LASCIARSI PENETRARE DAL MISTERO INDICIBILE

Eventi Storici – LASCIARSI PENETRARE DAL MISTERO INDICIBILE

Saluto del Cardinale Arcivescovo agli architetti di nuove chiese in occasione del Convegno “Costruttori di Cattedrali”
Milano, 7 novembre 1995

Agli Amici “Costruttori di Cattedrali”

Mi è gradito offrire come augurio natalizio, il discorso che Sua Eminenza il Card. Carlo Maria Martini, Arcivescovo di Milano, ha rivolto ai partecipanti della Giornata di Riconoscenza e Riconoscimento del 7 novembre 1995.
Con questo intervento dei Cardinale, il Convegno che voleva essere un momento di riflessione sui 50 anni di Architettura Religiosa sulla Diocesi di Milano, dal 1945 al 1995, ha assunto una più vasta dimensione proiettandosi anche nel futuro.
“I Costruttori di Cattedrali” non sono appena un ricordo del medioevo, ma diventano un ideale del presente. Tra tutti gli edifici, le cattedrali, le chiese, sono quelle che superano maggiormente il tempo, le epoche e le mode. Tutto questo avviene non tanto per i materiali costruttivi, ma per la finalità cui sono chiamate le nostre chiese.
Quanti hanno collaborato alla loro edificazione, sia col progetto pastorale che con quello architettonico, con i calcoli delle strutture e lo studio degli impianti, con l’arte edile e con la fatica delle braccia, hanno svolto e realizzano una missione: annunciare nella città, tra le case degli uomini, la vicinanza e la presenza di Dio, ricordandone la misericordia e la bontà rivelata in Gesù Cristo.
Il Convegno ha così visto, non solo premiazione con un attestato, di architetti, ingegneri, costruttori e collaboratori tecnici ed artistici, ma si è fatto anche preghiera significata al momento con una orazione, annunciata per il futuro con altre giornate di riflessione e meditazione.

Card. Carlo Maria Martini

Questo discorso di Sua Eminenza, che vi affido alla vigilia di Natale, vuol essere già una riproposta di meditazione, di preghiera e di augurio:

per un Buon Natale 1995 e per sempre più chiese nuove verso il 2000.

Con affetto.

Mons. Giuseppe Arosio
Responsabile Ufficio Nuove Chiese

Uno straordinario impegno di generosità e di creatività

Sono lieto di incontrarvi e soprattutto di esprimere la gratitudine mia e della Diocesi per l’immenso sforzo, che voi rappresentate, di cercare di spiegare il mondo, di materializzare il divino. Si tratta di un’impresa ciclopica di fronte alla quale ci sentiamo tutti inadeguati. Ma proprio per questo meritano lode e riconoscimento coloro che tale impresa hanno tentato. 

Ho pensato di iniziare il mio breve saluto con una citazione da un romanzo recente di Ken Follet dal titolo: “I pilastri della terra” (1989), un romanzo sui costruttori di cattedrali nell’Inghilterra del secolo XII. Uno di questi costruttori si avvia verso la città di Salisbury per cercare lavoro, incrocia un carro carico di pietre, aiuta il carrettiere a superare un pendio e poi gli domanda: “A che cosa servono le pietre?”. “Sono per la nuova cattedrale”, risponde il carrettiere. “Nuova? Ho sentito dire che ingrandiscono quella vecchia”. Il carrettiere annuisce: “E quello che dicevano tutti, dieci anni fa. Ma ormai è più nuova che vecchia”. Anche questa era un’ottima notizia per colui che cercava lavoro e allora egli domanda: “Chi è il mastro costruttore?”. “John di Shaftesbury”, risponde il carrettiere, “benché i progetti siano quasi tutti del Vescovo Roger”. L’autore del libro commenta: “Questo era normale. Era molto difficile che i Vescovi lasciassero i costruttori liberi di fare ciò che volevano. Uno dei problemi dei capomastri consisteva spesso nel calmare l’immaginazione scatenata degli ecclesiastici e porre un freno pratico alle loro fantasie”. 

Appare dunque dal romanzo che nel Medioevo i Vescovi erano quelli che avevano le fantasie spericolate sui progetti delle chiese, mentre gli architetti o i capomastri erano quelli che dovevano frenarle con il loro buon senso pratico.
Oggi, a mio avviso, la situazione è un po’ mutata. I Vescovi, i parroci, gli ecclesiastici sono quelli che pongono limiti alla fantasia degli architetti e la richiamano continuamente agli usi pratici cui deve servire una chiesa e le sue adiacenze, ai bisogni concreti della manutenzione.
In ogni caso, qualunque sia il gioco delle parti nel Medioevo, esiste ancora un gioco delle parti, cioè una tensione, nel costruire una chiesa, tra le aspirazioni ideali che vorrebbero esprimere ardimenti spaziali, e le necessità pratiche di uno spazio agevole per una comunità concreta: comunità che deve respirare, vedere da ogni parte l’altare, il luogo della parola, ascoltare senza sforzo, stare in uno spazio raccolto e propizio alla preghiera e all’adorazione.

Pur se non avverto dentro di me la fantasia scatenata dei Vescovi medievali – di cui scrive Follet – vorrei semplicemente attestare la mia vivissima gratitudine per tutti coloro da voi rappresentati e che hanno collaborato con l’ingegno, l’arte, l’operosità a dotare la Diocesi di Milano di numerosissime nuove chiese negli ultimi cinquant’anni, dalla fine della guerra ad oggi. é stato davvero uno sforzo enorme per la comunità diocesana, che ha cercato così di rispondere alla sfida, parimenti enorme, delle immigrazioni e dei nuovi insediamenti. Ed è stato uno straordinario impegno di generosità e insieme di creatività o di genialità. Voglio perciò dare atto al coraggio, allo spirito di sacrificio, alla buona volontà, all’intelligenza e alle doti artistiche di quanti vi hanno preso parte.
Ne do atto pure a nome dei miei predecessori che, per così dire, si sono fatti in quattro per rispondere al bisogno di chiese nuove: penso al Cardinale Ildefonso Schuster – il 12 maggio verrà proclamato beato – che ha affrontato la ricostruzione dopo la guerra dotando le comunità di nuove chiese in anni difficilissimi per l’economia e per il problema sociale del tempo; penso al Cardinale Giovanni Battista Montini a cui dobbiamo l’iniziativa di costruire ventidue chiese e al quale abbiamo voluto intitolare il nostro Piano detto, appunto, “Montini”; penso al Cardinale Giovanni Colombo che ha dato vita ad altre nuove chiese, chiese di cui nel mio ministero episcopale ho celebrato la dedicazione. Essi non si sono tirati indietro di fronte a mille difficoltà, pur di procurare alla gente luoghi di preghiera e anche di identificazione sociale, specialmente nei deserti delle nuove periferie.

Qualcuno mi ha chiesto: Lei che ha visitato tantissime chiese nei suoi sedici anni di episcopato e ha consacrato personalmente molti dei nuovi templi costruiti in questo ventennio, quali chiese trova più riuscite? Quali indicherebbe come esemplari?
vero che ho visitato, e più di una volta, tutte le chiese della diocesi; è vero che ne ho consacrate più di cento, ma confesso di aver trovato difficoltà nel dare la risposta sia per l’imbarazzo della scelta, sia perché non si può affermare quali di queste realizzazioni saranno, coi tempo, considerate come le più significative. Il tempo, infatti, soprattutto nella storia dell’arte, ridimensiona molte cose, fa scoprire tesori prima non apprezzati e fa sbiadire opere che sembravano dover sfidare i secoli. Accade pure che una comunità dopo aver accettato con diffidenza una certa architettura di una chiesa nuova, a poco a poco vi si affeziona e finisce per considerarla un classico.

Comunque non farò l’elenco di chiese preferite, per motivi ovvi, ma mi limiterò a dire qualcosa su una domanda postami per scritto da Monsignor Giuseppe Arosio, grandissimo e instancabile promotore di nuove chiese, e poi concluderò con qualche osservazione pratica che mi viene dall’esperienza della celebrazione nelle mille e più chiese in Diocesi.

L’architettura traduce la teologia e l’ecclesiologia di un’epoca?

La domanda di Monsignor Arosio suona così:
“Poiché l’architettura è il riflesso della cultura e, in particolare, l’architettura religiosa traduce la teologia, l’ecclesiologia di una epoca (vedi il romanico, la controriforma ecc.), quale ecclesiologia, quale messaggio per gli architetti di oggi e del 2000 che dovessero accingersi a progettare una chiesa, un centro parrocchiale?”.

Domanda ardua e impegnativa, a cui non è lecito dare risposte facili. Risposta facile e scontata sarebbe, per esempio, che una chiesa di domani non potrà prescindere né dal Vaticano IT, né dalla crescita del senso di comunione nella Chiesa, di partecipazione attiva di tutti nell’Eucaristia, né da un rinnovato senso della centralità di Cristo nella liturgia, né da un’attenzione ai poveri, ai malati, agli emarginati, agli esclusi, né da un diffuso senso di mondialità e da considerazioni ecumeniche. Risposte tanto ovvie non bastano a definire stili costruttivi.

Bisognerebbe allora percorrere una via più lunga, che però andrebbe vagliata e criticata fin nelle sue premesse:
è tanto vero che l’architettura “traduce” la teologia, l’ecclesiologia di un’epoca? Non è forse solo a posteriori che si riconosce come certe epoche particolarmente ricche di fermenti spirituali li hanno espressi quasi per connaturalità nelle diverse forme culturali, tra cui l’architettura, l’arte, la teologia?
Sono diffidente delle elaborazioni teoriche. Ciò che sta dietro alle forme espressive è a mio avviso, non una teologia astratta, ma una forte tensione spirituale che si trova espressa ben più nei santi e nei grandi leaders religiosi e sociali che nei libri dei teologi; a meno che i teologi non siano, come nel caso di Tommaso d’Aquino, grandi santi del loro tempo.

Ritengo perciò necessario tenere presenti due realtà concomitanti:
– i grandi movimenti spirituali di un’epoca con le grandi figure che li esprimono o li suscitano;
– e lo stretto legame che deve intercorrere tra questi movimenti spirituali e coloro che progettano chiese, monumenti e città.

Certo è difficile per i contemporanei individuare quali siano i movimenti spirituali e quali di essi siano duraturi e capaci di influenzare le espressioni artistiche. E sempre la storia successiva che sa riconoscere e delimitare movimenti e periodi, che ne legge a posteriori le caratteristiche; per i contemporanei si trattava piuttosto di esperienze in divenire in cui era quasi impossibile discernere tra le cose effimere, caduche e quelle che avrebbero tenuto e fatto epoca.
A noi tocca giocarci dentro al meglio, ma rischiando, scommettendo sul giudizio della storia futura. A posteriori, per esempio, è evidente il legame tra il carisma cisterciense e le chiese cisterciensi, tra il carisma francescano e le chiese nate nell’onda di tale movimento, tra lo spirito ardente di Carlo Borromeo e le costruzioni da lui ispirate.
è quindi tutto da affidare, alla fine, all’azione dello Spirito Santo e però posso concludere che quanto più gli architetti e gli ideatori di chiese in genere sono permeati da una forte spiritualità o partecipano a realtà forti di Chiesa e di società, tanto più potranno esprimere nelle loro opere le caratteristiche non postulate o fittizie, ma autentiche e durature di un’epoca.
E ciò che auguro ai costruttori di chiese del futuro.

Da s
inistra a destra: Mons. Giuseppe Arosio, Card. Carlo Maria Martini, Arch. Giuseppe Maria Jonghi Lavarini, – , Arch. Don Giancarlo Santi, – .

Alcuni desiderata pratici e alcuni auspici

In conclusione, vorrei comunicare alcuni desiderata pratici e alcuni auspici, notando che le cose essenziali sono già scritte molto bene nell’ultimo Documento della C.E.I. sulla costruzione di chiese, di cui don Giancarlo Santi potrà riferire meglio di me. Da parte mia, desidero dirvi l’esperienza di un Vescovo che celebra la liturgia eucaristica in chiese zeppe di gente.

1. – Chi progetta una chiesa dovrebbe anzitutto ricordare che essa è un edificio in cui una grande assemblea ha diritto di trovarsi a suo agio. Tra le prime necessità segnalo dunque quella del respiro: chi non respira a proprio agio fa fatica a pregare con raccoglimento.
Mi è accaduto non di rado di notare in chiese nuove mancanza di aria, di ventilazione, di notare calore eccessivo. Durante la consacrazione di una chiesa, per esempio, i numerosissimi fedeli erano costretti a usare come ventaglio i foglietti della Messa.
Nelle chiese antiche, l’altezza e le dimensioni vaste provvedevano spontaneamente a questo primario bisogno; nelle chiese moderne, dalla volta più bassa, occorre pensare a fondo per provvedere ad una ventilazione naturale o artificiale, calcolando nei costi anche quelli derivanti dalla ventilazione artificiale. Senza tale requisito, la chiesa può essere bella e però non abitabile.
D’altra parte, lo Spirito Santo è “soffio” e le chiese dovrebbero dare l’idea di questo respiro cosmico, perché una chiesa parla ai sensi del corpo, non all’intelligenza.

2. – Una seconda necessità primaria è quella di vedere bene e di sentire bene. Posso affermare che il “vedere” è stato tenuto di solito presente nelle costruzioni a un unico vano, dove l’altare occupa una posizione centrale e ben visibile (questa caratteristica del vedere bene era stata dimenticata nelle meravigliose chiese di Spagna – penso alla Cattedrale di Toledo – in cui l’esercizio del Coro impediva totalmente alla gente la vista dell’altare).
Tuttavia non posso dire altrettanto per il luogo della proclamazione della Parola che pure dev’essere ben visibile e degno della sua funzione. Non di rado mi sono trovato a dover predicare dall’altare perché il cosiddetto ambone risultava nascosto all’assemblea. Più spesso ancora ho notato che l’ambone o il pulpito è stato ricavato un po’ secondariamente, in maniera quasi posticcia, quando non era addirittura un piccolo leggio mobile.
Mi sembra questa un’offesa alla dignità della Parola, alla quale compete un ruolo assai importante nella celebrazione liturgica. Chi predica dall’ambone deve poter contare su uno spazio ampio, in cui si possano collocare comodamente il libro delle letture, i fogli per gli appunti dell’omelia, onde impedire che volino per la chiesa, e anche gli occhiali per chi ne avesse bisogno. Occorre insomma che sia un luogo davvero comodo per parlare, farsi vedere, farsi sentire, per appoggiarsi solidamente così da esprimere con maggiore forza il proprio discorso. Un luogo spazioso, perspicuo, che metta il lettore e il predicatore a loro agio e disponga la gente all’ascolto.

3. – Un’altra indicazione importante riguarda la simbologia delle forme architettoniche. Più di una volta, entrando in una nuova chiesa, mi sono stati spiegati tutti i particolari. Ma i simboli non sono da “spiegare”, bensì da intuire. La simbologia degli spazi e, in genere, delle forme architettoniche, deve essere percepibile con gli occhi e con il respiro, deve lasciare con la bocca aperta. Rimango davvero perplesso quando i simboli vengono spiegati perché sono convinto che non sono riducibili alla logica delle spiegazioni, ma devono essere perspicui, devono essere più goduti che capiti, devono parlare non solo a prima vista, ma nutrire per anni le lunghe soste e frequentazioni dell’edificio sacro. Dunque, la simbologia degli spazi non dev’essere oggetto di consumo, ma nutrimento spirituale permanente, fonte zampillante di senso.

4. – Anche i colori parlano, la luce e i colori. Forse io sono troppo sensibile ai colori; sta di fatto che ammiro le civiltà africane che non possono far niente senza i colori.
In proposito noto da noi un’ascesi che mi sembra eccessiva. è vero che talora si lascia il compito alle vetrate, ai quadri o agli affreschi. Però è necessario che tutto concorra alla luminosità e gioia dell’insieme, fin dal principio, senza che si debbano attendere interventi troppo tardivi. Spesso sento ripetere dalla gente la parola “freddezza”, proprio perché manca il calore dei colori.

5. – Infine, accenno alle icone, alle rappresentazioni figurative che non sono soltanto simboliche e astratte. Basta pensare a come la tradizione bizantina e poi russa ha puntato sull’icona; il fascino delle grandi chiese di Mosca, di San Pietroburgo e di altre città viene proprio dal fatto che hanno un’architettura arricchita dalla molteplicità delle icone – a loro volta piene di stupendi colori – dal significato delle immagini evocate.
Pure a questo riguardo, noi ci siamo lasciati prendere da un eccessivo ascetismo, forse per reazione a forme decadenti del passato. Non è prescritto da nessuna parte che non vi debbano essere rappresentazioni figurative o che debbano essere solo di tipo astratto. Una contemplazione attenta delle icone orientali ci aiuterà a ispirarci per le chiese del futuro. In ogni caso si tratta, come per chi scrive un’icona, di lasciarsi penetrare dal mistero indicibile per tradurre poi, nelle forme, nei colori e nelle immagini quel soffio che nessun contenitore umano può esaurire.

Conclusione

Vi ho espresso riflessioni spicciole e senza pretese. Ho voluto offrirvele per attestarvi la profonda comunione di spirito con chi soffre per modellare gli spazi così da renderli accoglienti e ispiratori per una comunità in preghiera. Condivido la vostra sofferenza simile alle doglie di un parto quasi impossibile, perché io stesso la vivo per edificare quel tempio spirituale, non materiale, che è la comunità, il popolo di Dio. 

Mi auguro che il prossimo secolo e il prossimo millennio, rileggendo le nostre chiese, vi trovino quell’ispirazione che noi abbiamo oggi riscoperto nelle chiese di secoli remoti e ricevano da noi quel supplemento d’anima che, a nostra volta, abbiamo ricevuto dalla tradizione e dalle grandi chiese del passato.

Card. Carlo Maria Martini
Arcivescovo di Milano

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