Il simbolo oltre i simboli

 

La chiesa di Barbagelata (Diocesi di Chiavari), opera di Costantino Ruggeri. Vista verso l’altare in legno massiccio.

 

 

1IL SIMBOLO OLTRE I SUOI SIMBOLI

E Dio creò la luce e “vide che era cosa buona”. E la luce lo ricambiò rivelando il Creatore alle creature.Così ebbe origine il mira-colo della luce. Lo stupore di Dio di fronte alla sua opera è lo stupore dell’uomo davanti al dono di Dio. Cosa sarebbe stato il mondo senza la luce?

O ggi noi sappiamo che senza luce non ci sarebbe stato universo. Semplicemente. Poiché l’universo è energia, e dunque luce. E la luce è vita. Nemmeno l’acqua basterebbe a generare vita, senza la divina energia della luce che sola può fecondarla. L’uomo lo comprese assai presto e divinizzò il sole, la luna e il fuoco, e pose nel firmamento la casa dei suoi dèi e nelle tenebre il re-gno della morte. Non meraviglia il fatto che la Scrittura, dopo aver collocato nei cieli la casa del “Dio degli eserciti” (o delle schiere celesti), applichi al Cristo stesso la metafora della luce. Fu lo stesso Gesù, soprattutto nel vangelo di Giovanni, a farne un uso assai frequente e insistito, del tutto connaturale all’economia del suo messaggio. Entro in una chiesa bianca, spoglia, senza altro decoro che non sia la luce, una luce sapiente, indiretta, filtrata, povera e opulenta insieme, tale da non ferire l’occhio e da non sedurlo con lo splendore dei mille colori della divina tavolozza creatrice: luce come pura pienezza del vuoto, come dovette apparire all’alba della creazione, quando non si trovò che acqua da illuminare, un’acqua nera, opaca, senza spessore né fondo, senza neppure un cielo da riflettere. In questa pregnanza del vuoto, in questa pienezza del niente è tutto il fascino di certe architetture. Penso a molte chiese romaniche, severe e sublimi, e a certi esempi moderni, dall’inaudita audacia del Le Corbusier di Ronchamp, il precursore, al più re-cente rigore di Alvaro Siza nella chiesa parrocchiale di Marco de Canavezes (v. Chiesa Oggi architettura e comunicazione n. 43). In quei vuoti apparenti è dato avvertire una presenza misteriosa, impossibile da definire, difficile da individuare; qualcosa che si lascia sentire ma non vedere, percepire ma non identificare. Cos’è che ci fa sentire così tanto a nostro agio, così a casa nostra in quelle chiese? Esse sono il frutto miracoloso e rarissimo d’un perfetto equilibrio tra materia, forme e luce. Poiché la materia sarebbe inerte e le forme inespressive senza la luce, l’unica cosa capace di renderle vive e palpitanti. Umane. Si tratta di chiese di sobrietà e austerità quasi luterane. Nessuna figura se non una Madonna: in alto e controluce e alloggiata nel vano d’una finestrella a Ronchamp, modesta e ad altezza d’uomo nella chiesa di Siza. Ma ciò che più colpisce è la croce, eccentrica e senza Crocifisso in ambedue i casi. Impossibile non pensare qui a una citazione, almeno implicita, da Ronchamp. L’altare è un grande blocco di pietra bianca. Due ferite di luce, alle sue spalle, ne evidenziano l’austera presenza. Il fonte battesimale, a fianco dell’entrata, riceve luce solo da una sorgente laterale. Dai finestroni in alto, disposti tutti su un lato e sottratti alla vista dei fedeli, piovono fiotti di luce che danno al tutto consistenza poetica e coerenza simbolica. Non so se l’emozione suscitata in me da queste diverse e tuttavia conver-genti esperienze sia filologicamente corretta, né se queste possano iscriversi in una tendenza estetica che tende a restituire al mistero (restare in silenzio) la sua ineffabilità. Eloquente il caso della croce: liberata dell’immagine del Morente che ne limiterebbe il simbolismo e il messaggio, essa si apre a ben più ampi orizzonti, per parlare non più solo di sofferenza e di morte, ma anche di vittoria e di vita, perché il Risorto è la vittoria della Potenza di Dio sul dolore e sulla morte. La raffigurazione del Risorto è sempre stata una delle sfide più ardue per l’arte di tutti secoli e ognuno ha cercato di dare la propria risposta basandosi sulla perfezione del prototipo umano e sulla luce. Al contrario l’ar te moderna tenta fra le diverse vie anche quella più audace di tutte, al di là degli stessi confini dell’astratto e dell’informale: la via della pura allusione. In questo senso la luce giuoca un ruolo primario, insostituibile, specialmente in architettura. Nel nostro caso, investendo la croce, la luce ne mette in risalto la nudità e dunque la sconfitta. La sua preda le è stata sottratta e il raggio di luce che piove dall’alto lascia intravedere sia la sorgente e la natura della Potenza vincitrice sia la strada che conduce all’incontro con il Risorto. Dove la luce è protagonista, non c’è più bisogno di icone. La vera icona è la luce stessa. Forse non è un caso che sia Le Corbusier sia Siza non vengano da una militanza cristiana convinta e coerente. Entrambi hanno dovuto recuperare il senso d’una fede in Prof. Don.Antonio Santantoni parte smarrita, in parte sopita. E neppure risulta che il loro impegno artistico abbia comportato risvolti esistenziali. Per loro s’è trattato d’un assunto professionale: rendere l’indicibile senza far ricorso a parole che sarebbero risultate irrimediabilmente banali nel loro lessico simbolico. Meglio fare a meno del volto e della stessa corporeità. Con la loro proposta essi non risolvono solo un problema estetico, Indicano anche una direzione. Sarà mai possibile andare oltre? Ma forse un oltre è stato già conseguito quando il p. Costantino Ruggeri ha confitto quegli enormi lunghissimi chiodi sulle assi sconnesse della sua croce sospesa tra il cielo e la terra di Barbagelata. Pochi chiodi è tutto ciò che resta d’un capo che fu già coronato di spine e ora è circonfuso di gloria eterna. Come il sudario di Cristo nel sepolcro, esso ricorda che la morte fu solo un passaggio. La realtà che permane è la vita. Non saprei dire se il mistero ebbe mai più toccante e convincente rappresentazione. Ma certo non mi meraviglia che a offrircela sia stato un francescano, nel cui petto batte e respira un cuore d’artista.

Prof. Don Antonio Santantoni

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