” L’importanza dei simboli “

Diretto da: Carlo Chenis
Periodico allegato a Chiesa Oggi architettura e comunicazione

Intervista a S.E. Mons. Mauro Piacenza
L’importanza dei simboli

Nel tumultuoso incedere e succedersi delle sensibilità artistiche e dei linguaggi architettonici, oggi in che modo la chiesa edificio può trovare un punto di equilibrio tra la necessità di essere ben riconoscibile e quella di essere “attuale”?
Il ruolo di Presidente della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa mi offre l’occasione di contattare innumerevoli operatori del settore, tra cui diversi architetti, anche di chiara fama. Nelle conversazioni ricorre sempre la medesima aspettativa. Tutti mi dicono accorati: «Occorre che la Chiesa dia delle norme più chiare a garanzia della progettazione nei suoi vari aspetti funzionali e simbolici». La riconoscibilità di un edificio cultuale è anzitutto intrinseca, cioè la funzionalità liturgica deve diventare bellezza architettonica. Quindi è anche accidentale, per cui occorrono simboli comprensibili che annuncino l’identità dell’edificio. Ma anche questo aspetto è fondato intrinsecamente, poiché si tratta di ottemperare l’esigenza insopprimibile dell’annuncio evangelico attraverso i segni sensibili, compreso le architetture. In questo contesto anche il discorso sull’attualità non va confuso con il «look della moda». In tal caso si tratterebbe di attualità troppo effimera e subito transeunte.

Sempre «attuale» è solo il vangelo, cioè il contenuto. Attuali, cioè comprensibili devono essere perciò le forme. Questa è la logica della Pentecoste, dove l’intelligenza naturale è sopraelevata da quella soprannaturale. Mi pongo, tuttavia, questo interrogativo: «Come mai al senso comune sembra più attuale una chiesa romanica che non una contemporanea?». Perché è davvero bella e la bellezza come la verità sono degli universali. Inoltre, perché è vivibile e comprensibile, perché se ne avverte immediatamente la pregnanza religiosa, il sacro; perché ci si prega bene! Quindi tali sacri edifici coinvolgono di più, sia i sentimenti, sia l’intelligenza.

Per fare chiese belle occorre uscire dagli studi architettonici, dagli stilemi seriali, dalle stravaganze sperimentali, mettendosi in ascolto della liturgia cattolica, della grande tradizione, della spiritualità religiosa. Da qui deve scaturire un linguaggio coerente e splendente. Si riuscirà forse con più facilità nello scopo! Infatti se si è più vicini a Dio, si è più vicini alle persone; se si intuisce maggiormente l’ordine del cosmo, si progetta con maggiore organicità.

Il linguaggio dei simboli sembra estraneo alla cultura contemporanea, o meglio, questa sembra nutrirsi di simboli lontani dalla tradizione. E spesso le chiese nuove appaiono spoglie. Ritiene sia possibile, ed eventualmente in che modo, riproporre il linguaggio dei simboli nelle architetture delle chiese contemporanee?
Il problema odierno è l’impoverimento del linguaggio, intasato da troppe parole, troppa fretta, troppe immagini, troppe sensazioni. Nell’era della comunicazione e dell’immagine si comunica poco all’intelligenza e si eccitano troppo i sentimenti. Si è dimenticato che l’uomo è un «animale simbolico». Il simbolo ne mostra la natura spirituale, oltre il
livello biologico. Se il minimalismo, talvolta, può essere un segno dell’ineffabile divino, sovente è solo un segno di ignoranza iconografica. Quindi si tratta di rimettere in circolo architetti, committenze, comunità per riprendere l’uso dei
simboli intuiti nella natura, elaborati dalle culture, sublimati dalla religione. Un simbolo azzeccato difficilmente invecchia, poiché è cifra della creazione e reliquia della rivelazione.

La Chiesa, in particolare con Paolo VI e Giovanni Paolo II, si è rivolta al mondo degli artisti perché questi tornino ad esprimere il sublime. Ritiene che il mondo dell’arte abbia risposto alle aspettative? Ritiene che si debba compiere qualche altro passo per favorire il dialogo tra Chiesa e mondo delle arti figurative e plastiche, ai fini del completamento dello spazio liturgico?
Ricucire una rottura ideologica e culturale non è facile. Continua l’impegno dato dal Concilio Vaticano II di ritessere l’alleanza tra uomini di Chiesa e dell’arte. Ci sono tantissimi frammenti luminosi che già rischiarano il firmamento dell’arte sacra, stilati in tante lingue, forse troppe, che tuttavia documentano come l’annuncio evangelico possa essere tradotto in tante lingue.Tuttavia, per un’arte sacra, davvero seria e davvero autentica, occorre l’apertura a Dio. Nella logica dell’incarnazione Cristo si è reso visibile come uomo per cui l’arte cultuale deve tradursi in figura. Questo non esclude a ridondanza altre soluzioni più simboliche.

C’è chi ha lamentato che, dopo il Concilio, alcune chiese cattoliche si presentino simili a quelle protestanti. Quali sono gli aspetti principali per mantenere l’identità cattolica? In particolare come concepire la relazione tra tabernacolo e altare nelle chiese nuove e negli adeguamenti?
Se l’ecumenismo porta a cercare ciò che unisce e non ciò che potrebbe dividere, un dialogo serio non deve indurre alla confusione delle posizioni. Per questo il tesoro della fede cattolica va espresso in tutta la sua identità iconografica e liturgica. Da qui il dialogo. Siffatta identità muove dalla centralità dell’altare e dalla sua continuità nel tabernacolo. In correlazione a questi fuochi pulsanti il divino sono ambone e sede. Occorre poi ribadire che il battistero, quale «porta»
di accesso alla fede, va separato spazialmente dall’aula e, soprattutto, dal presbiterio.
Occorre sottolineare l’importanza della penitenzieria. Occorre un’iconografia cristocentrica: la croce con il Cristo ben comprensibile deve campeggiare in presbiterio. In connessione al crocifisso è l’icona della Madonna, poi quelle dei Santi e degli Angeli. Questa è la fede cattolica e questa va annunciata in tutti i modi, anche architettonicamente
e artisticamente. E questa deve indurre all’adorazione e alla preghiera. È dall’adorazione e dalla preghiera che nascono poi le grandi opere di carità che l’arte annuncia. Così è stato sempre nella storia antica e moderna.

Può indicare un adeguamento liturgico come espressione particolarmente ben riuscita nel contemperare le esigenze di rinnovamento e di continuità?
Più che di adeguamenti liturgici ben riusciti, invero pochi, si potrebbero sottolineare in singoli progetti aspetti degni di rilievo. Affermo però, in tutta doverosa chiarezza, che non si deve «adeguare» in modo dissennato, rovinando gli equilibri di una chiesa. Il senso della tradizione, fondamentale per il cattolicesimo, fa sentire i fedeli in casa propria anche abitando in luoghi ricchi di secoli e di bellezza. L’adeguamento va fatto creando equilibri organici, senza idolatrare, né il passato, né il presente. Del resto, tutto scorre ed il tempo cronologico trova ragione solo quando diventa tempo spirituale.

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