Lo spirito della porta

Cos’è una porta? Un’apertura in un muro, difesa da uno o due battenti… Definizione povera, limitata alla verità fattuale. Oltre questa vi sono altre verità che trascendono la “cosa” porta per attingere aspetti assai più profondi e spirituali della medesima.
Nel suo senso più ovvio la porta è una cosa che attiene al passaggio da un fuori a un dentro e viceversa, sia per consentirlo sia per impedirlo. In ordine a questa destinazione primaria la porta si presenta antiteticamente come aperta o chiusa, includendo in sé l’idea dell’accoglienza e dell’esclusione. Una porta aperta è accoglienza offerta, invito, fiducia, disponibilità all’incontro, alla convivenza, alla compassione, alla solidarietà, alla festa. Una porta chiusa è, al contrario, rifiuto, diffidenza, precauzione, esclusione, paura, difesa, autosottrazione al dialogo. Con il progredire dell’autocoscienza e della cultura, e dunque della civiltà, l’uomo ha appreso infatti a rivestire le cose che lo circondano dei significati e dei valori cui egli suole annettere una speciale importanza per la sua vita. Così alla porta è demandato il compito di annunciare a prima vista, insieme con il rango sociale di chi abita la casa, anche la situazione contingente in cui versa la famiglia: festa o lutto (attraverso i parati), prosperità o decadenza (nello stato di conservazione), storia e possedimenti (araldica). Da questo punto di vista nessuna porta è sempre uguale a sé stessa, ma può essere dieci, cento porte in una. I cancelli di Auschwitz potevano evocare, in coloro che li varcavano, i terribili versi danteschi sulla “città dolente”, ma certamente coloro che ebbero in sorte di uscirne compresero come nessun altro cosa volesse dire tornare “a riveder le stelle”.

Nessuna porta è sempre uguale a sé stessa, ma può essere dieci, cento porte in una.
Giustamente alla porta sono stati riconosciuti innumerevoli riferimenti simbolici, secondo i luoghi e le culture, le tradizioni e gli usi sociali, gli stati d’animo e il grado di autoconsapevolezza. Simbolo della fede che invita a varcare la soglia della paura, per esplorare con fiducia le nuove possibilità che la vita e la grazia ci presentano, emuli dell’Ulisse dantesco e del coraggio di Saulo davanti all’orrore della cecità cui l’aveva costretto il fulgore della rivelazione ricevuta. La fede cristiana non poteva non appropriarsi di un tale simbolo e delle sue illimitate possibilità. Innanzitutto nel definire l’oggetto stesso della fede: è Cristo la porta dell’ovile (Gv 10,7-9) una porta per la quale devono passare quanti desiderano la salvezza (Clemente Alessandrino). Ai nostri giorni la sua grande epifania la porta- Cristo l’ha avuta con il Giubileo di fine millennio. A decine di milioni i fedeli l’hanno varcata, mossi chi dalla curiosità, chi da una fede profonda, chi dalle due cose insieme: in devoto o rispettoso omaggio alla tomba del pescatore di Galilea per impetrarvi il perdono di Colui che lo ha posto roccia su cui è fondata la Chiesa. Ora quella porta è chiusa e fa un certo effetto vederla così. Sembra una smentita all’amore che non pone scadenze alle sue manifestazioni. E’ solo un simbolo, certo, e altre porte resteranno aperte, a significare che il figlio prodigo può tornare in ogni momento e rientrare nella casa per la stessa porta per la quale è uscito. L’arte cristiana ha fatto della porta uno splendido esempio d’arte e di catechesi.

 

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