Eventi Storici – LASCIARSI PENETRARE DAL MISTERO INDICIBILE | ||||||
Saluto del Cardinale Arcivescovo agli architetti di nuove chiese in occasione del Convegno “Costruttori di Cattedrali” Agli Amici “Costruttori di Cattedrali” Mi è gradito offrire come augurio natalizio, il discorso che Sua Eminenza il Card. Carlo Maria Martini, Arcivescovo di Milano, ha rivolto ai partecipanti della Giornata di Riconoscenza e Riconoscimento del 7 novembre 1995.
Questo discorso di Sua Eminenza, che vi affido alla vigilia di Natale, vuol essere già una riproposta di meditazione, di preghiera e di augurio: per un Buon Natale 1995 e per sempre più chiese nuove verso il 2000. Con affetto. Mons. Giuseppe Arosio Uno straordinario impegno di generosità e di creatività Sono lieto di incontrarvi e soprattutto di esprimere la gratitudine mia e della Diocesi per l’immenso sforzo, che voi rappresentate, di cercare di spiegare il mondo, di materializzare il divino. Si tratta di un’impresa ciclopica di fronte alla quale ci sentiamo tutti inadeguati. Ma proprio per questo meritano lode e riconoscimento coloro che tale impresa hanno tentato. Ho pensato di iniziare il mio breve saluto con una citazione da un romanzo recente di Ken Follet dal titolo: “I pilastri della terra” (1989), un romanzo sui costruttori di cattedrali nell’Inghilterra del secolo XII. Uno di questi costruttori si avvia verso la città di Salisbury per cercare lavoro, incrocia un carro carico di pietre, aiuta il carrettiere a superare un pendio e poi gli domanda: “A che cosa servono le pietre?”. “Sono per la nuova cattedrale”, risponde il carrettiere. “Nuova? Ho sentito dire che ingrandiscono quella vecchia”. Il carrettiere annuisce: “E quello che dicevano tutti, dieci anni fa. Ma ormai è più nuova che vecchia”. Anche questa era un’ottima notizia per colui che cercava lavoro e allora egli domanda: “Chi è il mastro costruttore?”. “John di Shaftesbury”, risponde il carrettiere, “benché i progetti siano quasi tutti del Vescovo Roger”. L’autore del libro commenta: “Questo era normale. Era molto difficile che i Vescovi lasciassero i costruttori liberi di fare ciò che volevano. Uno dei problemi dei capomastri consisteva spesso nel calmare l’immaginazione scatenata degli ecclesiastici e porre un freno pratico alle loro fantasie”. Appare dunque dal romanzo che nel Medioevo i Vescovi erano quelli che avevano le fantasie spericolate sui progetti delle chiese, mentre gli architetti o i capomastri erano quelli che dovevano frenarle con il loro buon senso pratico. Pur se non avverto dentro di me la fantasia scatenata dei Vescovi medievali – di cui scrive Follet – vorrei semplicemente attestare la mia vivissima gratitudine per tutti coloro da voi rappresentati e che hanno collaborato con l’ingegno, l’arte, l’operosità a dotare la Diocesi di Milano di numerosissime nuove chiese negli ultimi cinquant’anni, dalla fine della guerra ad oggi. é stato davvero uno sforzo enorme per la comunità diocesana, che ha cercato così di rispondere alla sfida, parimenti enorme, delle immigrazioni e dei nuovi insediamenti. Ed è stato uno straordinario impegno di generosità e insieme di creatività o di genialità. Voglio perciò dare atto al coraggio, allo spirito di sacrificio, alla buona volontà, all’intelligenza e alle doti artistiche di quanti vi hanno preso parte. Qualcuno mi ha chiesto: Lei che ha visitato tantissime chiese nei suoi sedici anni di episcopato e ha consacrato personalmente molti dei nuovi templi costruiti in questo ventennio, quali chiese trova più riuscite? Quali indicherebbe come esemplari? Comunque non farò l’elenco di chiese preferite, per motivi ovvi, ma mi limiterò a dire qualcosa su una domanda postami per scritto da Monsignor Giuseppe Arosio, grandissimo e instancabile promotore di nuove chiese, e poi concluderò con qualche osservazione pratica che mi viene dall’esperienza della celebrazione nelle mille e più chiese in Diocesi. L’architettura traduce la teologia e l’ecclesiologia di un’epoca? La domanda di Monsignor Arosio suona così: Domanda ardua e impegnativa, a cui non è lecito dare risposte facili. Risposta facile e scontata sarebbe, per esempio, che una chiesa di domani non potrà prescindere né dal Vaticano IT, né dalla crescita del senso di comunione nella Chiesa, di partecipazione attiva di tutti nell’Eucaristia, né da un rinnovato senso della centralità di Cristo nella liturgia, né da un’attenzione ai poveri, ai malati, agli emarginati, agli esclusi, né da un diffuso senso di mondialità e da considerazioni ecumeniche. Risposte tanto ovvie non bastano a definire stili costruttivi. Bisognerebbe allora percorrere una via più lunga, che però andrebbe vagliata e criticata fin nelle sue premesse: Ritengo perciò necessario tenere presenti due realtà concomitanti: Certo è difficile per i contemporanei individuare quali siano i movimenti spirituali e quali di essi siano duraturi e capaci di influenzare le espressioni artistiche. E sempre la storia successiva che sa riconoscere e delimitare movimenti e periodi, che ne legge a posteriori le caratteristiche; per i contemporanei si trattava piuttosto di esperienze in divenire in cui era quasi impossibile discernere tra le cose effimere, caduche e quelle che avrebbero tenuto e fatto epoca.
Alcuni desiderata pratici e alcuni auspici In conclusione, vorrei comunicare alcuni desiderata pratici e alcuni auspici, notando che le cose essenziali sono già scritte molto bene nell’ultimo Documento della C.E.I. sulla costruzione di chiese, di cui don Giancarlo Santi potrà riferire meglio di me. Da parte mia, desidero dirvi l’esperienza di un Vescovo che celebra la liturgia eucaristica in chiese zeppe di gente. 1. – Chi progetta una chiesa dovrebbe anzitutto ricordare che essa è un edificio in cui una grande assemblea ha diritto di trovarsi a suo agio. Tra le prime necessità segnalo dunque quella del respiro: chi non respira a proprio agio fa fatica a pregare con raccoglimento. 2. – Una seconda necessità primaria è quella di vedere bene e di sentire bene. Posso affermare che il “vedere” è stato tenuto di solito presente nelle costruzioni a un unico vano, dove l’altare occupa una posizione centrale e ben visibile (questa caratteristica del vedere bene era stata dimenticata nelle meravigliose chiese di Spagna – penso alla Cattedrale di Toledo – in cui l’esercizio del Coro impediva totalmente alla gente la vista dell’altare). 3. – Un’altra indicazione importante riguarda la simbologia delle forme architettoniche. Più di una volta, entrando in una nuova chiesa, mi sono stati spiegati tutti i particolari. Ma i simboli non sono da “spiegare”, bensì da intuire. La simbologia degli spazi e, in genere, delle forme architettoniche, deve essere percepibile con gli occhi e con il respiro, deve lasciare con la bocca aperta. Rimango davvero perplesso quando i simboli vengono spiegati perché sono convinto che non sono riducibili alla logica delle spiegazioni, ma devono essere perspicui, devono essere più goduti che capiti, devono parlare non solo a prima vista, ma nutrire per anni le lunghe soste e frequentazioni dell’edificio sacro. Dunque, la simbologia degli spazi non dev’essere oggetto di consumo, ma nutrimento spirituale permanente, fonte zampillante di senso. 4. – Anche i colori parlano, la luce e i colori. Forse io sono troppo sensibile ai colori; sta di fatto che ammiro le civiltà africane che non possono far niente senza i colori. 5. – Infine, accenno alle icone, alle rappresentazioni figurative che non sono soltanto simboliche e astratte. Basta pensare a come la tradizione bizantina e poi russa ha puntato sull’icona; il fascino delle grandi chiese di Mosca, di San Pietroburgo e di altre città viene proprio dal fatto che hanno un’architettura arricchita dalla molteplicità delle icone – a loro volta piene di stupendi colori – dal significato delle immagini evocate. Conclusione Vi ho espresso riflessioni spicciole e senza pretese. Ho voluto offrirvele per attestarvi la profonda comunione di spirito con chi soffre per modellare gli spazi così da renderli accoglienti e ispiratori per una comunità in preghiera. Condivido la vostra sofferenza simile alle doglie di un parto quasi impossibile, perché io stesso la vivo per edificare quel tempio spirituale, non materiale, che è la comunità, il popolo di Dio. Mi auguro che il prossimo secolo e il prossimo millennio, rileggendo le nostre chiese, vi trovino quell’ispirazione che noi abbiamo oggi riscoperto nelle chiese di secoli remoti e ricevano da noi quel supplemento d’anima che, a nostra volta, abbiamo ricevuto dalla tradizione e dalle grandi chiese del passato. Card. Carlo Maria Martini |