Giuseppe Arcidiacono



Il tema proposto – Architettura oltre la forma – lo interpreto come un ossimoro: perché l’architettura si occupa di dare forma alla realtà; e senza una forma l’Architettura non è. D’altra parte, poiché la forma è sempre ‘la forma di un contenuto’, penso che si debba riflettere sulla rinuncia di molta architettura contemporanea a riconoscersi attraverso un progetto della forma come forma di conoscenza. In altre parole, l’architettura contemporanea va ‘oltre la forma’ quando assume le forme come intercambiabili, e pratica una babele linguistica dove la forma scade a prêt-à-porter consumistico per celare il vuoto del progetto; cui corrisponde la bulimia delle nostre città ‘oltre la forma’, per assenza di governo, di responsabilità, di progetto.

Quando l’architettura rinuncia a dare forma ai mutamenti del territorio, entrano in gioco i meccanismi del mercato portando acqua al loro mulino, come gli automi messi in moto – nel film Fantasia – dall’imbranato apprendista-stregone: che non sa governare lo scientismo acritico, e rischia di affogarvi. Purtroppo non possiamo affidarci ad alcun sapiente, il quale con la bacchetta magica metta a posto le cose; l’unica maestra è la Natura: che qualche calcio nel sedere prova a darcelo per farci rinsavire; ma la nostra protervia è tanto grande – ‘il male è stupido’ dice S. Agostino – che apprendere di tonnellate di petrolio che inquinano il mare ci sembra una follia … solo per quello che costa al barile.
Se facendo a scaricabarili, demandiamo il nostro abitare la natura a qualche nuova, seducente, e sedicente scienza dell’ambiente (che ci sia ciascun lo dice, cosa sia nessun lo sa) potremo far finta – con buona pace di Heidegger – che l’abitare dell’uomo sulla terra non riguardi l’architettura, e piangere sulla natura ‘incontaminata’ che continuiamo a contaminare, salvo a giustificarci col fatto che se uno non inquina fa la figura del morto di fame.
In realtà, non serve né predicare una appartenenza alla natura che risolva attraverso l’ecologia i problemi dell’architettura (‘ognuno ha i suoi problemi, signora mia’), né praticare un nuovo luddismo: l’architettura deve avere consapevolezza delle sue risorse e dei suoi compiti, sapendo che designare e disegnare l’abitare dell’uomo sulla terra
la obbliga a fare i conti con la natura, ad appartenere ad essa e insieme ad affrancarsene attraverso la tekne; una tekne che non è più salvifica ma problematica, perché – come scrive Aimaro Isola – ‘senza la tekne l’uomo non avrebbe né dimora né logos (quindi sarebbe nulla), ma attraverso la tekne espone al rischio l’ambiente e se stesso’: per questo, dobbiamo ‘prendere coscienza delle nostre ineludibili responsabilità nei confronti della natura, di noi stessi e della nostra storia’.1

Via Appia, 1978
Casa dell’Amicizia per Salvatore Mirone, 1979

Architettura e Natura sono termini che costantemente si porgono alla nostra riflessione come opposti e complementari. L’architettura istituisce un ordine, una misura della realtà, e suggerisce il suo valore di arché, di ‘principio’. La natura si offre (in quanto realtà esistente) come un valore che pre-esiste, un ordine che è al di sopra di quello umano, e che inevitabilmente lo contiene e lo regola. Questo sarebbe sufficiente a giustificare il rapporto irresoluto e mutevole tra architettura e natura. Se non bastasse, la natura col suo tempo ciclico e perenne, sembra opporre ad ogni temporale abitare un noli me tangere, che esclude l’architettura o la include solo per dissolverne i materiali in materia. Ma la natura si presenta anche quale risorsa inesauribile per lo sviluppo dell’abitare umano, costituendo il luogo del progresso
scientifico: progresso che agisce nella natura per distaccarsi dalla natura. Appartenere e/o distaccarsi dalla natura è dunque il movimento contraddittorio che, come un pendolo, misura nel tempo le oscillazioni del pensiero scientifico come di quello architettonico. Certo è che – con la rivoluzione industriale – il progresso scientifico e lo sviluppo produttivo hanno sostituito il paesaggio naturale con quello artificiale (come mostravano già nel XIX secolo i disegni di
Pugin); e sono dilagati quei ‘nuovi’ paesaggi industriali che Schinkel nel 1830 tratteggiava come monito o profezia: paesaggi invasivi, non solo dell’ambiente fisico, ma del senso stesso dell’abitare. Se il binomio abitare/esistere è stato surrogato dal binomio comunicare/esistere, oggi questo comunicare mortifica il linguaggio-logos in frastuono da analfabeta: che si esaurisce nel balbettio violento delle pubblicità; che si manifesta ‘oltre la forma’, nell’ordinata e ordinaria ferocia delle nostre metropoli.
Ci siamo affrancati da una natura nemica, solo per smarrire il senso del nostro abitare. Ma è possibile risarcire il dialogo con l’ambiente senza cadere nella trappola della nostalgia, nel pianto delle Eliadi che invocano il ritorno a uno stato di natura? Il sogno regressivo dei giardini d’Armida può cullarci immemori di virtù e conoscenza a risvegliarci nell’incubo di una esistenza vegetativa, dove rischiamo di restare incapsulati come nei baccelli materni e tombali degli ‘ultracorpi’
di Don Siegel.

Sulla Rocca di Cefalù, 1979
L’isola Ferdinandea, 1993
Grand Tour, 1978

Il disincanto del progresso può volgere le nostre riflessioni verso l’origine; ma a patto che non ci nascondiamo il nostro Edipo, la paura e il desiderio della Grande Madre che contiene il cosmos-ordine: da cui ogni costruzione risulta ‘naturata’ più che architettata, uscita dal seno ma pronta a tornare in grembo alla natura. Se tutto questo si inscrive in un principio di vita e morte delle cose umane, che è principio di palingenesi: di incessante ri-creazione della natura attraverso il
lavoro dell’uomo, e di incessante cancellazione del lavoro dell’uomo nella natura: allora potremo guardarci indietro senza restare di sasso o di sale.
Perché da un lato riusciremo a sopportare che la natura sia cultura: sia frutto delle azioni umane, che modellano l’ambiente, che disegnano il paesaggio (per ritrovare in questo modo il senso, il valore, la responsabilità delle azioni umane); dall’altro lato, sapremo sopportare il fatto che la tradizione che fonda questo agire dell’uomo non ha tuttavia
fondamento, ma è solo un accumulo di ripetizioni e tradimenti: perché questo è appunto la cultura: un tumulo di detriti, che però ‘agisce’ un salutare rovesciamento della nostra percezione del mondo.
‘Ogni progresso decisivo nell’ordine della conoscenza risulta da un tale rovesciamento’2 – scrive Hirsch, sottolineando come il processo conoscitivo sia dinamico e, pertanto, implichi un movimento, anzi un doppio movimento: di andata/ritorno, utile a collegare le coppie duali (passato/futuro, spirito/materia, natura/cultura, etc.); ma tenendo presente – come spiega Biedermann – che ‘questa visione del mondo in tesi (…) e antitesi, ha in sé un dinamismo tale da non potersi risolvere in alcuna sintesi reale’ perché ‘i sistemi dualistici sono strutture simboliche che traggono senso dalla tensione tra due componenti, laddove il singolo elemento, isolato, avrebbe minore forza’.3
In altre parole, quando ci rappresentiamo la contraddizione natura/ architettura dobbiamo risponderci che non ha molto senso tentare di superarla, ma ha senso praticarla: perché tutta l’energia sta appunto in questa irriducibile contraddizione.

Appartenere e/o distaccarsi dalla natura è una contraddizione propulsiva nel progettare il nostro abitare.
Questo doppio movimento che caratterizza il processo della conoscenza si presenta simbolicamente nell’espansione orizzontale e ‘rovesciata’ dell’albero del bene e del male (iconografia del Liber floridus, sec. XII); nel movimento ascendente/discendente dell’albero alchemico, ‘albero dei pianeti’ che rovescia il macrocosmo nel microcosmo; o, infine, nell’enigmatico albero rovesciato, comune a molte culture orientali, a partire dall’albero ‘sefirotico’ della Cabala e della
tradizione mediorientale, per finire nell’estremo oriente dove lo stupa buddista contempla il percorso ascendente della montagna sacra ed il suo rovesciamento in albero del cielo che distende la sua chioma sulla terra.4 Tutti questi simboli ci parlano del rispecchiamento e insieme del rovesciamento di un ordine naturale, al quale si accompagna il senso propulsivo della conoscenza con quello della colpa che ha dato inizio al nostro stare nel mondo.
È la colpa che priva Adamo dei benefici della natura, e lo porta – come dice Filerete – ‘a farsi tetto delle mani’, istituendo l’analogia del corpo umano come prima architettura. È la colpa che spinge Caino a fondare la prima città, in opposizione e per l’esclusione dal consorzio naturale violato con l’uccisione di Abele, il pastore nomade che abita la natura. I fratelli discordi della Bibbia si rispecchiano nei gemelli, complementari e opposti, del mito greco: Anfione, l’architetto che con il canto (con il logos) alza le mura di Tebe, città della discordia; e Zeto, il cacciatore che vive nei boschi in compagnia delle fiere. Allo stesso modo, da una colpa – quella di Prometeo – e da una caduta – quella di Efesto, in rivolta contro il padre – nasce intorno al fuoco la civiltà degli uomini e appare la prima capanna: come ce la rappresenta, alla fine del Quattrocento, Piero di Cosimo nelle Storie dell’umanità primitiva che traggono spunto dalle Genealogiae Deorum di Boccaccio e dal testo di Vitruvio.
Insomma, è sempre a Vitruvio che andiamo a finire; anzi a cominciare: questo grande fondatore di una tradizione che era già confusa ed oscura ai tempi suoi, e che egli ci porge in modo ‘pasticciato’, ma per noi geniale (suo malgrado). Vitruvio dapprima pone gli uomini a raccogliersi intorno a un fuoco: dove ha inizio il linguaggio, e immediatamente
dopo ha luogo il costruire; consecutio temporum non priva di conseguenze, dal momento che l’architettura discendendo dal logos viene strutturata come costruzione logica, secondo ‘un paradigma linguistico’.5
Questa deriva vitruviana consentirà al sistema degli ordini rinascimentali di fondarsi ‘sulla doppia articolazione di un repertorio lessicale normalizzato e di un prontuario sintattico di formule prospettico-proporzionali, che ne assicurano il montaggio’.6 Ma la messa a punto di questo codice linguistico per essere perfetta avrà bisogno tuttavia di riscattare la sua composizione artificiale ed arbitraria attraverso la superiore prescrittività della natura: ed ecco allora l’architettura prendere per i suoi rapporti proporzionali come naturale modello il corpo umano idealizzato: hominis bene figurata ratio si dirà, citando ancora una volta un passo di Vitruvio. Una ratio, questa, che viene enfatizzata appunto dal linguaggio (si pensi alle espressioni ‘capo di stato’, ‘braccio della legge’); e che nell’architettura si cala proprio sui termini che indicano le unità di misura del sistema proporzionale e costruttivo (la misura del ‘braccio fiorentino’, i ‘piedi’, i ‘pollici’). Non ci stupirà allora il persistente successo che saprà guadagnarsi l’analogia tra il corpus disciplinare dell’architettura e il corpo umano: interpretato come espressione di microcosmo che riflette il macrocosmo; come tempio dello Spirito; come compendio della bellezza del creato.

Questo non vale solo per i trattatisti neoplatonici del Rinascimento; ma anche per gli illuministi ‘razionalisti’ come Boullée: il quale in Architettura. Saggio sull’arte esordisce: ‘io intendo per arte tutto ciò che ha per oggetto l’imitazione della natura’;7 e ne deduce per l’architettura che ‘noi definiamo belli gli oggetti che hanno il massimo d’analogia con la nostra struttura’:8 cioè con il corpo umano, del quale esalta i principi elementari e astratti di simmetria e regolarità (restituendo ancora una volta un codice linguistico).
Di questo passo, si finisce per raggiungere le soglie della modernità, col Wöllflin: che, mentre scriveva Rinascimento e Barocco (1888), aveva modo di confrontarsi con la concezione ‘vivente’ dell’architettura che trova esemplificazione nell’abbraccio del Colonnato di S. Pietro a Roma; e di seguito elaborava una sua visione psicologica/fisiologica
dell’architettura: secondo la quale ‘noi interpretiamo tutto il mondo esterno attraverso il sistema espressivo che ci è divenuto familiare tramite il nostro corpo’, usando quindi categorie di duali (sopra/sotto, alto/basso, etc.) che organizzano l’architettura come ‘arte di masse corporee’.9

Fata Morgana, 1985
Ne perdons pas de vue notre petite cabane rustique!, 2000

Insomma, per tornare a Vitruvio, mai quattro chiacchiere intorno al fuoco furono così gravide di conseguenze: perché, quando da codesto focolare si passa a metter su casa (e siamo già alla seconda origine), gli uomini ‘cominciarono in quella loro primitiva società chi a costruire capanne coperte di frasche, chi a scavare caverne sotto i
monti’.10 Come a dire che gli archetipi sono due, la capanna e la grotta; anche se la prima ha avuto maggior fortuna, tanto da proporsi a modello perfino nella Natività a dispetto dei sacri testi.
Infatti, se nei mosaici del Cavallini c’è la grotta, poi la capanna sopravanza, e con Masaccio c’è solo la capanna e le rocce finiscono sullo sfondo; in un disegno di Raffaello la capanna è contornata da templi, a suggerirne la futura trasformazione in pietra; e nel Bassano questa trasformazione si conclude con la metamorfosi dei tronchi di sostegno in colonne:11 come a dire che, in due secoli, i ragionamenti elitari di architetti neoplatonici hanno trovato accoglienza e diffusione popolare nel presepe.
Ma tra gli architetti ci sono quelli saturnini che ‘tifano’ per la caverna: Dietterlin – contemporaneo a Jacopo Bassano – nel libro di incisioni Architectura (1589) usa un ordine rupestre per la sua capanna che in verità è una grotta. Il tuscanico, infatti, ha poco a che spartire con le proporzioni olimpiche di un corpo umano perfetto, ma ha luogo piuttosto come ordine di natura ferina e ‘bestiale’; connesso alle fatiche di Atlante, o a quelle meno eroiche del contadino che zappa la terra. Per questa sua natura ‘plebea’, l’ordine rustico viene posto dai trattatisti rinascimentali a ‘un gradino inferiore nella scala discendente verso le origini naturali dell’architettura’;12 ma appunto questo suo essere più vicino alla natura rende le pietre sbozzate ed i conci appena cavati gli elementi più opportuni a esorcizzare la fatale caducità ell’architettura; quando Bernini vorrà, nel progetto del Louvre o a Montecitorio, non già creare il rudere dove i materiali tornano materia, ma – come ha dimostrato Fagiolo – ‘sovrapporre all’architettura la vita e le fasi eterne della natura’.13
La dialettica tra artificio e natura inasprisce – se così si può dire – la competizione tra gli archetipi vitruviani, con ’architettura che si ingegna a fabbricare rocce e grotte artificiali o che mima essenze arboree: nell’Hortus Palatinus (1615) di De Caus a Heidelberg si assiste a una inquietante presenza di una centina-capanna all’interno e a sostegno
di una caverna oscura, dove si ritaglia in negativo una maschera antropomorfa (come a dire di tutto, e di più).
Di certo, questa centina di pietra è un paradosso architettonico, come quello del ramo-arco di pietra della cattedrale di Ulm; paradossi suggestivi, perché ci fanno riconoscere quel fantasma poetico che ci commuove in ogni trave di solaio o di capriata: avvertire l’albero che essa era (e che abbiamo finito di fare a pezzi, anzi a pezzettini, con l’artificio del legno lamellare). Nel procedere dal legno alla pietra, o nel riconoscere dietro ogni elemento (lapideo) dell’architettura la materia (lignea) di cui era fatto; come nel costruire con materia nuova (oggi le nostre nuove materie, le nuove ‘nature’ dei materiali artificiali o ricomposti): in questo c’è, ancora una volta, il movimento della conoscenza, che procede nella
natura e se ne allontana, che appartiene alla natura e se ne affranca.Quando Vitruvio scrive: ‘l’uomo è pronto per natura ad imitare e ad imparare: perciò (…) esercitando l’ingegno a gara miglioravano continuamente i loro criteri di costruzione. In un primo tempo, eretti dei pali legati l’un l’altro da rami trasversali, costruivano muri con il fango.
Altri li fabbricavano con blocchi di argilla disseccati’:14 egli non solo descrive l’ulteriore passaggio dalla capanna all’architettura vera e propria; ma in questo ‘terzo incominciamento’ ci dà un nuovo paradigma, che è quello della mimesis della natura.

Imitare e imparare dunque; ma ‘esercitando l’ingegno a gara’: in gara tra gli uomini e soprattutto con la natura. Allo stesso modo, l’aneddoto di Callimaco – riportarto sempre da Vitruvio – ci racconta di una mimesi che emula e ri-crea la natura (dell’acanto) in un artificio (il capitello corinzio); ma ci parla anche di un ordine (architettonico) che deriva da leggi naturali per acquisire struttura canonica che non lascia spazio alle accidentalità della natura né a discrezionalità soggettive.
Dunque il principio di imitazione permette a Vitruvio di sfornarci i passaggi dall’albero, alla costruzione lignea, a quella in muratura; ma il principio di emulazione – che è superamento/tradim
ento del modello
naturale – ne permette la contestazione.
Quatremère de Quincy nel suo Dizionario del 1832, alla voce ‘architettura’ fa piazza pulita del fatto che la colonna possa mai essere stata una copia dell’albero; e ribadisce ‘che tutto quanto concerne la sua imitazione è fondato sull’analogia’.15 Di questo passo, la capanna primitiva di Vitruvio e soprattutto quella che Laugier aveva proposto nel
1753 come il principio dell’architettura, veniva giustamente intesa da Quatremère non come un antecedente storico, ma come l’antecedente logico: ‘la nostra capanna modello è un sistema di teoria’.16
Lontana sia dalla natura, sia dalla storia (come evoluzione antropologica), l’origine dell’architettura sta nei suoi stessi procedimenti: ‘nei procedimenti, secondo i quali’ – ha sottolineato Vidler – ‘i suoi elementi di base erano stati riuniti realmente, secondo le leggi razionali di una grammatica e di una sintassi, che dovevano costruire il suo lessico’.17
In questo modo si ritorna al logos: al codice linguistico, che quando riconosce la sua costruzione logica tutta interna ed immanente, deve anche riconoscere di essere inevitabilmente una composizione artificiale ed arbitraria: ora che non sa e che non vuole più accedere alla superiore prescrittività della natura.
Se Vitruvio ci aveva dato un inizio pieno di ricominciamenti, sui quali gli architetti hanno scritto trascrizioni di trascrizioni, cancellature e rifacimenti; la capanna di Laugier ci restituisce uno sguardo finalmente nitido sulla origine logica del procedimento costruttivo, perché la capanna è un antecedente e insieme un artificio teorico; ma agisce come un cannocchiale rovesciato nei confronti della natura, allontanandola sempre di più dalla nostra esperienza.
Lontani dalla natura, sentiamo più forte la nostra indigenza: siamo come il nudo Adamo di Filerete; o come l’architetto sradicato che Loos descrive incapace di abitare le rive del lago che il contadino sapeva abitare con naturalezza. Perché fintanto che siamo immersi nella natura, la sappiamo misurare, la sappiamo usare: essa ci appare come unità della phisis, con la sua perfetta struttura geometrica perfettamente intelligibile perché è quella dei nostri strumenti di misura e di uso: dei poderi segnati dai nostri aratri, delle cartografie disegnate dai nostri compassi. Ma più ci allontaniamo dalla natura, più proviamo la meraviglia e lo sgomento di contemplare una natura molteplice e complessa dove le perfette geometrie da noi immaginate cedono il posto (come nel Monte Bianco ‘interpretato’ dai disegni di Viollet-le- Duc) a una erosione di senso, di certezze, di materia fisica che non sappiamo più abitare.
Possiamo e dobbiamo provare sgomento per il nostro distacco dalla natura; quello stesso sgomento che Heidegger dice di aver provato non per gli uomini sulla luna, ma per la terra vista dalla luna: perché quello sguardo esprimeva un distacco profetico e reale dal nostro abitare sulla terra, dal nostro abitare la natura.
Ma poiché il vero cambiamento è in noi stessi e nella nostra percezione del mondo, dobbiamo anche prendere coscienza che in questo modo abbiamo acquistato una nuova prospettiva sul mondo e sulla natura: abbiamo imparato che la natura è cultura; ma che la cultura non ha fondamento (oppure ne ha molti – troppi – come gli ‘incominciamenti’
di Vitruvio); e abbiamo imparato che per andare avanti c’è bisogno di operare un ‘rovesciamento’, adatto a farci conoscere – o riconoscere – un nuovo ordine, un nuovo ‘principio’ delle cose, una nuova alleanza tra architettura e natura.
Le foto satellitari del fiume Colorado o quelle del Gran Canyon – che ci riportano alla analogia tra la terra e l’albero – mostrano quella complessa struttura dei frattali che presenta un ordine/disordine ramificato, fluttuante in infinita progressione temporale: che è lo stesso ordine/ disordine che erode e ricompone le montagne disegnate da Viollet-
le-Duc; che crea tanto il disordine squisito del corallo, come l’ordine dei flussi venosi del corpo umano. Come in un gigantesco frattale troviamo sparso nell’universo un sistema di ramificazioni dove nell’apparente disordine gli stessi dettagli si ripetono alle diverse scale d’ingrandimento.
Strutture ordinate del Caos, nuova geometria della natura: possiamo dirli questi frattali; e sembrano porgere una nuova
alleanza con la natura che rimette in circolo le corrispondenze tra architettura e natura, tra microcosmo e macrocosmo.
Questo non significa per l’architetto copiarne le forme esteriori, ma intenderne la struttura ‘in divenire’ (che non può ancorarsi al sapere di Galilei o di Newton, a leggi fisiche che avvengono nello spazio come in un ‘eterno presente’ dove i fenomeni sono stabili, ripetibili, e quindi reversibili); significa, al contrario, sforzarsi di intenderne la struttura che è funzione della irreversibilità, della freccia del tempo.
Significa l’impossibilità del ritorno; significa che il doppio movimento nelle strutture duali della conoscenza permette solo di andare avanti (come il moto di un pendolo segna solo un tempo che procede), e che pertanto nella nostra capacità di progettare oggi il nostro essere/abitare si gioca – come ha scritto Gabetti – ‘non soltanto il nostro destino come futuro, ma anche il nostro passato: quindi la nostra storia intera’.18
Sempre di più lo spazio diventa in questo modo una funzione del tempo e il tempo diventa la vera misura/dimensione dello spazio: una dimensione stratificata, dove le cose coincidono e non coincidono, ramificandosi e fluttuando tra ordine e caos; conquistando un nuovo ordine urbano che contiene il tempo della città, tutti i tempi della città e tutte le architetture della città, ramificate e in bilico tra un ordine di architettura e un disordine di natura, tra un disordine di architettura e un ordine di natura.
Natura, infine, come processo di cultura, come progetto di architettura ordinato dal tempo e nel tempo; anche cancellato nel tempo e reso cenere dal tempo per l’accumularsi di un disordine apparente che si leva verso un ordine volatile e più lieve.

1. Isola Aimaro, Pietre e paesaggi, in ‘Annali dell’Accademia di Agricoltura di Torino’, 138, 1995-1996, pp. 111-112
2. Hirsch Charles, L’Arbre, Paris, Félin, 1987, ed. it. L’Albero, Roma, Ed. Mediterranee, 1988, p. 82
3. Biedermann Hans, Knaurs Lexikon der Symbole, München, Droemersche Verlagsanstalt T.K.N., 1989, ed. it. Enciclopedia dei Simboli (a cura di Felici L.), Milano, Garzanti, 1991, p. 162
4. Random Michel, Introduzione, in Hirsch C.,
L’Albero, op. cit., pp.
8-12
5. Vidler Anthony, La capanna e il corpo, in ‘Lotus’, 33, 1981, p. 110
6. Nel passo riportato il corsivo è di Arcidiacono. Fagiolo Marcello, Rinaldi Alessandro, Artifex et/aut natura, in ‘Lotus’, 32, 1981, p. 113
7. Boullée Etienne Louis, Architecture. Essai sur l’art, ed. it. Architettura. Saggio sull’arte, Padova, Marsilio, 1967, p. 62
8. Boullée E. L., ivi, p. 65
9. La citazione da Rinascimento e Barocco di Wöllflin è riportata da Vidler A., La capanna e il corpo, op. cit., p. 110
10. Vitruvio Pollione, Dell’architettura, a cura di Florian G., Pisa, Giardini, 1978, II, I, 2, p. 32
11. Per il Cavallini si guardi al mosaico della Natività (1291) in S. Maria in Trastevere a Roma; per Masaccio alla Adorazione dei Magi (1426) oggi conservata allo Staatliche Museen di Berlino; il disegno di Raffaello, o della sua scuola, è l’Adorazione dei Magi (1513) al Louvre di Parigi; infine, di Jacopo Bassano si guardi la Adorazione dei pastori (1568) alla Galleria Nazionale di Roma
12. Fagiolo M., Rinaldi A., Artifex et/aut natura, op. cit., p. 122 13. Fagiolo M., Rinaldi A., ibid
14. Vitruvio Pollione, Dell’architettura, op. cit., II, I, 3, p. 32
15. ‘Quando parliamo di albero, come materia primitiva delle abitazioni, convien badare di non prendere la parola in un significato troppo positivo, come vediamo praticato da alcuni scrittori speculativi, i quali, abusando di questa teoria, hanno preteso che la colonna sia stata nel primo suo ufficio una copia dell’albero. L’albero, di cui intendiamo
parlare, è sinonimo di legname. Non si tratta in questa teoria di dare all’architettura dei modelli da imitare con intendimento rigoroso’. Quatrèmere de Quincy Antoine C., Dictionnaire historique de l’architecture, Paris, 1832, ed. it. Dizionario storico di architettura, Venezia, Marsilio, 1985, p. 121
16. Quatrèmere de Quincy A. C., ivi, p. 147
17. Vidler A., La capanna e il corpo, op. cit., p. 104
18. Gabetti Roberto et al., Necessità di paesaggio, in Piemontese Antonietta et al. (a cura di), Il progetto di architettura, Preprint del Convegno CNR (Roma 25-27 maggio 1998), p. 136

G.A. Università degli Studi ‘Mediterranea’ di Reggio Calabria
Le illustrazioni sono opera dell’autore

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