Gottfried Böhm, L’ARCHITETTURA DEL RISULTATO PER MEZZO DELLA FORMA

CHIESAOGGI ISSN 1125-1360 N. 105
DOI: 10.13140/RG.2.2.30869.47847

ABETI Maurizio (IT)

Abstract
Vi sono personaggi che, nella storia dell’architettura, hanno raggiunto 
una immagine quasi simbolica nel settore nel quale anno operato e 
operano. È questo certamente il destino di Gottfried Böhm, personalità
importante dell’architettura sacra del novecento e contemporanea, nome
che sicuramente non sembra richiedere alcuna presentazione in questo
campo. Non sempre, peraltro, alla popolarità di un nome trova riscontro
un’altretanta diffusa e seria conoscenza del personaggio e delle sue opere. 
Così è ­ in modo particolarmente evidente­ per l’architetto tedesco, personalità eclettica e refrattaria a ogni generica riduzione formalistica:
siamo quindi assai lieti di poter offrire questa ampia illustrazione delle 
sue realizzazioni. L’obiettivo del presente articolo è appunto di valutare 
l’opera di questo architetto, la sua sorprendente versatilità che deriva a 
volte dalla molteplicità dei suoi interessi artistici e dal cammino di una 
vita che passa per i momenti cruciali dell’architettura del dopoguerra. 
Il testo non vuole essere un’opera di difesa e d’illustrazioni delle posizioni “böhmiane”; non mira a sottolineare e valutare l’influenza dell’architetto sulla produzione architettonica sacra contemporanea, bensì a comprendere le motivazioni di base, la originale ispirazione, il desiderio inventivo e le esigenze religiose che hanno strutturato le sue opere architettoniche, di degna ammirazione e di alta espressione sacrale.

Gottfried Böhm è un architetto tedesco, figlio del grande architetto Dominikus Böhm, quest’ultimo, anticipatore dell’architettura sacra contemporanea, fu considerato uno  dei maggiori esperti europei nel campo dell’architettura sacra del dopoguerra, reputazione ancora attuale. Si laurea alla “Technische Universität” di Monaco di Baviera nel 1946 e studia scultura all’ “Akademie der Bildenden Künste” della stessa città. Inizia la sua lunga carriere nel 1947, collaborando nello studio del  padre a Colonia, di cui ne assume la direzione dopo la sua morte avvenuta nel 1955.
Tra la  fine degli anni ‘40 e gli inizi degli anni ‘50 collabora come dipendente con la Società per la Ricostruzione di Colonia sotto la direzione di Rudolf Schwarz, quest’ultimo anticipatore e trasformatore dello spazio liturgico (dettato poi dalle riforme del Concilio Vaticano II*), discepolo culturale della scuola di design Bauhaus, fu uno dei maggiori esponenti del movimento liturgico tedesco (Liturgiche Bewegung), guidato dal grande teologo e liturgista Romano Guardini.
Per arricchire la sua esperienza professionale, nel 1951 si reca negli Stati Uniti d’America e lavora per sei mesi nella studio di Cajetan Baumann, architetto dell’Ordine francescano, a New York. Termina la sua avventura americana conoscendo, durante un  lungo viaggio di studio, Ludwig Mies van der Rohe e Walter Gropius.
Al ritorno dagli USA, nel 1952, riprende a lavorare nello studio di Colonia.
Negli anni ’60 influenzato dall’architettura espressionista moderna del padre, ne privilegia il linguaggio ma «più concettualmente e graficamente che del tutto operativamente, mantenendo ovviamente una certa indipendenza eleborativa e soltanto un richiamo figurativo esteriore: i suoi lavori, infatti, pur risentendo fortemente dell’impronta paterne, posseggono»[1] un’alta misura di originalità. 
Successivamente approda al modernismo/post-Bahhaus (la scuola di pensiero più influente che costituiva quello che è conosciuto come modernismo in architettura), ma lui preferisce considerarsi un architetto che persegue con una poetica personale un’architettura attenta al contesto e all’ambiente, integrandosi nel processo urbano in modo organico; sempre rispettosa della tradizione e sviluppando in particolare nell’architettura sacra nei contenuti tipologici i caratteri formali dettati dalle liturgie e nei sistemi compositivi  i linguaggi incorporati nell’architettura delle città dove essa viene realizzata.
Questo si manifesta nello studio della forma, dei materiali e del colore degli edifici ecclesiastici che progetta. Molti di essi  sono realizzati in calcestruzzo grezzo, a faccia vista, ma a partire dalla fine degli anni ’50, in contemporanea al progresso tecnologico e alle nuove tecniche costruttive, comincia ad utilizzare nuovi materiali come vetro ed acciaio.
È il progettista di molte opere architettoniche in Germania, in Italia, in Lussemburgo, in Brasile, che includono musei, banche, biblioteca, edifici pubblici e privati, abitazioni, pianificazioni urbane e in particolare chiese (69 realizzate).
Grazie al contributo dato all’architettura, attraverso le sue realizzazioni di altissima qualità e di espressione significativa, è l’unico architetto tedesco, fino ad oggi, ad aver ricevuto nel 1986 il  prestigioso Premio Pritzker (Premio Nobel per l’architettura), e nel 1991 ad essere nominato membro onorario -Honorary Fellow- del Royal Institute of British Architects di Londra.
La storia di Gottfried Böhm è, si potrebbe dire, la storia stessa di un grande periodo della “moderna” architettura cristiana, dove si inizia a sperimentare i percorsi della autenticità e della semplicità lineare di uno spazio liturgico capace di coinvolgere l’assemblea in una celebrazione eucaristica sempre più partecipata.
Dedichiamo questo articolo ai suoi edifici-chiesa, perché ci piace di puntualizzare alcuni caratteri di essi. Opere estremamente significative, in un iter che dall’espressionismo, e poi dal primo razionalismo, e dai successivi esperimenti e sviluppi del gusto, sfociano in una architettura il cui modellato strutturale ha le libertà e gli estri della scultura: gigantesche forme unitarie, in nuovi «colossi» sculturali.

* Concilio Vaticano II: 4 sessioni: 1)  dall'11 ottobre al 7 dicembre 1962;
con  Papa  Giovanni  XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli, Bergamo, 1881 – 
Roma, 1963); 2) dal 29 settembre al 4 dicembre 1963; 3) dal 14 settembre
al 21 novembre 1964; 4) dal 14 settembre all'8 dicembre 1965, tutte con 
Papa Paolo VI (Giovanni Battista Montini, Brescia,1897 – Roma, 1970).

Il santuario di St. Mariä, Königin des Friedens, Velbert- Neviges (Santa Maria Regina della Pace a Neviges), 1963-68 (Fig. 1), una piccola città a circa 50 km da Colonia, è l’esempio più famoso di un’architettura compositiva artistico-plastica, Si direbbe, osservando quest’opera, che il suo  espressionismo rifiuta la storia[2], ma tuttavia il suo riproporre un atteggiamento romantico, il suo richiamo ad un primitivo spirito popolare tedesco (Volksgeist), sono dimostrazioni che la sua ricerca progettuale non può effettuarsi fuori da ogni precedente esperienza di storia e di cultura.

Fig.1 Santuario di St. Mariä, Königin des Friedens, Velbert- Neviges (Santa Maria Regina della Pace a Neviges), 1963-68.

Si direbbe, osservando quest’opera, che il suo  espressionismo rifiuta la storia[2], ma tuttavia il suo riproporre un atteggiamento romantico, il suo richiamo ad un primitivo spirito popolare tedesco (Volksgeist), sono dimostrazioni che la sua ricerca progettuale non può effettuarsi fuori da ogni precedente esperienza di storia e di cultura.
Egli ha affermato: “Edifici di nuova costruzione devono inserirsi in modo naturale nel loro ambiente, sia architettonicamente che storicamente, senza negare o abbellire le preoccupazioni del nostro tempo…., la storia ha una naturale continuità, che deve essere rispettata”(Fig. 2).

Fig. 2 Vista esterna. Percorso a gradinate che conduce al santuario.

Pertanto il suo espressionismo non nega la storia, ma afferma risolutamente il diritto di una libera scelta e deformazione espressiva dei precedenti lessici decontestualizzandoli dalle loro originarie culture. Ciò implica inevitabilmente un carattere eclettico che partendo dal colloquio tra architettura e storiografia genera un linguaggio spazio-temporale totalmente nuovo: tecnologia e poesia in un rapporto inscindibile. Per questo si definisce un architetto che genera “i collegamenti”, tra il vecchio ed il nuovo, una sintesi di tradizione e modernità, tra i concetti e la struttura del creato, tra una costruzione e la progettazione urbana, e questo si rende concreto nello studio della forma, dei materiali e del colore degli edifici che realizza.
Anche la dimensione  di questo edificio religioso (circa 38 metri di larghezza e 50 metri di lunghezza, le sue pareti esterne sono tra 10 e 20 metri di altezza, la vetta più alta è di circa 35 metri) rende evidente questo concetto di continuità: l’interno si estroverte e l’esterno viene introiettato, cioè la chiesa esterna prende origine dal paesaggio urbano mentre la chiesa interiore nasce dalla chiesa esterna,  in un’interfaccia di rara bellezza ed efficacia.
Il santuario di S. Maria Regina della Pace, Velbert-Neviges, è una scultura piena e massiccia; una “roccia di calcestruzzo e vetro” animata sempre da una sua dinamicità. Tale concetto è espresso dai suoi movimenti plastici elaborati con volumetriche sfaccettate  di tendenza moderna.
L’edificio sacro, «situato su un pendio in una natura ancora incontaminata, circoscritta da grandi città industriali (il famoso “bacino della Ruhr”), rappresenta quasi un oasi e quindi un momento di ristoro nel deserto della vita contemporanea. Le sue forme architettoniche e artistiche sono esempi: rappresentano una tenda ed invitano al riposo e alla meditazione»[3]. La forma della tenda è in riferimento al libro della Genesi.
Lo spazio interno, di grande intensità soprattutto in altezza, è caratterizzato da vetrate su cui sono effigiati i santi, antichi e attuali, dall’altare e da queste  forme plastiche moderne che avviluppate dall’integrazione tra luce naturale e luce artificiale offrono uno spettacolo di grande effetto trascendentale. La sua configurazione a forma  di strada, quasi a rappresentare il continum dell’esterno (la sua creatività riesce a trasformare questo luogo scosceso in un “cammino processionale a gradinata” per i pellegrini  che continua nello spazio liturgico e trova nell’unico altare il suo punto ultimo), genera, applicando le innovazioni liturgiche, attivate dal Concilio Vaticano II, una tipologia spaziale pseudo-centrale nella quale l’ecclesia non è solamente convocata ma è soprattutto in comunione e protagonista (Fig. 3).

Fig. 3 Vista interna. Spazio per la celebrazione.

Un altro esempio di questa dinamicità liturgica polarizzata sulla centralità non geometrica dell’altare è fornito dalle chiese di Kirche Christi Auferstehung, Köln-Melaten e di Geist Sandheide (St. Franziskus von Assisi), Erkrath-hochdahl, dalla chiesa di St. Stephanus, Brühl e dal monastero Zum Guten Hirten, Koln-Lindenthal. Lo spazio liturgico di questi edifici di culto riscopre una ecclesiologia cristocentrica,  che collocata al centro dell’azione liturgica, nel rapporto tra celebrante e fedele,  ridà all’altare tutta la sua valenza sacramentale di mensa comunitaria. Così esso, che non è un semplice arredo, indica ed esprime che è mensa del sacrificio e del convito pasquale; è il segno di Cristo (Fig. 4 e Fig. 5).

Fig. 4/5 Pianta e vista esterna della kirche Christi Auferstehg, 1968, Koeln-Lindenthal ( chiesa della Risurrezione di Cristo a Colonia-Lindenthal , ©de.wikimedia.org.

Dall’ottica strutturale, l’impiego totale del cemento come struttura identificata dell’architettura è un romanticismo dinamico dove la forza del cemento non è tanto espressione del suo lavoro strutturale quanto espressione di sé stessa. Gottfried Böhm si concede ad espressioni, movimenti formali, che esulino da quelle di una «poetica tecnica», nella giustificazione strutturale del cemento. In questa costruzione religiosa passa simbolicamente da questo cemento strutturale alla interpretazione di un altro cemento: il cemento pietra, il cemento scultura. Non è più nemmeno il “new brutalism cementizio di Le Corbusier; è, in questi blocchi dinamici, una “new violence”: spessore e gusto materico. Onde si potrebbe fare anche una “nuova”storia (attraverso questi  episodi) del cemento armato che  ci fa meditare sulla storia stessa della nostra civiltà che e industriale, ma che tende a non esserlo più in Böhm lungo questa “via del cemento”.
Egli afferma: “Il monumentale aumento delle masse di calcestruzzo esterno corrispondono  a sicurezza e di intimità nella chiesa interiore.”.
Un’altra caratteristica che riassume questo suo “stile”, non è quella dell’arte emergente, ma dell’artisticità diffusa. La gran parte della produzione di questo architetto, come innanzi indicato, non punta più alla bellezza del singolo modello, sia esso un edificio pubblico (Fig. 6) o una chiesa, ma si pone come un azione tendente ad «altro»: aspira a qualificare la costruzione, cioè all’inquadramento dell’architettura nell’urbanistica. Per dirla alla Bruno Zevi:«l’urbatettura o, in senso più esteso, design ambientale»[4].

Fig. 6 Gottfried Böhm, Hans-Otto-Theater Potsdam, ©ingenieurgruppe Bauen.

La sua matericità architettonica, cioè il passaggio diretto scultura-architettura, avviene anche attraverso una capacità di incorporare elementi del paesaggio che ne diventano gli stimoli generatori di questa sua architettura audace e composita, intima e travolgente.
Un nuovo modo di costruire oltre che di concepire l’architettura (religiosa) ed il progetto stesso, capace di entrare in rapporto con il contesto e svilupparne una forte unione. Un legame generato, soprattutto, con il recepire gli elementi tipologici; con l’utilizzazione ed il recupero degli elementi formali/materici esterni; con  lo studio attento della scelta dei materiali, i suoi colori, i suoi valori stilistici (Böhm ha detto semplicemente: “uso i generi differenti di materiali sui generi differenti di progetti”), ma principalmente, dall’essere capace di lanciare un messaggio architettonico compiuto, senza equivoci, aggiuntivo del semplice segno architettonico terreno: esso è «la dimora di Dio con gli uomini» (Apoc.21,22).
Un architetto che costruisce con la materia e non solo con i “volumi sotto la luce”; con una nuova modalità progettuale, dove  masse e i volumi tendono a collidere e ad incontrarsi in un rapporto estetico equilibrato. “De-costruisce” un’architettura geometria che ha la capacità di dinamicizzare l’ambiente per farlo scuotere. La sua architettura che egli inventa movimenta l’ambiente tanto profondamente non solo da definirlo ma da illuminarlo e magnificarlo: “se compongo allora rilancio”, ecco perché i suoi movimenti plastici rilanciano e non costituiscono spazio intercluso.
Molti dei progetti e delle proposte di Böhm illustrano la sua preoccupazione per l’ambiente a tal punto da dire: “penso che il futuro dell’architettura non si trova così tanto nella continuazione del riempimento del paesaggio urbano, ma nel riportare la vita e l’ordine alle nostre città”.  A proposito di questa relazione fondamentale dell’architettura egli ricorda ai tempi della città di Colonia del  dopoguerra: «Anche le montagne di macerie con i loro fiori gialli (un’immagine per me indimenticabile) dovevano rimanere tali e quali. Fra le rovine si doveva ricostruire solo ciò che era facile da ricostruire, come per esempio […] il coro del Duomo, oppure nella chiesa di S. Colomba la cappella nel basamento della torre rimasta intatta.
Se penso a quei tempi, il desiderio di lasciare le rovine com’erano non nasceva come monito contro le guerre, come si potrebbe pensare oggi. Al contrario, si credeva di riconoscere il valore di questi magnifici edifici proprio nel loro stato di distruzione.
Forse è come in guerra, al cospetto della morte, quando si impara ad apprezzare la vita diversamente – rammenta sullo stato della città dopo la distruzione- .C’è da aggiungere che le rovine e gli spazi aperti e liberi, con la loro luce chiara e semplice, evocavano sentimenti di religiosità che non abbiamo mai provato nelle chiese buie del medioevo.»[5].
Ha detto una volta ai suoi figli: “La nostra generazione ha costruito molto, ma la vostra generazione dovrà lavorare sodo per sanare tutto […]. Io non sopravvaluto l’influenza dell’architettura sulle persone, ma sono sicuro che il fisico è alienato dalle nostre città e che quest’ultima contribuisce alla nostra incapacità di vivere insieme in armonia[…]. È quindi importante oggi per sanare queste ferite, conservando gli aspetti positivi, e di ristabilire la necessaria coesione dell’ambiente urbano, in modo che possiamo rivivere quel senso di comunità che noi ammiriamo quando passeggiamo per le città vecchie”.
La forma è l’obiettivo della progettazione. Ma la forma architettonica per Böhm non è ricercata come un fatto a sé, come un’entità astratta. Essa, con i suoi contenuti autonomi, è inevitabilmente avvolta dalle relazioni col suo contesto, che è la base su cui costituisce, il supporto fisico e il complesso delle condizioni presenti nelle operazioni.
Sarebbe però errato limitarsi a ricercare una corretta rispondenza col contesto soltanto come estrapolazione da un processo ivi già in atto. Questo concetto è evidente  nella sua architettura e in particolare in quella “sacra” che è destinata a modificare la realtà che vi converge, ma ciò non avviene secondo un rapporto neutrale: la progettazione come proiezione nel futuro, tende a un senso, tende a istituire altri valori e diverse situazioni funzionali.
Il dialogo tra costruzione e l’ambiente circostante si concreta nel santuario di Neviges. L’edificio ecclesiastico si pone come segno spirituale visibile: «Costruì il suo tempio alto come il cielo e come la terra stabile per sempre» (Salmo 79,69). Emerge rispetto al contesto costruito; si mostra in modo dominante nel suo contesto urbano, pero questo emergere o dominare, non vuole rappresentare un ritorno nostalgico all’architettura monumentale del passato, che con le sue preminenze dimensionali ha falsificato i valori spirituali del cristianesimo, o un processo di esaltazione formale della composizione architettonica sacra, ma è un relazionarsi con l’habitat tale da costituire un forte richiamo simbolico di “luogo” d’incontro con Cristo: «segno della Chiesa pellegrina sulla terra e immagine della Chiesa già beata nel cielo»[6].
Una nuova immagine organica dell’edificio-chiesa così grande da evolversi nello spazio sociale urbano di Neviges come segno manifestativo di “simbolo” della realtà che in esso si realizza, cioè la comunione con Dio: l’edificio-chiesa come “icona escatologica”.

Fig. 7 St. Anna di Wipperfurth-Hammern, ©haemmern.de.

Anche la chiesa di St. Anna di Wipperfurth-Hammern (Fig. 7) si colloca con naturalezza nel contesto urbano del borgo, caratterizzando col proprio tetto acuminato il gioco uniforme degli altri tetti tipici del paesaggio del “villaggio” tedesco e confermando la suo vera significazione di messaggio cristiano nello spazio urbano.
La sua architettura “sacra” è destinata agli uomini perché se ne servono, perché la utilizzano per la loro vita e non soltanto perché la ammirino o ne traggono emozione estetica o conforto. È l’interpretazione dei bisogni pratici e spirituali dell’uomo ed è così ricercata e tradotta nelle forme edificate; e in tale manifestazione sono riassunti in fatto unitario i termini materiali e quelli immateriali che stanno alla base del problema.
E in questa luce ci presenta un linguaggio dell’edilizia sacra – confortata negli anni fine sessanta anche dagli impulsi del rinnovamento liturgico attivato dal Concilio Vaticano II – che trova riscontro nella pratica architettonica ecclesiale attuale.
È possibile constatare, nella qualità simbolica e formale, edifici religiosi che presentano sistemi compositivi attenti al messaggio cristiano e con schemi tipologici caratterizzati da un’aula sacra che ci invitano a partecipare attivamente alla celebrazione eucaristica.
Böhm ha saputo conformare, strutturalmente e spazialmente, edifici-chiesa capaci  di accogliere ed abbracciare l’assemblea celebrante anticipando la direttiva della CEI che recita: «la celebrazione della liturgia cattolica è tutt’altro che indifferente all’architettura e, viceversa, l’architettura di una chiesa non lascia indifferente la liturgia che vi si celebra»[7]. Le loro linee e volumi rivelano la grande personalità del progettista capace di proporre moderne, proporzionate e armoniche  forme, ‹‹rivoluzionando linguisticamente  i temi sacri così vincolati alla tradizione››[8].
La sua creatività esprime le architetture progettate dagli espressionisti, la Glasarchitektur, la Stadtkrone, l’Alpine Architektur, ecc., dirette a domare le caratteristiche più estremiste dell’avanguardia architettonica: la rivalità, il nichilismo, l’anonimato, la svalutazione della realtà, ecc.. Infatti, per sostenere i sui valori di un’architettura che affondi i suoi principi nella «spiritualità», egli si rivolge ad una umanità aggregata e senza divisioni di classi che tenda all’unificazione eliminando ogni forma di alienazione umana, pietoso, se si vuole, ma di estrema coerenza.

Fig. 8 St. Mattäus, Düsseldorf-Garath, von Sueden,©de.wikimedia.org.

Questo sistema compositivo “di sostanza cristiana”, lo ritroviamo nelle chiese di St. Mattäus, Düsseldorf-Garath (Fig. 8), di St. Anna, Wipperfüth-Hämmern, di St. Gertrud, Köln (Fig. 9) e nel santuario di St. Mariä, Königin des Friedens, Velbert- Neviges .

Fig. 9 Vista esterna, St. Gertrud, Köln,©de. wikimedia.org.

In opposizione al Movimento Moderno che, nel nome del suo funzionalismo abolì ogni principio espressivo e simbolico riducendo «le forme architettoniche ad una rigorosa razionalità, intesa come deduzione logica (effetti) da esigenze obiettive (cause)»[9], denunciava una perplessità legata alla valenza simbolica, significativa e comunicativa degli spazi e in generale dell’oggetto architettonico, Böhm, nella sua architettura sacra, ha elevato il  formare simbolico non solo a livello comunicativo ma anche di rivelazione.
Infatti, un aspetto di questo formare, fatto di forme formanti, di spazi e di linguaggi figurali, è la qualità ontologica che deve saper far veicolare, al punto tale da far sentire al fedele la presenza del Cristo Risorto. Questa dimensione trascendentale del “rimandare a” è diventata la sostanza di ogni suo elemento formale.

Fig. 10 Vista interna, St. Gertrud, Köln,©de. wikimedia.org.

Questo dar forma simbolico acquista rilevanza nella chiesa di St. Gertrud Köln (Fig. 10) e in un metodo ancor più determinante nella chiesa di St. Maria Hiemsuchung Impekoven After-Oedekoven (Fig.11). Qui l’organizzazione interna dell’aula, che ha tenuto presente i bisogni di visibilità, è priva di elementi di frammentazione dello spazio come: pilastri, ambulacri, transenne, pareti, ecc.; agevola gli spostamenti e i movimenti previsti dalla celebrazione; annulla i fattori architettonici di deconcentrazione dell’azioni liturgiche come: arredi non armonizzati, ingombranti ed eterogenei, finti marmi, finti legni, colonne, ecc..

Fig. 11 St. Mariä Heimsuchung Impekoven, vista esterna (©de.wikimedia.org After-Oedekoven) e vista interna (© Amelie Rogall e Boris Dorau 2019).

Contemporaneamente, Böhm, per ottenere un risultato qualificante, attua delle soluzioni architettoniche tali da rendere l’aula unitaria, dinamica e accogliente: studio della luce naturale e artificiale (vetrate piccole e grandi e lampade a faretti e a sospensioni), dove «i particolari propri strutturali dell’edificio religioso assoggettati da questa luce subiscono una “liberalizzazione” dalla loro realtà materiale e non contrastano più ad un senso di percepire trascendentale. La luce magnifica e rivela lo spazio, non più, quindi una manifestazione solo d’irradiazione luminosa, ma diventa la parte costitutiva dello spazio; un elemento architettonico costruttivo capace di organizzare e temprare il “vuoto” dell’edificio-religioso»[10].
Al contrario di quello che è possibile constatare nelle costruzioni cosiddette “moderne”, la mancanza di uno studio profondo del problema luce, la mancanza di contrasti e di effetti chiaroscurali, non risveglia nell’assemblea quei sentimenti tesi verso una speranza ed una attesa; essa non permette al “luogo” di penetrare nel suo Mistero: Cristo luce del mondo.
Nella chiesa di Christi Auferstehung, Köln-Melaten, Böhm ha saputo coniugare, con  esperienza liturgica e con uno schema tipologico innovativo,  uno spazio “sacro” centrale, polarizzato centripetamente sull’unica mensa eucaristica, con una contenuta assialità longitudinale dell’aula religiosa, rappresentata dall’asse di “simmetria” della pianta, la quale partendo dall’area d’ingresso (porta) arriva al catino absidale.
Tale organizzazione dello spazio liturgico configura , in una visione simbolica sacramentale, una ecclesiologia cristocentrica che colloca al centro dell’azione liturgica il rapporto  celebrante e fedele e un cammino d’iniziazione cristiana (porta = catecumenato, abside = cresima = confermazione).
Altre componenti iniziatiche che simbolicamente esprimono la separazione dalla morte alla vita, dal peccato alla Grazia, le ritroviamo in questo manufatto all’interno non solo con la forza significante dell’unico altare ma coll’ambone, mensa della Parola  che converte; con  l’acquasantiere all’entrata e con un ambiente raccolto e bene illuminato;  con le  nervature della struttura portante, che si slanciano con forza verso l’alto, mentre all’esterno con i gradini, col sagrato, col varco d’ingresso all’esterno[11].
Una citazione magistrale di questa defamiliarizzazione è la spiegazione che Romano Guardini fa dei gradini della chiesa: «Li hai saliti infinite volte. Ma hai penetrato quello che, in quel mentre, avveniva in te? Avviene infatti qualcosa in noi quando ascendiamo. Soltanto, è cosa molto delicata e silenziosa, che si può facilmente lasciar perdere senza percepirla. Qui si manifesta un grande mistero. Uno di quei fenomeni che procedono dal fondamento della nostra essenza umana; enigmatico, non lo si può risolvere in concetti, eppure ognuno lo intende, perché è il nostro intimo che vi parla. Quando saliamo i gradini, non sale soltanto il piede, bensì anche tutto l’essere nostro. Anche spiritualmente noi saliamo. E se lo facciamo consapevolmente, presentiamo di ascendere a quell’altezza dove tutto è grande e compiuto: cioè al cielo in cui abita Dio.[…]. È dall’essenza nostra che ci scaturisce il senso che il basso è similitudine del meschino, del pravo, l’alto similitudine del nobile e del buono… Non lo possiamo spiegare, però è così: lo percepiamo, lo intuiamo. Perciò quei gradini […] dicono: “Tu sali alla casa della preghiera, più vicino a Dio”[…] e dalla navata della chiesa al coro nuovi gradini che dicono: “Ora ti introduci presso l’Altissimo”[…]. Levati i calzari, questo è terreno sacro»[12].
Un altro elemento fondamentale di questo “successo” è il suo concetto di sagrato, che in molte delle sue chiese assume non solo valore urbanistico di microcosmo urbano (spazio antistante l’ingresso della chiesa) inserito in uno spazio urbano più ampio e definito (quartiere/rione), ma di essere capace di esprimere significativamente quello che celebriamo nella liturgia, quindi essere oltre che segno simbolico, anche segno liturgico. Questo idea pone la sua ricerca architettonica ad elaborarlo non solo come luogo d’incontro, di socializzazione – prima della messa e nel quotidiano di tutti i giorni-, sviluppando quella valenza significativa di “soglia” e di “accoglienza”, ma, anche, come una normale estensione dello spazio interno della chiesa, in attesa d’incontrare l’Assoluto. Una chiara espressione di questa metodologia compositiva e la chiesa di Christi Auferstehung, Köln-Melaten, 1964 -1970.
La chiesa di St. Anna di Wipperfurth-Hammern si trova a una certa distanza dall’abitato: qui il sagrato diventa anche elemento di connessione col borgo. Questa condizione e la limitatezza dello spazio disponibile hanno suggerito di realizzare un sagrato che fosse anzitutto segno: ecco quindi la scalinata che pone in rilievo la presenza della porta, elemento significativo, dal grande potere evocatore, tanto ad essere simbolo mediatore tra l’uomo e Cristo.
Per Böhm il sagrato è un elemento segnico caratterizzante l’edficio-chiesa  nel rapporto con il contesto urbano, tale da far percepire al membro della comunità cristiana e/o all’uomo della strada, di essere in un luogo apposito ma non isolato rispetto al territorio urbano, per  cui non è stato mai abbrutito con barriere tipo recinzioni o inferriate, ma ha ricercato altre soluzioni architettoniche che hanno reso visibile  questa “separazione” ma non la divisione nei confronti dell’ambiente urbano.
Un’altra componente, importante, di queste sue composizioni sono le pareti laterali, le quali non solo svolgono la funzione di separazione tra il «vuoto» dell’edificio e la sua struttura esterna, il suo «involucro», ma svolgono, attraverso l’arte vetraria, l’attenzione alle proporzioni prima con il cemento a vista e poi con i mattoni e l’acciaio che le caratterizza, un ruolo di trasmissione ed in qualche modo rivelare e valorizzare, nello spazio nel quale si svolge la celebrazione eucaristica, quel senso del mistero ed invitare alla preghiera tutta l’ecclesia riunita.
Questi elementi verticali sono composti quindi da movimenti plastici che delimitano la spazialità dell’aula liturgica[13] e da vetrate, studiate per illuminare, tra giochi di luci ed effetti policromatici, l’ambiente interno ed evidenziare senza mettersi direttamente in mostra la sintonia tra terra e cielo, con l’alternarsi della luce “naturale” e la notte. Immediatamente avvertiamo la sensazione di trovarci immersi in una attenuata oscurità colorata, creata sapientemente da questo gioco di luci artificiali e colori, tali da lasciar sbiadire nel proprio intimo le preoccupazioni materiali e psicologiche. Questo straordinario artificio di luce nasce dalle vetrate che frammentano le pareti laterali da ogni lato: la luce infatti, filtrando attraverso il vetro, acquista intonazioni a seconda dell’ora e dell’angolo d’incidenza del raggio solare.
Recupera nelle sue opere religiose il campanile come un componente simbolico esterno capace di coinvolgere nell’evento salvifico tutto l’ambiente circostante. Quindi, non come un semplice manufatto di supporto per le campane, ma come elemento costitutivo della composizione architettonica.
Un’architettura che vuole recuperare l’espressività simbolica dell’edificio-sacro, l’immagine dell’edificio-ecclesiale capace di parlare all’uomo scristianizzato, non può far meno di questo segno sacro.. Anticipando la Nota Pastorale della CEI che in proposito al n° 22 recita testualmente: «Il campanile non deve essere escluso dalla progettazione;…, può costituire un qualificante componente di riconoscibilità dell’edificio religioso»[14].
Nelle chiese di Brul, St Franziskus, St Lambertus, St Maria Heimsuchung, St Paulus Bonn, St.Ursula, St. Gertrd, Koln, oltre al valore simbolico costatiamo che il sistema costruttivo e il dimensionamento del campanile tiene presente il continuo architettonico sia dell’edificio-chiesa che del contesto urbanistico.
Riassumendo possiamo con fermezza scrivere che lo spazio liturgico risponde a tre fondamentali requisiti liturgici: la collocazione spaziale fissa dei fuochi liturgici, in modo da creare una interrelazione tra essi distinta e libera evitando, nello stesso tempo, eventuali  mescolanza. Questo loro ordine “geometrico-spaziale” li rende visibili, fruibili e udibili da tutto lo spazio sacro; l’altare isolato,  posto al centro (centralità dinamica e non geometrica/spaziale) e non nascosto da schermi o transetti, concretizza le formulazioni conciliari e l’esperienza liturgica di Romano Guardini che a proposito dello spazio sacro affermava: «Il suo centro è l’altare, che rappresenta al contempo il centro del mondo, ogni altare in ogni chiesa»[15]; e il terzo requisito è la creazione di un nuovo spazio cristiano unificato, compatto e raccolto che, abolendo la struttura gerarchica della comunità, realizza quella “actuosa partecipatio” più volte citata dalle normative conciliari del Vaticano II.
A queste tre caratteristiche liturgiche si affiancano i tre concetti architettonici che hanno guidato Böhm nella progettazione: il porre in evidenzia gli elementi strutturali, sia all’interno che all’esterno, come fattori diretti della espressione della chiesa; il dare un ordine architettonico anche agli spazi esterni  che circondano la chiesa e di fondere organicamente tutto l’edificio-chiesa col suo paesaggio naturale; il dare valore al campanile che, posto come un grande segno simbolico, è capace, con il suo archetipo architettonico, di indicare e potenziare visibilmente e acusticamente, nel suo contesto territoriale, la presenza del Cristo Risorto.

Note bibliografiche

[1]   MariaAntonietta Crippa, AA.VV., Architettura del XX secolo, Editoriale Jaca Book S.p.A., Milano 1993, p. 162.
[2] Cfr, Wolfgamg Pehnt, Die Architektur des Expressionismus, Stuttgart 1973.
[3] Cfr, www.unitalsiemiliaromagna.it/Sezione/SantuariGermania.
[4] Bruno Zevi, Saper vedere l’Urbanistica, Giulilo Enaudi Editore, Torino 1974 (terza edizione), p. 14.
[5] Gottfried Böhm, contributo al simposio del BDA (Bund Deutscher Architekten) del 1991: Romanische Kiechen,  “Köln zwschen Denkmalpflege und Denkmalzerstörung”.
[6] Pontificale Romano, Dedicazione di una Chiesa, Premessa N° 28.
[7] CEI, L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica, 1996. 
[8] Bruno Zevi, Cronache di architettura, vol II, sec.ediz., Editori Laterza, Roma-Bari 1978, p.69.
[9] Cfr., G.C. Argan, L’arte moderna 1770-1970, Sansoni, Firenze 1970, pp. 324-25.
[10] Maurizio Abeti, Un’architettura cristiana per una nuova assemblea celebrante, Luciano Editore, Napoli 1998, p. 128.
[11] Cfr Roberto Tagliaferri, Spazio sacro ed esperienza religiosa, cit in AA.VV.,  L’architettura dell’edificio sacro, a cura di Adriano Cornoldi, Officina, Roma 1995, p. 41. Romano Guardini, I santi segni, in Lo sprito della liturgia, Editrice Morcelliana, Brescia 1980, pp, 150-152.
[12] Cfr., Maurizio Bergamo, Spazi celebrativi-figurazione architettonica-simbolismo liturgico. Ricerca per una chiesa contemporanea dopo il Concilio Vaticano II, il Cardo Editore 1994, p. 138.
[14] CEI, La progettazione di nuove chiese, 1993.
[15] Romano Guardini, Il testamento di Gesù, Milano 1993, p. 98.

 
Abeti Maurizio
Graduate in architecture
Independent researcher
Via SottoTen. Gaetano Corrado  n. 29 - 83100 Avellino (Italy) 
cell. Phone: +393393146816 
email: maurizioabeti@gmail.com
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