L’ARCHITETTURA COME RECUPERO DELLA MEMORIA

Mai smetterà questa terrestre sopraffazione del moto ?
Soltanto lo sguardo rivolto all’indietro porta avanti…
Novalis, Inni alla notte
Ciò che vi è da conquistare
con la forza e con l’umiltà è stato già scoperto
Una o due volte, o diverse volte, da uomini che non
si può sperare
di emulare – non c’è concorrenza –
C’è solo la lotta per ritrovare ciò che è stato perduto
e trovato di nuovo innumerevoli volte.
Thomas Eliot, Quattro Quartetti (1940)

Progettare un luogo sacro è, come si può ben comprendere, impresa complessa e di difficile realizzazione.
Sia esso una semplice cappella posta in un trivio, là dove si incontrano le strade e si riposa il viandante, asciugandosi il sudore e innalzando gli occhi al cielo, dopo averli sostati sull’immagine sacra. Sia un tempio espiatorio o un sacrario destinato a conservare la memoria di vittime della violenza del mondo.
Sia un complesso religioso di più ampia costituzione destinato, come quello che ci apprestiamo a commentare, a un tessuto urbano di recente formazione.
Anche in questo caso, a Frosinone, compare ciò che è stata definita la città diffusa. Caratterizzata dalla sua orizzontalità uniforme, piatta; priva di elementi in grado di evocare le situazioni di centralità tipiche delle antiche contrade italiane, con il campanile e la torre del comune. Praticamente senza architetture capaci di esemplificare il tessuto urbano. Senza la dialettica tra i vuoti e i pieni. Siamo, infatti, come troppe parti d’Italia, in un territorio indistinto, amorfo, che confonde e rende incerti, sbandati. Non ci sono più punti di riferimento, gerarchie pensate per attrarre l’occhio e costituire riferimenti visivi. Se si osserva però l’intervento in questione scopriamo immediatamente la sua vocazione religiosa, l’apparire e il manifestarsi di una sorta di cittadella sacra, che soccorre e conforta. La suggestione iniziale scaturisce dal volume cilindrico con il basamento di pietra quella stessa su cui Pietro fonda la propria chiesa – mentre il corpo in elevazione cresce nell’intonaco bianco e accanto si innalza la ferrosa presenza del campanile.Quel corpo circolare è pensato per accogliere l’incontro tra la divinità e il popolo dei credenti, per la celebrazione dei diversi riti che accompagnano la vita dell’uomo che, in quanto è uomo, per dirlo con Eraclito, abita nella vicinanza di Dio.
Alludiamo ai numerosi riti che scandiscono la sua vita e vanno dalla nascita all’estremo abbraccio, nel momento della dipartita.
Il cilindro, più che un omaggio alle numerose chiese dalla stessa forma realizzate dal ticinese Mario Botta, richiama alla memoria gli antichi martiryon, i sepolcri dei martiri negli anni in cui la fede cristiana inizia a muovere i primi passi.
In questo caso sembra dilatarsi nel sagrato, spazio di decantazione tra il sacro e il profano, piazza irregolare e dinamica, che vuole suscitare tensione e richiamare l’attenzione. Infatti qui si incontrano i fedeli prima e dopo la funzione e rinnovano l’antico rito del saluto, guardandosi negli occhi e riconoscendosi come appartenenti a una stessa comunità.
Continuando nella nostra esplorazione troviamo l’auditorio, a delimitare con gli altri volumi che compongono la cittadella religiosa lo spazio aperto della piazza. Il volume vetrato, vestito in questo modo per far scomparire il divario tra esterno e interno e per distinguere la diversità di funzioni, è pensato per sollecitare e accogliere le attività culturali perché Danilo Lisi, l’autore, è ben consapevole che «ogni vuoto progettuale viene comunque riempito, in base a una perversa variante della legge di Gresham, per cui la cultura superficiale finisce, di norma, per cacciare la cultura più profonda16». Ma anche quelle ricreative della comunità stessa, gli incontri, le feste, i momenti di confronto e di dialogo per migliorare la città e il quartiere. Compaiono poi, sotto il portico accogliente che protegge dalle intemperie in inverno e dal caldo soffocante d’estate, gli ambienti per la funzione pastorale e la residenza stessa del parroco.Realizzare un impianto del genere non è opera di poco conto perché attesta la «capacità di conciliare la ricerca del nuovo con la tradizione, introducendo nelle strutture quelle componenti simbolico-numerologiche che furono proprie, più di quanto non si creda, della grande architettura del Rinascimento17».
L’autore dimostra anche di sapere realizzare interventi in cui si nota la «chiarezza dei volumi, il nitore degli spazi “commisurati” l’uno con l’altro, in un limpido scambio tra i pieni e i vuoti, tra spazi chiusi e invece aperti, con la capacità di proiettare  armonicamente nel sagrato le proporzioni e il respiro dell’aula. Infine, il basilare dialogo tra le forme curve e rettilinee, tra circolo e quadrato, che sviluppa l’alfabeto del classicismo in una intuizione plastica e volumetrica moderna18». Compiere un’opera siffatta rappresenta il compito più elevato che si richiede a un progettista che, smessi gli abiti del quotidiano, allontanata la mente dai comuni affanni, inizia a esplorare quella sorta di verticalità insondabile dalla quale scaturisce l’identità più profonda e reale di ciò che si appresta a realizzare.
La prima domanda che nasce spontaneo porsi è: con chi dialoga il progettista?
E ancora prima del confronto delle idee che non può che essere con la committenza, madre e fattrice dell’opera: da dove scaturisce il primo input che produce l’ipotesi del tempio, quei segni sulla carta che vengono tracciati come ipotesi del nascituro complesso?
Mircea Eliade, il noto erudito storico delle religioni ritiene che: «la santità del Tempio si trova al riparo di ogni corruzione terrestre, e ciò per il fatto che il progetto architettonico del Tempio è opera divina, quindi si trova vicino agli dei, in Cielo. I modelli trascendenti dei Templi beneficiano di un’esistenza spirituale, incorruttibile, celeste. Per grazia divina, l’uomo è ammesso alla visione folgorante di questi modelli, sforzandosi poi di riprodurli sulla Terra19».
Leggendo lentamente queste considerazioni comprendiamo che esiste in loro una verità profonda, ancora più vera nel momento in cui, per dirlo con Lorenzo Giacomini, «il mondo del mortale, del profano è alla fine, e sta svanendo come una manciata di frammenti senza senso: l’immortale, il sacro gli offre un mondo nuovo, che poi è il suo stesso mondo trasfigurato da una luce suprema, che lo fa apparire in un alone di bellezza e verità assoluta20».
Il secondo input che possiamo notare in questa realizzazione è quello che scaturisce dal rapporto con il luogo.Il progettista è ben consapevole che fare dell’architettura significa visualizzare il genius loci e che il compito dell’architetto è quello di creare luoghi significativi per aiutare l’uomo ad abitare21. Dal luogo l’architettura può trarre l’identità più profonda «quella che dona letteralmente la parola, parola che nasce da ciò che i greci e Plutarco chiamano pneuma, cioè soffio, esalazione, respiro e dunque spirito della Terra: nient’altro che questo era ciò che gli antichi chiamavano genius loci, spirito del luogo22».
Il nostro ragionamento non può che continuare interrogandosi quindi sulla qualità estetica di questa architettura consapevoli che l’estetica si occupa di tutto ciò che precede l’atto conoscitivo, in quella forma particolarmente organizzata che chiamiamo scienza: in breve, l’estetica precede la conoscenza in senso stretto, ma proprio per questo è fondamentale per la conoscenza, possiede anche un forte valore gnoseologico e – come sostiene Norberg-Schulz – non può essere ridotta a semplice «educazione estetica», non può essere considerata «un supplemento nello sviluppo della conoscenza23».
Kisho Kurokava ha sostenuto che la trasformazione essenziale che è in atto nell’età postmoderna può essere
descritta come un passaggio «dall’epistemologia all’ontologia (…) Mentre la domanda “che cosa è l’architettura?” è una domanda epistemologica, che interroga sul giusto ordine dell’ente architettonico (sulla sua vera e unica immagine, ideale e universale) l’ontologia pone la domanda “qual è il significato dell’architettura ?” Intesa in questo senso, l’ontologia rimanda alla semantica. Ontologia e semantica non cercano l’unico vero ordine (l’ideale di architettura) nella forma dell’International Style universalmente applicabile, ma ricercano invece l’evocazione del significato in architettura».
Entrambe non concepiscono l’esistenza di una sola vera immagine ideale o di architettura ideale che esiste come una verità che trascende il tempo e la storia, trascendente le differenze tra tutte le differenti culture del nostro mondo. Al contrario, «sono le differenze che nascono nel corso del tempo e della storia che producono significato. Dal punto di vista epistemologico del Modernismo che chiede “cos’è l’architettura?”, la verità era data a priori e il problema era come attingere questa verità attraverso il potere della ragione (…). Dal momento in cui non c’è più l’unica vera architettura ideale, l’unico vero ordine, l’architettura non esprime più un unico sistema di valori.È un agglomerato di molti differenti sistemi di valori, ovvero un ordine che comprende molti elementi eterogenei». «Come ci lascia immaginare la domanda ontologica “qual è il significato dell’architettura?”, l’architettura sarà teatro dell’evocazione di una molteplicità di risultati.
La collisione di culture differenti, cioè l’effetto di un rumore generato dall’introduzione di culture differenti, crea una nuova cultura, che consiste nella scoperta e nell’evocazione di significato per mezzo della nostra sensibilità alle differenze. Nell’ambito dell’architettura, la manipolazione consapevole di elementi differenti appartenenti a culture differenti è un mezzo per evocare significato mediante differenza e divergenza, cosa fondamentalmente diversa da una semplice ibridazione24».
Riteniamo che sia anche questo il contributo che il nostro progettista abbia portato al confronto in atto.

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