La stanza del liturgista

La Stanza del Liturgista

«Si può ancora dire qualcosa sul sagrato dopo tutto ciò che è stato già scritto? Forse sì. Si può trovare qualcosa di nuovo o di già detto che però merita, o attende, d’essere detto di nuovo. È quello che mi propongo e che mi auguro di riuscire a fare con questa passeggiata nell’immaginazione». L’intervento del liturgista Don Antonio Santantoni.

"Nel clamore spesso disordinato della città,
abbiamo bisogno di trovare uno spazio
riservato, discreto e amico. Per pregare,
o anche semplicemente per sostare."
Prof. Don Antonio Santantoni

Cerco d’immaginarmi abitante di una grande città in un qualunque pomeriggio d’una qualunque domenica: palazzoni
a non finire, molto spesso anonimi, popolari nel senso normale o anche peggiore del termine.
Alveari, formicai umani. Senza verde attorno, con i piedi, appena esco di casa, sulla strada, i marciapiedi spesso stretti, affollati, non di rado, o anche quasi sempre, sporchi di carte e di cani. Traffico abbastanza intenso, rumoroso, aria pesante per i fumi di scarico e le vampate di aria calda, carica dei vapori degli scantinati e delle cucine esalanti odori intensi e sgradevoli da immense grate sul marciapiede; urti dei passanti che camminano…
Finalmente sono arrivato. Alla Chiesa. Una piazzetta, un modesto sagrato, qualche macchina con il muso o almeno
una ruota sul basso gradino che lo sopraeleva dal piano stradale. Un mendicante. Evitarlo o dargli qualcosa? Oggi mi sento generoso. Entro. Finalmente! Mi siedo. Mi guardo attorno. Non c’è molta gente. Mi raccolgo un pochino. Dico un padrenostro. Prima che sia all’amen, il prete sale all’altare. Nel nome del Padre…. Il Signore sia con voi. Eh sì, speriamo
davvero, ma oggi sono distratto e forse nervoso. Farò quello che posso. Un attacco letterario per avviare un breve discorso sul sagrato? Mi è sembrato l’approccio giusto per una riflessione che vuole prescindere dalle categorie
teologico-liturgico-pastorali di un annesso importante, esterno ma non estraneo alla chiesa. Il sagrato può ambire ad essere molto più di una semplice zona di rispetto prima della porta della chiesa, una specie di atrio all’aperto della chiesa, ma può aprirsi a simbologie più suggestive e profonde, che lo possono aprire anche a morfologie solo
all’apparenza sorprendenti. Tornando all’immagine d’apertura dell’articolo, se mi domando cos’è che a quell’uomo che s’affretta sulla strada verso la chiesa potrebbe risultare più gradito una volta arrivato a destinazione, mi viene
spontaneo pensare che certo non gli sarebbe sgradito trovare ad accoglierlo un luogo diverso, anzi completamente altro dal caotico e in fondo squallido paesaggio attraversato fin lì. Completamente altro. Ecco proprio questo. Un
francobollo di mondo finalmente umano, vivibile, dove volentieri si vada, volentieri si entri, volentieri si resti e a malincuore se ne esca. Dove tutto ciò che si trova, si vede, si sente e si tocca ci parli di un’altra realtà, d’un altro
ordine e d’un’altra scala di valori. Dove si respiri la pace, la serenità, il bello nelle sue forme più semplici e povere, più pure e più vere. Un hortus conclusus: chiuso alla volgarità del quotidiano ma non all’uomo: chiuso, certo, ma d’una chiusura che non esclude ma protegge, riferimento simbolico all’alterità di quello spazio. Che sia un muretto o una siepe a dividere non importa; e poi alberi per l’ombra, panchine per la sosta, aiuole per i fiori e per il verde, fontane (almeno una) per il fresco e per la riposante musica dell’acqua: uno spazio riservato, discreto e amico, dove un uomo può sostare a leggere il giornale, un giovane un libro, una donna a lavorar d’uncinetto, due amici a discorrere
tra loro e i bambini a giocare attorno alla fontana. Quello spazio che vorresti vicino a casa tua, o sul tetto della tua casa, se solo te lo potessi permettere. Fuori il chiasso del mondo, l’inferno del traffico, la volgarità dei manifesti, l’importunità degli indiscreti, l’assordante fracasso dei motorini. Ma al centro di tutto, il cuore di tutto, è laggiù, la
chiesa, presenza che dà un senso e un fine a tutto. Una centralità che non è tanto geometrica (potrebbe anche esserlo, qualunque sia la figura geometrica dello spazio che l’accoglie: circonferenza, semicirconferenza, esagono, rettangolo, ellisse, triangolo isoscele), quanto intenzionale, ideale, simbolico. Tu la vedi e per la separatezza-alterità del luogo dove ti trovi capisci già d’essere in una dimensione diversa, separata, in qualche misura già sacra.
Centro visibile sempre, da ogni lato, in modo che appaia subito la sua funzione di centro e di calamita; la stessa organizzazione del terreno, la sua pavimentazione potrebbe aiutare a indicare la necessità, quasi l’ineluttabilità di questo andare verso la chiesa disegnando sul pavimento linee che assumano quasi il senso e la funzione di sentieri o percorsi che indicano la strada, invitando a percorrerla. Pian piano che ci si appressa alla chiesa, cesseranno le piante, le aiuole, le panchine, per dare spazio al sagrato vero e proprio: spazio ampio, lievemente rialzato, che all’occorrenza può diventare esso stesso luogo di celebrazione e di azione liturgica.
Di qui potrà allora diventare un’emozione entrare nel templum, nel luogo ritagliato (secondo l’etimo), sacro per
eccellenza. Alcuni esempi? Tra i grandi santuari, Lourdes e Fatima; tra i medi, S. Maria degli Angeli
(Assisi) e Caravaggio; tra i “piccoli” uno per tutti: Ronchamp. Tra i recentissimi: S. Giovanni Rotondo (il verde il ellegrino lo trova sulla costa a salire verso il monte). Esempi impossibili? Certo. Ma trasferibili in qualche misura su scala ridotta, anche molto ridotta. Certo tutto ciò che son venuto dicendo non si adatta, o solo molto raramente, a situazioni esistenti, specialmente nelle nostre città. Impossibile anche per le piccole parrocchie già strutturate. Ma forse si
potrebbe tenerlo presente per i nuovi progetti, nella scelta dei terreni per le nuove chiese nelle periferie delle nostre città, nel concepire i nuovi complessi parrocchiali che tendono a riunire insieme chiese e opere parrocchiali, a pochi metri di distanza l’una dall’altra, alla ricerca d’una funzionalità illusoria. Bella è la chiesa che s’innalza libera verso il
cielo indicandolo già col dito teso del suo campanile o della sua guglia. Staccare da essa tutto il resto, potrà solo giovarle. A condizione che le precauzioni per la sicurezza siano adeguate e sufficienti. Annotazione molto prosastica e malinconica, dopo un momento tutto dedicato al sogno.

Prof. Don Antonio Santantoni

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