.

7.8.9. Secondo progetto

La Fiera stessa aveva poi suggerito che si tenesse in conto la giacitura delle strade esistenti e la morfologia della città, indicazioni alle quali io stesso avevo aggiunto alcune raccomandazioni di buon senso, ma non cogenti per i progettisti.
Milano è il frutto di una sapiente pianificazione del tardo Ottocento (il piano Beruto) e del primo Novecento (il piano Pavia Masera) il cui criterio fondamentale era stato quello di disegnare una serie di tre boulevardconcentrici, il primo dei quali sulla sede dismessa delle fortificazioni militari spagnole e i due successivi un poco più esterne, il primo con la larghezza di 30 metri e i due successivi con la larghezza rispettivamente di 40 e di 50 metri, una sequenza di boulevardassimilabile a quella di Parigi o di Berlino.
Questo schema a cerchi concentrici era stato poi arricchito da alcune passeggiate radiali, soprattutto quella conclusa con viale Argonne, lunga 2200 metri e larga 90 metri (come gli Champs Elysées, a loro volta lunghi 3200 metri) e dall’altra parte della città corso Sempione, anch’esso largo 90 metri, tema che ritma la conclusione, con il Cimiero Maggiore, della lunga e straordinaria sequenza che inizia a piazzale Loreto e attraverso corso Buenos Ayres, porta Venezia con i suoi caselli, la passeggiata sui bastioni, il giardino pubblico di via Palestro, la strada monumentale (corso Venezia), la piazza monumentale del Novecento (piazza san Babila), la strada principale della città (corso Vittorio Emanuele), piazza del Duomo (che è anche piazza monumentale, nazionale e di mercato), via Dante (strada principale, monumentale e trionfale in ragione della veduta assiale del castello), dopo il castello il parco e appunto corso Sempione, taglia trionfalmente l’intera città. Era stato poi completato dai viali alberati che fuori le mura collegavano un tempo le città tra loro e che con la successiva espansione ottocentesca erano stati inglobati e convenientemente allargati
nella città, diventata così un reticolo di strade a vario titolo tematizzate che evitavano alle parti più lontane dal centro di soffrire di quell’emarginazione simbolica alla quale soccombono i nuovi quartieri progettati dopo il 1950, dove nessuna strada tematizzata testimonia attraverso la sua visibile grandiosità la loro appartenenza alla città e neppure li lega al centro cittadino con le efficaci sequenze di un tempo, e che per questo potrebbero appartenere a qualsiasi altra città,
luoghi per principio di una irrimediabile emarginazione simbolica.
Ecco allora il nuovo progetto della Fiera diventare l’occasione per ricucire ed esaltare questa rete simbolica della città ottocentesca.
Sull’area della Fiera convergono tutte le autostrade cha arrivano a Milano da nord, e se la tagliassimo in mezzo avremmo come veduta finale la facciata di Santa Maria delle Grazie, uno dei più ragguardevoli monumenti della città in ragione dell’architettura del Bramante e del Cenacolo vinciano che vi si trova (figg. 1, 2).
Sembra poi ragionevole completare i boulevard occidentali, riprendendo la sequenza che tocca piazza Piemonte – una ragguardevole piazza ottocentesca abbellita da due edifici gemelli a cupola, simili a quelli di piazza del Popolo a Roma – e che prosegue poi attraverso una piazza tematizzata dal monumento a Giuseppe Verdi e che termina nella piazza monumentale, ad
architettura coordinata, a suo tempo realizzata di fronte all’ingresso principale della Fiera.
Meno importante, ma comunque meritevole di venire presa in considerazione, la sequenza dei boulevardtrasversali, in ragione soprattutto del loro essere disposti tra due fermate chiave della metropolitana e delle ferrovie nord (fig. 3).
A queste indicazioni ho aggiunto il suggerimento di ricorrere anche ad altri temi della tradizione europea, per esempio una bella strada principale con i suoi negozi, una piazza e, perché no, un grattacielo, tema collettivo moderno, del quale Milano ha già i due esempi clamorosi del Pirelli e della Torre Velasca, cui avrebbe potuto dignitosamente affiancarsene uno nuovo, ad annunciare le sequenze cittadine.
Pare poi ragionevole tenere conto del fatto che Milano si è accresciuta con isolati affacciati lungo le strade e che quindi non pare né necessario, né opportuno, ricorrere a tipologie aperte che possono venire impiegate in qualsiasi altra situazione, anche in aperta campagna o in un’altra città, senza tenere conto della specifica morfologia dei quartieri milanesi contermini. I progetti presentati mostrano in generale la più radicale insipienza del fatto urbano.

10.11. Terzo progetto
12. Quarto progetto. I grattacieli del progetto milanese …

Il primo progetto è firmato da David Chipperfield, Dominique Perrault, Foreign Office Architects, Skidmore Owens & Merril, Michele de Lucchi, SANAA, MVRDV, Auckett+Garretti, LAND: come si vede il giardino pubblico è poi un terreno a L non circondato da strade e neppure da una cancellata, bensì da un canale leggermente sopraelevato che la prospettiva mostra poi di misera vista; la visuale di Santa Maria delle Grazie è stata ignorata (senza che i fabbricati messi di traverso per intercettarla presentino una logica di qualche superiore ordine formale); il boulevardoccidentale viene interrotto senza alcuna giustificazione; i boulevarddiagonali non sono raccordati; i grattacieli sono più di uno e la loro forma pare troppo eccentrica per costituire un condiviso tema collettivo della bellezza cittadina; la giacitura degli edifici –
segnatamente quelli a ventaglio – non rispettano il preesistente ordinamento degli isolati; non esiste una vera piazza e neppure una vera strada (figg. 4, 5, 6).

Il secondo progetto è firmato da Michel Desvigne, Jean-Pierre Buffi, Pierlugi Nicolin, Italo Rota, Antonio Citterio, Anna Giorgi, Ermanno Ranzani: il progetto è dominato da una successione di laghetti che dovrebbero formare un giardino che, seppure non propriamente definibile come un giardino pubblico con le sue caratteristiche consolidate, è comunque in sé concluso e affacciato su due spazi pubblici – ancorché troppo poco distinto dalla sfera privata delle case – e soprattutto
riprende a suo modo la giacitura dei boulevard occidentali; la visuale di Santa Maria delle Grazie è tuttavia anche in questo progetto interrotta senza che ne sia chiaro il motivo, così come è ignorata la diagonale tra le stazioni; un gruppo di grattacieli verso nord ovest appare in contrasto con il principio che debba venire previsto un solo grattacielo;
il modello degli isolati tradizionali è percepito infine come un suggerimento dal quale poi ci si allontana, disponendo le case con un modulo quadrato che tuttavia – in apparenza per non apparire troppo antiquato – non osa ricostituire una strada (figg. 7, 8, 9).

13. … e quelli di Shangai
14.15.16. Il progetto di Renzo Piano

Il terzo progetto è firmato da Norman Foster, Frank O. Gehry, Rafael Moneo, Cino Zucchi, Richard Burdett e URB.A.M: qui la visuale di Santa Maria delle Grazie è salvaguardata – sia pure con una certa timidezza, come a vergognarsene – mentre il boulevard occidentale è senza motivo interrotto da un grattacielo; il giardino pubblico è ovviamente
accessibile, ma è collocato all’interno degli edifici residenziali ed è quindi un giardino condominiale e non un vero e proprio giardino pubblico con le caratteristiche che lo rendono tale; ai piedi degli edifici un lungo nastro di negozi simula una strada principale che tuttavia non ha riscontro nell’esperienza europea – dove le strade principali hanno sempre due fronti di botteghe – se non nelle stazioni balneari: e difatti le prospettive evocano candidamente l’acqua di un laghetto sul quale si specchia un paesaggio estivo, piuttosto che l’ambiente urbano di Milano o di un’altra città europea; un largo e informe spiazzo assume il nome di plaza, con il quale gli architetti americani hanno in tutto il mondo nobilitato questo genere di piazzali ai piedi dei loro grattacieli, ma che non hanno nulla a che vedere con una vera piazza europea, uno spazio chiuso dalle case; il filo degli isolati sulle strade esistenti è stato qui rispettato, anche se poi i varchi tra le fronti hanno un aspetto sinuoso che dona all’insieme delle case la figura di un gigantesco polipo; i grattacieli a loro volta sono troppi, quasi come se ciascuno dei progettisti di maggior prestigio avesse partecipato
alla cordata per progettarne uno (figg. 10, 11).

Il quarto progetto è firmato da Zaha Hadid, Arata Isozaki, Daniel Libeskind e Pierpaolo Maggiora: neppure qui ci si è presi cura della visuale di Santa Maria delle Grazie, di nuovo interrotta senza alcun plausibile motivo; neppure qui si è tenuto in conto la giacitura tradizionale degli isolati milanesi; neppure qui esiste una piazza, seppure questo nome venga attribuito allo sterminato piazzale a sud del cerchio del museo; ne
ppure qui si è tenuto conto del boulevard occidentale; neppure qui il verde costituisce un vero giardino pubblico, ma è soltanto il giardino condominiale tra le case.
Ma qui il punto stravagante del progetto è la presenza di simultanea di tre grattacieli – uno per ciascuno dei tre nomi celebri che lo hanno sottoscritto: ora, un solo grattacielo può costituire in Europa, come ho già detto, un tema collettivo del quale la città sarà fiera, ma una selva di grattacieli non evocano qui da noi una bella città, ma piuttosto l’affastellarsi
dei grattacieli nell’Estremo Oriente, dove nessuno ha mai preteso che le città fossero belle e dove questi eccentrici mastodonti sono lì a dimostrare la propensione ad accettare volentieri la cargo cult dell’Occidente, a prender per buoni certi progetti che scaturiscono dai cassetti degli architetti, come un tempo le perline e le sveglie dalle stive delle navi, che i selvaggi appendevano al collo come ora infoltiscono il nuovo centro di Shangai (figg. 12, 13).

14.15.16. Il progetto di Renzo Piano

Soltanto Renzo Piano ha interpretato bene il tema presentando un progetto nel quale il giardino pubblico occupa la metà dell’area, è contornato da strade, ed è recintabile; la visuale di Santa Maria delle Grazie è salvaguardata e sottolineata almeno da un filare di alberi; la sequenza dei boulevard occidentali è ben mantenuta; abbiamo poi una
parte dell’edilizia, quella non residenziale, affacciata su una vera e propria strada principale con i suoi negozi da entrambi i lati e le case, seppure non allineate lungo la strada vi fanno ragionevolmente capo; la strada è poi ritmata da una piccola piazza triangolare racchiusa tra le case; infine il grattacielo, ergendosi solitario, ben si presta a costituire
un nuovo tema collettivo della città (figg. 14, 15, 16).

I dirigenti della Fiera, scartati i due primi progetti prima ancora di prenderne in considerazione l’offerta economica, protetti dal giudizio positivo dei consulenti dell’architettura, hanno scelto il progetto di Zaha Hadid, Arata Isozaki e Daniel Libeskind, la cui offerta superava di cento milioni quella dei promotori di Renzo Piano. Ma il progetto di Piano ha destato subito il generale consenso, dimostrando che il linguaggio consolidato della città europea è tuttora il più appropriato per progettare nuovi quartieri, e che quanti sostengono che il millenario mestiere di progettare le città con quel linguaggio sia un atteggiamento arcaico e che occorra qualcosa di nuovo, devono pur arrendersi all’evidenza non soltanto del confronto tra questi progetti, ma anche del fatto che il progetto migliore, così apparentemente tradizionale, è tuttavia firmato da un architetto del quale nessuno oserebbe contestare la modernità.

1. L’estetica della città europea, Torino, Einaudi, 1993, 2005; Costruire le città, Milano, Skira, 2005.

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movimento di opinione pubblica
al servizio dei beni culturali e ambientali

 

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