Luigi Prestinenza Puglisi – Camerinoteoria

Dopo un periodo di euforia creativa e teorica registratosi negli anni novanta, viviamo oggi un momento di riflusso causato soprattutto da tre nodi irrisolti.
Il primo deriva dal disorientamento disciplinare. L’architettura, infatti, pare muoversi sempre di più nel campo della comunicazione, abbandonando molte regole che nel passato l’avevano contraddistinta, per esempio la tettonica. Per i critici più tradizionalisti ciò è un male.
Per altri, invece, è un’opportunità. Tanto più che lo stesso fenomeno si registra anche nel campo di altre discipline, per esempio l’arte.
Il secondo nodo nasce dall’avanzare della rivoluzione digitale. Questa, potenziando, moltiplicando e dislocando il nostro sguardo (attraverso computer, telecamere, videocamere, internet e l’interazione a distanza …) sta cambiando il nostro modo di concepire lo spazio. Ma se la perdita dell’hic et nunc del luogo è un problema che per alcuni (per es. Paul Virilio) porterebbe a conseguenze catastrofiche, per altri (per es. Derrick de Kerchove) è un’opportunità che porta ad un mutamento di paradigma paragonabile a quello imposto nel 1400 dall’invenzione della prospettiva.
Il terzo nodo è rappresentato dalle conseguenze dell’11 settembre 2001 quando ci si è resi conto che la globalizzazione non produce risposte adeguate alle richieste di un pianeta molteplice e complesso e non evita né l’incomunicabilità nè lo scontro tra civiltà.
Da qui tre domande. Cosa accadrà dopo che le arti e, quindi, anche l’architettura, perderanno le loro caratteristiche specifiche, per ibridarsi tra di loro ed entrare in modo nuovo nel mondo della comunicazione?
Quali caratteristiche saranno richieste agli edifici per sintonizzarsi con lo spazio dell’informazione e della compresenza che segna la civiltà contemporanea? Come sfuggire da un internazionalismo astratto e omologante senza cadere in chiusure regionaliste?

Dopo la teoria
Rispondere alla prima domanda implica analizzare i rapporti tra l’architettura e le altre arti, e di queste con la moda, la pubblicità, i rapporti di potere e la politica. A tal fine credo che ci possa aiutare un libro edito nel 2003 e scritto da Yves Michaud: L’arte allo stato gassoso.
La tesi è espressa chiaramente dal titolo: viviamo in un periodo di trionfo dell’estetica, in un mondo in cui tutto deve essere bello. Dalle nostre facce opportunamente trattate dalla chirurgia estetica ai cadaveri impacchettati in sacchi di plastica e nascosti alla vista. ‘La bellezza regna. È diventata un imperativo: o sei bello o almeno risparmiaci la tua bruttezza’.
Ad un aumento generalizzato del coefficiente di bellezza corrisponde, però, paradossalmente, una diminuzione di opere d’arte che ne incarnano l’idea. Il mito, di origine platonica, che costringeva scultori, pittori e architetti a ricercare il bello in sé e per sé trova, oramai, sempre meno spazio. Anzi, il più delle volte, l’arte è perseguita attraverso il brutto, lo sgradevole, lo stridente. Sin dai primi anni del novecento è di regola deformare le figure, presentare oggetti macabri e, in architettura, proporre edifici disarmonici e a volte disequilibrati sino al limite della precarietà strutturale. Michaud non li cita, ma nel suo libro potrebbero essere ricordati architetti quali coop Himmelb(l)au i quali per i loro edifici eseguiti negli anni ottanta proclamavano di ispirarsi al corpo martoriato dei portatori di handicap o Koolhaas che per Euralille propone uno spazio Piranesiano, dove rumori, velocità e tubi di scappamento si esaltano in una prospettiva neofuturista.
Come si spiega il paradosso? Dal fatto che oramai da quasi un secolo l’estetica ha acquisito la consapevolezza che il bello non è un carattere intrinseco all’oggetto, un valore in sé e per sé, ma è una relazione, cioè il risultato di un rapporto che si intesse tra l’opera e l’osservatore.
E così se una Madonna di Raffaello potrebbe esistere indipendentemente da chi la osserva, l’orinatoio di Duchamp, al di fuori di questa relazione, non avrebbe alcun senso, rimarrebbe l’oggetto utilitario che tutti conosciamo. Ma se l’arte è oggi sempre più concepita per stimolare reazioni, per provocare risposte, per coinvolgere l’osservatore, diventa una attività come le altre che si pongono simili obiettivi quali la comunicazione, la moda, la pubblicità.
Viceversa comunicazione, moda e pubblicità prendono a prestito dall’arte alcune tecniche sperimentate nel corso della sua storia ultracentenaria.
Risultato? Oggi è molto difficile distinguere tra un’opera d’arte e uno spot: tra la pubblicità dei blu jeans e l’ultima opera di Maurizio Cattelan, tra la reclame della automobile e un’opera di Damien Hirst.
Insomma stiamo vivendo in un periodo in cui l’arte si proietta nella vita e la vita nell’arte. Tutto si estetizza, e il mondo viene, come da un profumo, invaso da questo gas estetico che ci avvolge e ci circonda.
Tutto ciò è un male? Non necessariamente. Non lo è per coloro che riusciranno ad abbandonare la dimensione oggettuale dell’architettura e quindi la tettonica, la composizione, il bello stile con lo stesso coraggio con il quale gli artisti hanno abbandonato la mimesi, i ritmi e le proporzioni, la sezione aurea e le grammatiche formali, anche astratte, di ogni tipo.
L’estetica relazionale ci permette, invece, di muoverci in un mondo nuovo dove gli steccati disciplinari sono abbattuti e dove lo spettatore, e non l’opera, è il parametro di riferimento.
Michaud cita Benjamin secondo il quale ogni epoca ha proprie forme d’arte perché ‘nel giro di lunghi periodi storici, insieme coi i modi complessivi di esistenza delle collettività umane, si modificano anche i modi e i generi della loro percezione sensoriale’. Ciò vuol dire, se Benjamin e Michaud hanno ragione, che il fenomeno che stiamo attraversando
non è frutto di una malattia passeggera della ricerca artistica, ma uno stato di fatto con il quale dovremmo fare i conti forse per un lungo periodo. Ci piaccia o no. È bene quindi, piuttosto che invocare i valori immutabili dell’arte e dell’architettura, cominciare ad attrezzarci per cogliere le opportunità che ci si presenteranno in un mondo gassosamente estetizzato. Con l’avvertenza che, come sempre succede quando vengono a mancare le regole, il gioco diventa non più facile ma più difficile.

Dopo la prospettiva
La seconda domanda implica una riflessione sulle opportunità che ci offre il nostro nuovo modo di guardare lo spazio per capire cosa possa comportare il superamento sia della percezione tradizionale di tipo prospettico (basata su un punto di vista fisso), sulla quale si era fondata l’architettura rinascimentale, sia di quella teorizzata da Sigfried Giedion dello spazio-tempo (basata su un punto di vista mobile) sulla quale si era fondata l’estetica architettonica del Movimento Moderno.
In realtà, guardare lo spazio, come facciamo oggi, contemporaneamente da dentro e da fuori è operazione antica. Penso, per esempio, ai trattati rinascimentali sulla pros
pettiva. E ad illustrazioni famose come quella del Dürer che analizza gli accorgimenti che deve adoperare il pittore prospettico per ben dipingere il suo oggetto, nel caso una
modella. Il pittore è sdoppiato in due. Un pittore virtuale, cioè quello disegnato da Dürer, che sta di fronte all’oggetto e traccia raggi ottici.
E un pittore reale, cioè il lettore del trattato, che guarda l’illustrazione e, posto nel punto di vista all’infinito di chi sta fuori dalle pagine del libro, osserva cosa fare.
Se, invece, cambiamo prospettiva e guardiamo la scena dal punto di vista dell’effettivo processo percettivo, allora reale sarà il pittore che sta di fronte alla modella e virtuale la mente di colui che guarda l’immagine e ricostruisce la scena.
Questo sdoppiamento, in cui reale e virtuale si scambiano continuamente, nasce da una condizione propria della natura umana, che per capire il sé, lo deve porre come altro da sé, e così ridurlo a fenomeno da osservare con distaccata comodità. In sintesi e per dirla in modo più semplice, per capire occorre sempre guardare in due modi: con gli occhi veri e con l’occhio della mente.
Per capire come si sia evoluto questo modo di organizzare la visione nella nostra società digitale, arriviamo all’anno 1969 quando si inaugura l’opera postuma di Marcel Duchamp: Etant donnés.
Più di un critico ha notato che la struttura dell’impianto rassomiglia a quella del disegno di Dürer sulla prospettiva di cui abbiamo parlato.
Con due differenze: che, invece, di essere ridotta alle due dimensioni dell’illustrazione cartacea è ricostruita in tre dimensioni; che il posto dell’artista rappresentato da Durer, deve essere, in Etant Donnés, occupato dall’osservatore. Solo così la similitudine è perfetta. Nel disegno di Dürer abbiamo: occhio del pittore, quadro trasparente, modella.
Nell’opera di Duchamp: occhio dell’osservatore, breccia nel muro, corpo della donna. Quale è la differenza? Che Duchamp ha messo l’osservatore dentro il quadro costringendolo a vivere concretamente e non più mediante l’immaginazione e il punto di vista del pittore. E lo costringe invece a vivere nell’immaginazione quello di se stesso che
vede l’intera opera (cioè tutto l’apparato messo in scena da Duchamp più se stesso) dall’esterno.
Possiamo dire che ha dislocato l’occhio per dargli modo di vedere meglio ciò che Dürer aveva solo lasciato immaginare.
È ciò che Virilio chiama la stereofonia della realtà.
La sintetizza con un’immagine drammatica. Quella di un aviatore che sta precipitando con il proprio aereo, e vede sul televisore di cabina la scena della propria fine, mandata in onda in diretta da un operatore che da terra la sta riprendendo.
Grazie alle trasmissioni in tempo reale e alla velocità dei nostri apparati elettronici, noi viviamo la stereofonia della realtà anche meno drammaticamente. A volte senza farci caso.

Albert Dürer
Marcel Duchamp: Etant donnés

Le automobili di nuova generazione ci testimoniano come la guida sia passata da un’esperienza quasi esclusivamente dominata dalle percezioni, a un mix di controlli insieme percettivi e virtuali (tachimetri, navigatori satellitari, consiglieri elettronici di guida e tra un po’ radar per la sicurezza). Per non parlare delle cabine di pilotaggio degli aerei dove controlli e dispositivi che lavorano sull’ordine della virtualità hanno assunto un peso rilevante rispetto al controllo percettivo dello spazio da parte del pilota. Nessuno atterrerebbe più, se non in caso di emergenza, a vista mentre, in condizioni di scarsa visibilità, si possono chiudere gli occhi facendosi guidare dalle strumentazioni di bordo.
Lo sguardo nell’età del digitale, quindi, non guarda più solo direttamente.
Sempre più spesso percepisce attraverso strumenti che, a loro volta, ci comunicano i loro dati. Risultato: noi possiamo vivere la realtà da dieci, cento punti di vista diversi, tutti simultanei e subiamo come una limitazione l’essere costretti a accontentarci di un punto di vista univoco.
Pensiamo alle partite di calcio o alle gare automobilistiche. Abituati come siamo a vederle al televisore attraverso telecamere piazzate in ogni punto strategico, velocizzate o rallentate nei momenti di massima intensità, facciamo non poca fatica a viverle dal vivo da semplici spettatori.
Notava Peter Eisenman che oramai non c’è più uno stadio che non offra al proprio pubblico la partita in diretta più lo spettacolo della partita in tempo reale, magari su un grande schermo.
Il risultato è che lo spettatore si trova un po’ come l’osservatore di Etant donnés, insieme dentro e fuori il quadro. Osservatore e osservato.
Con la differenza però di essere all’interno di un fenomeno artatamente confezionato, il cui fine non è l’ottenimento di una indipendenza di giudizio, come avviene con l’operazione artistica, ma del soggiogamento al punto di vista, tecnicamente sofisticato e quindi ipnotizzante, dell’evento mediatizzato. Nel caso specifico: essere guidato a vedere e sentire dalle telecamere, certo non neutrali, di un Grande Fratello.
Per molti ciò è una catastrofe. Ma questa posizione dimentica che il gioco degli specchi della spettacolarizzazione della vita è qualcosa di più che un artificio imposto dalla società neocapitalista. È, come ha notato Freeman Dyson, il punto finale di una schizofrenia, epistemologicamente positiva, che ci permette una migliore conoscenza del reale.
Da qui un’ipotesi di lavoro: che il processo possa essere indirizzato, attraverso pratiche che lo utilizzino svelandone allo stesso tempo il funzionamento.

Indichiamo due tra le possibili direzioni.
 Lavorare su spazi insieme reali e virtuali, allo scopo di chiarire la compresenza dell’infospazio con lo spazio dell’esperienza: è quanto, per esempio, fanno quei progetti che rendono con immagini spaziali i flussi astratti. Come avviene con i computer quando traducono con la metafora delle finestre il sistema operativo o Asymptote quando trasforma in immagini fisiche i dati della borsa di New York.
 Giocare sul contrasto tra reale e virtuale in funzione critica.
È l’esperienza di Diller e Scofidio che propongono edifici in cui si è contemporaneam
ente osservati e osservatori, in cui la dimensione empirica e concettuale dello spazio tendono a confondersi ma mostrando invece che occultando le regole del gioco.

Concludiamo. Credere che, nella nostra società, si possa pensare a percepire uno spazio reale e basta vuol dire non tener conto di quanto la dimensione virtuale, già da prima dell’avvento dell’informatica, sia stata presente nella storia della cultura occidentale. Oggi, con le nuove tecnologie in tempo reale, ciò è addirittura impossibile. Dobbiamo quindi cominciare a fare i conti con una stereofonizzazione della realtà sempre più intensa. E conseguentemente pensare a un nuovo rapporto tra corpo e ambiente in cui lo spazio della mente e delle percezioni convivano, integrandosi criticamente a vicenda.

Dopo le Twin Towers
La terza domanda implica una riflessione sull’architettura dopo l’evento simbolico dell’11 settembre 2001, che, distruggendo le Twin Towers, ha messo in crisi un sistema concettuale basato su un modello fondato sulla fiducia nella capacità del sistema di controllare lo sviluppo e il progresso tecnologico. A partire da quella data, con sempre più insistenza, sono emersi la necessità di un diverso quadro concettuale geopolitico di riferimento, il tema della libertà rispetto a tecnologie sempre più invadenti, le questioni del recupero della concretezza del corpo e infine il tema ecologico, intendendo quest’ultimo non solo come risparmio energetico, ma come raggiungimento di un equilibrio
tra una naturalità che non possiamo perdere e una artificialità alla quale non possiamo rinunciare. Per ragioni di spazio non possiamo affrontare in dettaglio le molte sfaccettature di questo ambito problematico.
Ci limitiamo ad osservare che convincenti risposte difficilmente deriveranno da un’architettura che tenti di conservare le tradizioni locali. È questa infatti una soluzione tanto insoddisfacente quanto quella di architetture targate Star System che si ripetono sempre identiche o che fanno leva su facili effetti iconici. Possibili soluzioni potranno invece provenire dagli studi di architettura più giovani: in particolare dai gruppi transnazionali nati a seguito del fenomeno Erasmus.
Stanno sperimentando un nuovo atteggiamento aperto e tollerante che nasce da una koinè linguistica. Dove si respira un’aria internazionale, ma lontana da un omologante internazionalismo. Il segreto? È di tradurre in un linguaggio comune, per condividerle innanzi tutto con i propri stessi partner, le esperienze specifiche dei differenti bagagli culturali.

LPP

Università di Roma ‘La Sapienza’

Unicam - Sito ufficiale
www.archeoclubitalia.it
Archeoclub d’Italia
movimento di opinione pubblica
al servizio dei beni culturali e ambientali
Consiglio Nazionale degli architetti, pianificatori paesaggisti  e conservatori
Consiglio Nazionale
degli Architetti, Pianificatori
Paesaggisti e Conservatori

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