Intervista

a colloquio con Ezio Didone protagonista del design milanese
I folli anni ‘60 e il rigore della funzione

intervista di Walter Pagliero

Enzo Didone inizia a fine anni ‘60 con oggetti e mobili carichi di energia visiva, a cui segue una non domata età della funzione e della ragione.

Nelle foto: Tavolo laccato smontabile, il cui piano si può appendere come un quadro. Per Epamfer (1967). E’ una sintesi delle tendenze di quegli anni: dallo stile optical al mobile personaggio, dall’orientalismo magico di Sottsass al gusto astratto del black and white.
Vaso per fiori in ceramica tre volte sghembo: per la disposizione dei parallelepipedi, per la loro troncatura in alto e per la decorazione a fasce oblique. Per Cedit (1967).
Vaso per fiori a tre corpi decorati solo in parte con fasce oblique; si sfoglia come una cipolla. Per Cedit (1967).

Come è iniziata la sua avventura col design?
Mi sono laureato nel 1967 con una tesi sul design. Il design m’era sempre piaciuto come esperimento e da studente avevo già progettato per Epamfer un tavolo particolare che si divideva diventando un appoggio mentre il piano si poteva staccare e appendere alla parete come un quadro (vedi foto a destra). Erano mobili oggetto nel senso che in quel momento gli era attribuito da Sottsass, cioè oggetti protagonisti dell’ambiente, come “Elisabetta” (un portascarpe con grandi orecchie) che era più una scultura che un mobile.
Lei è soprattutto noto come designer di lampade?
Non ho progettato solo lampade, ma vi ho dedicato molto tempo. Ho incominciato con Valenti e poi sono entrato in rapporto stabile con Arteluce, la ditta fondata da Sarfatti, quando era diventata proprietà dalla Flos. Una grande ditta e per me una grande esperienza. Oggi sarebbe difficile fare lo stesso percorso poiché la maggior parte delle aziende non possiedono una vera mentalità industriale e non capiscono che per fare seriamente un modello bisogna investire molto nella ricerca e nella continua sperimentazione. Oggi del prodotto interessa solo cosa viene a costare e a quanto si può vendere. Ad Arteluce invece c’era un apposito laboratorio dove il designer poteva sperimentare senza limite di spesa; e non sempre il progetto veniva realizzato, certe volte si prendeva atto di essersi infilati in un vicolo cieco. La testa pensante di tutto questo era Marco Pezzolo, uno dei soci della Flos che si dedicava al rapporto con i designers e allo studio del prototipo. La mancanza di questo modo di fare è secondo me alla base della sparizione di molte ditte del settore. Siccome la lampada è un prodotto comunque costoso, la gente lo vuole di alto livello e per ottenerlo occorre dedicarvi energie, tempo e soldi.

Nelle foto: “Atena”, una plafoniera in vetro scanalato del 1989.
“Squadra”, applique in metallo verniciato del 1968;

Dove sta andando il design oggi?
Guardando il panorama attuale si ha l’impressione di una gran superficialità, con produttori convinti che chi compra i loro prodotti sia completamente ignorante. Ripropongono vecchie forme dell’art déco o del periodo fascista spacciandole come nuove, fanno vasche da bagno supergrandi in un momento dove la gente va in spazi piccoli ed esasperano ogni cosa per dare una sensazione di novità. Non tenendo conto che tutto questo stanca e che le cose più sono semplici più vengono capite dalla gente.
A cosa si deve questo cambiamento?
Quando ho iniziato c’era il 50 per cento di designers validi; oggi ce n’è sì e no il 5 per cento. La prova è negli oggetti di quel periodo che dopo decenni sono ancora in produzione e si vendono, segno che l’accumulo di contenuti culturali interni a quei progetti non è stato completamente bruciato. Molti, come il buon vino, maturano nel tempo; per esempio certi oggetti dei fratelli Castiglioni sono ancora presenti sul mercato, più belli di quelli di Philippe Starck che sono già vecchi perché il loro contenuto l’hanno bruciato in fretta. Il design di Alessi, per fare un altro esempio, brucia in tempi brevissimi perché non ha niente da esprimere.

Nelle foto: “Diva”, applique con due cristalli acidati del 1987.
“Joe” lampada da terra e applique del 1981.
“Corolle”, lampa da terra con doppio guscio del 1991.

La pratica attuale è un design che brucia subito?
Questo non è design, ma moda. Il design non può essere un vestito; i prodotti che Armani propone come design (vedi le sue lampade) non sono affatto opere di design. Il guaio è che ci sono troppe persone che si sanno vendere molto bene, ma non hanno niente da dire.
Quali potrebbero essere i contenuti di oggi?
Io le posso parlare dei miei contenuti. Prima di tutto cerco di trovare un linguaggio che abbia una giustificazione nell’uso del prodotto: una mia lampada non nasce dalla stravaganza, ma da un’attenta ricerca su luce, fonte luminosa e forma della lampada, che deve essere attinente al migliore utilizzo di quella fonte. Inoltre deve risultare costruibile e affidabile nel tempo. Poi cerco di arrivare a una sintesi togliendo tutti gli
orpelli, i segni che non hanno significato, semplificando al massimo gli elementi utilizzati, cioè quell’insieme di strutture che, compenetrate tra loro, hanno dato origine all’oggetto. Si tratta dell’ultimo atto di un processo che deve portare a un risultato estremamente chiaro e senza ambiguità. Apprezzo particolarmente il modo di fare design di Paolo Rizzato e dei Castiglioni proprio perché hanno molto da dire e lo comunicano con un linguaggio semplice e comprensibile a tutti.

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