L’ultimo Caravaggio

L‘ultimo Caravaggio

Il Martirio di Sant’Orsola è un’opera che ha portato con sé alcuni misteri. Primi tra questi, i dubbi sulla sua attribuzione, che il restauro attuale sembra aver definitivamente fugato. Gli altri riguardano gli ultimi mesi della tormentata esistenza dell’autore, segnata dalla violenza. Si trovava a Napoli, Michelangelo Merisi quando compose questa immagine estrema, dove a quella della santa martirizzata si somma la figura dell’autore.

Sino ad anni recenti, la critica non solo ha stentato a ricondurre il dipinto al regesto delle opere autografe di Caravaggio, ma addirittura a individuarne il soggetto (la stessa Mina Gregori, proponendo per prima il nome di Michelangelo Merisi, nel 1974, si limita a considerarlo, «forse», come «il martirio di una Santa»).
Ciò dipende in gran parte dalla curiosa scelta iconografica dell’artista. In cui non vi è traccia dell’uccisione – diversamente da una lunga tradizione che aveva conosciuto un’efficace ripresa in due famose opere di Ludovico Carracci, appena pochi anni prima – di quelle undicimila vergini che, secondo il racconto della Legenda aurea di Jacopo da Varagine, avevano accompagnato Orsola, la figlia del re di Bretagna, sotto le mura della città di Colonia assediata dagli Unni. Caravaggio ci mostra soltanto il terribile epilogo della vicenda: dopo la strage il re barbaro, che aveva proposto alla giovinetta di divenire sua sposa ricevendo in cambio uno sguardo sprezzante di sfida, «veggendosi schernito, diede di mano ad uno arco e trafissela d’una saetta, e così compiette il suo martirio ». È la frase di Jacopo a fornire evidentemente, nell’inventario di Casa Doria del 1620, il titolo del dipinto: Sant’Orsola confitta dal tiranno.
Nel dipinto il dramma si è già consumato. Orsola osserva, pallida, il dardo conficcato nel seno, il sangue che scorre. L’esigenza di mettere uno di fronte all’altra i protagonisti dell’evento e di dare a ciascuno un concreto, fisico risalto, ha costretto il pittore ad avvicinarli. Ci pare di assistere a una sacra rappresentazione, di essere immersi nel pieno codice dell’artificio teatrale. O di rivivere un ricordo letterario, forse quello della morte di Clorinda, nella Gerusalemme Liberata
di Tasso: «il ferro nel bel sen di punta,/ che vi s’immerge, e ‘l sangue avido beve;/ e la veste, che d’or vago trapunta/ le mammelle stringea tenere e leve,/ l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente/ morirsi…». Vi contribuiscono l’ambientazione della scena (che pare svolgersi entro una tenda, che assolve però anche le funzioni di un sipario) e la tecnica di esecuzione, con la scelta preliminare dell’andamento dei chiaroscuri (come attestano le radiografie), quasi
a rivelare un’accorta regìa da parte del pittore, la consumata capacità illusionistica (l’armatura dell’uomo all’estremità destra della scena è definita da semplici ma stupefacenti pennellate di biacca), l’utilizzo degli strati preparatori
della tela, a vista, anche nella redazione finale. Nella scelta Caravaggio mostra una precisa attenzione al dibattito
teologico sulla raffigurazione della vita dei santi che si era infittito dopo la conclusione del Concilio di Trento, e che mirava, da un lato, a parare le obiezioni sul loro ruolo di mediazione tra cielo e terra, da parte delle chiese riformate, e, dall’altro, a divenire efficace forma aggiuntiva della predicazione.

Martirio di Sant’Orsola del Caravaggio (1610). Olio su tela, 143 x 180,4 cm.
Collezione Banca Intesa. Il dipinto dopo il restauro. A sinistra, un particolare.

La Chiesa romana si sforza allora di ricondurre a una razionalità storica testi troppo marcatamente agiografici: nel caso di sant’Orsola si insisteva dunque sulle cause di fondo del martirio (la difesa della fede e della castità), mentre ci si mostrava evasivi sulle forme concrete del supplizio e piuttosto scettici sulla straripante presenza di altre undicimila compagne della santa. In assenza di certezze
storiche, il pittore si affida allora al testo di Jacopo da Varagine, ma presenta solo gli elementi a suo avviso inoppugnabili della vicenda. Ciò gli consente una sintesi impressionante ed emblematica: la scena si concentra sul rapporto tra vittima e carnefice, come nel parallelo Davide con la testa di Golia. L’autoritratto dell’artista, nell’uomo a
bocca spalancata alle spalle della santa, è il modo per sottolineare la totale, personale aderenza di Caravaggio – aggredito, sottoposto a continue minacce, condannato a morte – al dramma della giovane martire. Le armature
dei barbari, moderne, con tracce di manifattura lombarda e veneziana, non riferibili a gradi militari elevati, sono tutt’altro che una scelta casuale.

Un restauro con molte novità

Il restauro conservativo sul Martirio di sant’Orsola, realizzato tra il 2003 e il 2004 nella sede dell’Istituto Centrale per il Restauro di Roma da Carlo Giantomassi e Donatella Zari sotto la direzione scientifica di Denise Pagano, ha apportato elementi di sostanziale novità sulla conoscenza del quadro. Le indagini diagnostiche preliminari hanno anzitutto consentito di riconoscere con certezza, al di là delle testimonianze archivistiche, la mano di Caravaggio sul documento principe di ogni opera d’arte, il dipinto stesso. L’impasto della preparazione coincide con quello, coevo, del San Giovanni Battista della Galleria Borghese; gli strati della medesima sono in certi tratti lasciati a vista, nelle parti in ombra, seconda la tipica procedura del suo stile tardo; le pennellate chiare di abbozzo impostano direttamente le volumetrie delle figure, gli effetti chiaroscurali, le proverbiali rifrazioni luminose; l’esecuzione degli incarnati utilizza pochi toni cromatici per ottenere il modellato; non si riscontrano sulla tela tracce di disegno preparatorio, né di pentimenti. Le indagini non si sono arrestate alla conferma dell’autografia, ma hanno anche restituito la vicenda secolar
e del dipinto. È una storia tormentata, che conosce poco oltre la metà del Seicento (Marcantonio Doria muore nel 1651) un antico ampliamento, forse per adattarla a una nuova collocazione. L’incremento in altezza, per circa 13 centimetri, non ha avuto conseguenze di scarso rilievo. L’intervento attuale ha ripristinato le dimensioni originali dell’opera (conservando sotto la cornice l’aggiunta secentesca), ha fatto riemergere la mano del “protettore”
della santa (forse un ritratto di Marcantonio?), ha restituito fin dove possibile una tavolozza assai meno limitata di quella che ci era consegnata dalla situazione precedente, ha integrato in modo non drastico le lacune pittoriche,
mediante l’impiego di materiali completamente rimovibili. Il restauro, necessario e improcrastinabile, ci affida in conclusione un’opera di travolgente modernità, a tener conto della data di esecuzione, il maggio del 1610. Qualche critico ha scritto di una composizione e di una resa che anticipano di qualche decennio la ricerca di Rembrandt, una verità anacronistica che ribadisce la straordinaria e sempre sorprendente grandezza di Michelangelo Merisi. Ciò che
conta davvero è essere tornati a disporre completamente dell’ultimo Caravaggio. Già esposto alla Galleria Borghese a Roma (dal 21 maggio al 20 giugno 2004) e poi alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano (dal 1° luglio al 29 agosto), il dipinto restaurato a cura di Banca Intesa, sarà in mostra alle Gallerie di Palazzo Leoni Montanari di Vicenza dal 3 settembre al 10 ottobre 2004.

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