Lorenzo Dall’Olio


Solo dieci anni fa l’ipotesi che potesse esistere un terreno comune di scambio tra arti visive e architettura era vista ancora con timore e sospetto, come se il solo contatto di un ambito espressivo con l’altro potesse in qualche modo indebolire o, addirittura, nuocere alle già precarie condizioni strutturali delle singole discipline e dell’architettura
in particolare. Non vi erano contributi critici specifici che affrontassero questo tema in maniera diretta e sufficientemente ampia e mancava un aggiornamento dei numerosi e importantissimi studi che avevano messo in luce i rapporti esistenti tra le avanguardie artistiche e il movimento moderno nei primi decenni del ’900.
Ancora oggi non è stata fatta una seria riflessione sulla natura di tali rapporti e, soprattutto, sui possibili riflessi di carattere teorico e metodologico sulla nostra disciplina.

T. Ando, Tempio dell’Acqua, Tsuna-gun,
Hyogo, 1989-1991
R. Serra, My curves are not mad, 1987

Due sono, al momento, le posizioni critiche più frequenti, diametralmente opposte: da un lato, vi è chi ritiene che l’architettura – come d’altronde le altre arti – abbia ormai superato i propri confini disciplinari, perdendo molto della sua specificità e confondendosi con altre manifestazioni dell’espressività umana. Germano Celant, curatore della recente mostra di Genova sul tema, parte dall’idea che nel suo passaggio dal funzionalismo al formalismo puro l’architettura diventa arte, perché passa dal dover essere al piacere di essere. Dall’altro vi è chi ritiene pericoloso, per le sorti della disciplina, anche solo ipotizzare l’esistenza di tali rapporti e pensa che l’architettura che ‘si fa arte’ produca una degenerazione dei principi fondativi del lavoro dell’architetto e delle sue finalità.
Sono due posizioni a mio avviso improduttive, perché eliminano, con modalità diverse, lo spazio dialettico del confronto; la prima, sovrapponendo per un eccesso di omologazione ambiti operativi diversi, tende ad annullare le differenze e a confondere metodologie e, appunto, finalità; la seconda, negando qualsiasi area di interferenza, tende a non vedere i numerosissimi segnali di contaminazione, più o meno espliciti, tra arte e architettura.
Il punto di partenza del mio piccolo contributo di dieci anni fa, che ancora oggi ritengo valido, si fonda sull’idea che, per comprendere molti dei fenomeni e delle tendenze architettoniche oggi in atto, sia sempre più indispensabile allentare le maglie strette dell’autonomia disciplinare, soprattutto se l’interesse è rivolto a quelli che potremmo definire i ‘materiali espressivi’ che entrano in gioco nella fase ideativa dell’opera.1
D’altronde, l’idea di perlustrare territori di confine, di spostarsi cioè per un momento dal proprio ‘centro’ e cambiare il punto di vista, veniva già teorizzata da Manfredo Tafuri, che nel noto libro La sfera e il labirinto del 1980 scriveva: ‘Fin troppo spesso scandagliando ciò che è ai margini di un problema dato, vengono offerte le chiavi più produttive
per aggredire quello stesso problema’.

S. Holl, Spatial Retaining Bars,
Phoenix (Arizona), 1989
Sol LeWitt, Incomplete Open Cubes, 1975

Venendo a oggi e al tema più generale posto dal Seminario di Camerino, a proposito del ruolo dell’architettura nella costruzione dei nuovi paesaggi urbani, va registrato un importante dato di partenza: anche se non ovunque e non sempre con conseguenze positive, sempre più spesso l’architettura è chiamata a diventare un simbolo per le città che la ospitano. Dopo anni di relativa ‘invisibilità’, l’oggetto architettonico sta riconquistando la scena, potenziando la propria immagine e re-inventadosi come monumento attorno al quale costruire identità e riconoscibilità. A tal fine l’architettura si confronta inevitabilmente con una serie di altre forme della visualità a cui contendere la scena: dal design alla moda, dalla pubblicità alla fotografia, dalle istallazioni alle performances, ambiti espressivi che proprio con la città spesso interagiscono direttamente.
È un fenomeno, questo, complesso e contraddittorio, anche perché viene alimentato da istanze non solo interne, ma anche eteronome e non sempre sane. Rem Koolhaas, ad esempio, afferma che oggi l’architettura, sospinta com’è dai potenti motori dell’economia e dalle logiche del profitto, spesso perde molto della sua ‘aura di bontà’.
Quale tipo di monumentalità è, allora, quella contemporanea e quale ruolo ha l’architettura all’interno dei paesaggi urbani contemporanei? Il monumento contemporaneo spesso non dialoga più con la città, che a sua volta non è più un corpo omogeneo; si impone ad essa, si fa spazio, conquista la scena, non più utilizzando la città come supporto,
ma cercando di emergere dall’eterogeneità confusa che la caratterizza. Nella realtà urbana delle città asiatiche, ad esempio, architetture totalmente autoreferenziali si contendono un territorio ormai snaturato e privo di identità; ogni architettura grida contro quella vicina, tentando di soverchiarla, senza che l’insieme – come ha scritto Vittorio Gregotti – raggiunga la grandezza del combattimento, ma solo quella sgangherata della competizione pubblicitaria.
Insomma, il rapporto architettura-città è oggi in crisi, vi è un’incompatibilità tra la parte e il tutto che è frutto della sempre più marcata difficoltà dell’architetto ad interpretare la complessità di contesti disomogenei, caotici, disgregati, ma anche, in parte, della mancanza di interesse per questo tipo di dialettica, che è letta come illusoria e fuori dalla portata dell’architettura.

V. Krinski, Tempio dell’incontro tra i popoli, 1919
F. O. Gehry, Museo Frederick R.Weismann,
Minneapolis, 1993

Paradossalmente, però, questo segno di debolezza diventa, nei casi migliori, un connotato di forza. Le architetture non presentano più, con modestia, un punto di vista relativo e parziale sul mondo, ma cercano di rappresentare il mondo stesso. Non sono più una parte del tutto, ma ci propongono un tutto compiuto, finito, autosufficiente.
Quelli che vediamo sorgere sempre più spesso nelle nostre città sono: o edifici intesi come piccole città, contenitori dal forte potere attrattivo, mondi labirintici costruiti attorno a percorsi e stratificazioni spaziali che tentano di riprodurre la complessità della metropoli e che già da fuori promettono esperienze estetiche e sensorie di grande intensità;
o edifici come grandi oggetti d’uso, ingigantiti in modo che l’uomo possa abitarci e navigarci dentro come in un ‘viaggio allucinante’.
Di fronte a edifici non edifici, a città o cucchiai che diventano manufatti da abitare, l’uomo perde la misura, vive in un mondo fuori scala, in cui non è più un fruitore, né tanto meno un semplice utilizzatore, ma diventa uno spettatore, meglio se stupefatto.
Infine, l’opera d’architettura che aspira ad imporsi come un monumento sceglie spesso, paradossalmente, nuovi linguaggi, mai uditi, meglio se non perfettamente comprensibili. Per incrementare la sua aura e il suo fascino, l’architettura gioca sulla sempre minore intelligibilità delle sue procedure. I mezzi, gli strumenti e i materiali dell’espressività contemporanea sono sempre più dominati dalla tecnologia e dall’informatica, le cui logiche intrinseche spesso invadono il campo dei significati oltre che quello dei significanti. La tecnologia e la tecnica costruttiva, che nella prima modernità spesso puntavano a manifestarsi, a esplicitare i processi costitutivi e costruttivi, oggi si celano o diventano ambigui, per colpire, incuriosire, stupire. L’architettura in questo senso si avvicina moltissimo al design dell’oggetto tecnologico che, da un lato, ha un’interfaccia friendly e accattivante e, dall’altro, un sub-strato assolutamente impenetrabile.

R. Koolhaas, Casa da Musica, Porto, 2004
A. Giacometti, Cubo, 1936

Oggi nel vedere molte architetture ‘straordinarie’ si rimane sinceramente stupefatti, tanto stupefatti da riuscire a chiedersi soltanto come si ottengano certi risultati, mai perché vengano ricercati. Il problema allora è fare in modo che questa sensazione di straniamento ridiventi coscienza e che una semplice strategia estetica ridiventi una ricerca,
magari con una vita più lunga della gestazione di un’opera.

1. Le prime riflessioni sul tema sono state raccolte nel libro L. Dall’Olio, Arte e Architettura.
Nuove corrispondenze, Torino, 1997.

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Archeoclub d’Italia
movimento di opinione pubblica
al servizio dei beni culturali e ambientali

 

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