La Stanza del Liturgista

Il Sagrato tra simbolo e funzione
Prof. Don Antonio Santantoni

E’ lo spazio che consente alla chiesa di respirare pur nella stretta della città. Un luogo che funge da filtro, attraverso il quale il fedele passa per lo più senza fermarsi. Se nel corso del XX secolo il sagrato è andato perdendo la sua funzione, oggi sembra ritornare il desiderio di uno spazio aperto dove la comunità possa ritrovarsi

"Oggi la tendenza a ridare rilievo al sagrato è ben affermata nei piani regolatori e nell’architettura religiosa e sempre più si tende a isolare questo spazio dal chiasso, dal traffico e dai parcheggi. Ma raramente questa tendenza è accompagnata e sostenuta da ragioni teologiche e liturgiche"


Prof. Don A. Santantoni
Un torrido meriggio di luglio nell’infuocata campagna andalusa tra Siviglia e Cordova. Una piccola auto a noleggio, priva d’impianto di climatizzazione: nessuna riserva d’acqua. Una sete feroce. Poi all’improvviso, mettendo piede nell’agrumeto della grande moschea-cattedrale onde trae vanto e fama universali la città di Lucano e dei Seneca (padre e figlio), mi raggiunge e m’accarezza il gorgoglìo dell’acqua. Il pensiero dell’Eden mi seduce. Sono vinto da una sensazione di beatitudine. Qua e là, sotto le folte foglie degli aranci, uomini pigramente seduti si godono la siesta. Qualche donna segue i giochi dei bambini la cui voce fa da controcanto all’allegra melodia della fontana. Il pensiero corre ai peristili delle case pompeiane, alle corti delle case patrizie del rinascimento, ai piccoli patii della terra andalusa che mi ospita: spazi di libertà e d’intimità domestica, sacri alla vita di famiglia e all’amicizia; pietre che sanno tutto della storia della casa, della via, della città. Della famiglia. Luoghi che si sono allargati ad accogliere grandi e spesso imponenti masse di popolo, nei peristili e nei quadriportici dei templi, centri di vita religiosa e non di rado politica della città. Anche il càntaro, fontanella o bacino d’acqua corrente per le abluzioni dei fedeli, poteva richiamare l’impluvium delle case patrizie.
Col tempo e con il venir meno dell’antica opulenza e il moltiplicarsi delle chiese nelle città e nelle campagne il quadriportico cedette il posto a soluzioni più praticabili e modeste – il portico, l’atrio, il protiro – fino a limitarsi a uno spazio di rispetto, più o meno ampio secondo le possibilità: il sagrato (spazio sacro). Ciò che lo caratterizza è la rinuncia allo spazio chiuso e alla copertura che ne garantiva l’agibilità anche con il maltempo e con la canicola. Una soluzione, il sagrato, che consente all’edificio di respirare pur nella stretta del complesso urbano, ma che non basta a conservargli appieno il suo momento sociale e antropologico. Sagrati imponenti e monumentali e sagrati ridottissimi o poco più che accennati, possono convivere a poche decine di metri gli uni dagli altri, in funzione delle diverse tipologie di chiese. Spazi-filtro, attraverso il quale il fedele passa per lo più senza fermarsi. Un’ultima annotazione: oggi anche la funzione profana e laica del sagrato sta subendo una profonda trasformazione in senso antropologico. Non più luogo di sereno e tranquillo intrattenimento tra fratelli davanti alla casa comune prima o dopo il rito sacro, a dilatare il tempo della liturgia, ma luogo di stazionamento pigro, spesso irriverente, non di rado blasfemo di gruppi di giovani i quali trovano nella scalinata che spesso conduce alla chiesa un luogo d’elezione per il loro ozio nutrito di auricolari e di cellulari. Oggi la tendenza a ridare rilievo al sagrato è ben affermata nei piani regolatori e nell’architettura religiosa e sempre più si tende a isolare questo spazio dal chiasso, dal traffico e dai parcheggi. Ma raramente questa tendenza è accompagnata e sostenuta da ragioni teologiche e liturgiche. Ciò spiega forse la rarità di spazi semichiusi – portici, atrii e più ancora quadriportici, magari piccoli e modesti, ma capaci di accogliere il singolo o il gruppo davanti alla chiesa. In realtà, ciò che oggi si chiede al sagrato è di garantire alla chiesa monumentalità e rispetto, grazie alla mediazione della struttura architettonica. In questo senso esso resta relativamente estraneo al discorso sulla chiesa. Ma in principio non fu così. Non sarà sfuggita ai più la mia insistenza sulla metafora della casa. Di fatto, nel linguaggio riguardante il tempio, la lingua ebraica sembra mancare, almeno fino a Ezechiele, non soltanto della cosa, ma anche del nome di tempio o santuario.

Nelle foto: Il sagrato della chiesa di San Giovanni Battista a Desio, progettato da Roberto Gabetti e Aimaro Oreglia d’Isola.
Piazza “padre Pio” a S. Giovanni Rotondo, progettata da Eugenio Abruzzini.

David e Natan non parlano di un tempio, ma di una casa per il Signore (2 Sam 7,1-7). Invece incontriamo, con grande dovizia di esempi, la metafora della casa. Il Santuario è innanzitutto casa del Signore, dove abita il Santo d’Israele (Sal 22,4; 116,19; 118,6; 122,1). Ancora una volta è il vissuto a offrire la chiave del culto. È la casa dell’uomo a ispirare la struttura del tempio, non viceversa, perché si parte sempre da ciò che si conosce per rappresentarci l’inconoscibile e adattarlo alle nostre esigenze. È dalla casa che vengono al tempio i suoi spazi aperti, i luoghi per le riunioni affollate, per le grandi feste, per i lutti strazianti, per i banchetti rituali. Ma tutto viene rivissuto su scala dilatata per far spazio ai sacrifici, agli olocausti, alla lettura dei testi sacri, agli oracoli. Così è stato per lunghi secoli nella costruzione delle chiese. Poi le cose cambiarono. La chiesa somigliò sempre meno a una casa dell’uomo per divenire il l
uogo dove abita il Deus absconditus, il Dio nascosto che ama essere cercato dai suoi cultori nelle dense atmosfere di chiese semibuie, o il Dio della gloria cui piace rivelarsi nella luce abbacinante dei bianchi e degli ori delle architetture barocche. Cercare e adorare, ascoltare la Parola della teofania come sorgente di sapienza e di grazia, era tutto ciò che si chiedeva. I fratelli non erano più parte integrante del rito. Anzi, il silenzio tra gli uomini divenne condizione della profondità dello scambio con Dio. Tutto si consumava all’interno del tempio. Ora qualcosa si muove. Qua e là tornano a fiorire portici e atrii protetti che sembrano preludere al ritorno dei quadriportici. Il liturgista non può che assecondare e incoraggiare il nuovo uso e il pastore non può che rallegrarsi per questo spazio di cui la comunità si riappropria. Il sagrato ne è solo la prima tappa. Ma la strada è quella giusta.

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