Giuliano Pedretti

Quando la suggestione della natura e la sfida del mondo contemporaneo danno luogo a interpretazioni
in cui la formazione classica accetta la sfida della modernità.

Che cosa forma l’animo e la sensibilità di un artista? C’è sempre qualcosa di misterioso, che necessariamente sfugge all’indagine critica. Ma l’ambiente, le tradizioni, la cultura, la famiglia: tutto questo inevitabilmente influisce e lascia un’impronta. Così avviene per Giuliano Pedretti, artista che reca lo spirito dell’Engadina nelle sue opere e – il che è qualcosa di assai raro e particolarmente prezioso – anche nelle sue azioni, volte al recupero della memoria della valle,
a farla rivivere e comunicarla in tutte le sue sfaccettature. Una missione culturale a tutto campo, creativa e conservativa assieme. “Che cosa mi ha spinto, sin dalla mia infanzia, a occuparmi di arte?” si interroga Pedretti. Inevitabilmente la
risposta è: “Mio padre ha insegnato molto a me e mio fratello… Ci ha mostrato le case e gli animali selvatici, e i luoghi dove cacciare”. Si potrebbe dire: un modo autenticamente “estetico” di vivere la montagna, la natura, facendola propria,
partecipandovi come forse vi partecipava l’uomo dei primordi. Il papà, Turo Pedretti, era pittore e decoratore, come il nonno del resto, anch’egli chiamato Giuliano. La mamma, Marguerite Pedretti-His, era una cantante. L’arte insomma permeava la casa dove il giovane Giuliano, nato nel 1924, è cresciuto col fratello Gian. Da un lato poteva vedere le montagne e la grande vallata, dall’altro alto le interpretazioni che ne dava il padre: dai colori vivaci e forti, intensi, sanguigni. Intesi forse proprio a rendere l’energia nascosta, la vitalità poderosa delle cose, degli animali, delle persone, delle scene di vita sociale. Tratti forti, dove la luce si identifica col colore e i contorni sono sempre ben marcati, netti, solidi. Nella vita di montagna c’è una forma particolare di confronto tra l’individuo e la natura. La sfida continua dei pendii e la passione per la caccia, intrinseca alla cultura del luogo, contribuiscono a scolpire personalità indipendenti e fiere. E’ forse tutto questo che si riflette nelle opere del padre. Oltre a questo influsso, il giovane Giuliano recepì
anche quello dell’amico Alberto Giacometti, uno dei massimi scultori surrealisti del XX secolo. Giuliano Pedretti passò la sua infanzia a Samedan e frequentò quindi la scuola di arti e mestieri a Zurigo, dove studiò scultura presso Ernst Gubler.

Nelle foto: In senso orario, la casa dell’artista coi graffiti murari; un’esposizione; Giuliano Pedretti con Alberto Giacometti a Celerina nel 1952; l’artista nello studio, tra le sue opere.

Divenuto a sua volta scultore, cominciò a operare a Samedan e poi dal 1953 a Celerina, dove ha lo studio ancor oggi. In diverse località si sono svolte in anni recenti mostre antologiche a lui dedicate. Il radicamento dell’artista nel territorio costituisce un patrimonio prezioso, una testimonianza che fa a riflettere. Che mostra quanto sia ricca l’eredità della cultura locale. Di lui Dora Lardelli ha scritto, nell’occasione di una mostra del‘99: «La tematica di Giuliano Pedretti ruota soprattutto attorno agli esseri umani e agli animali. L’artista definisce le loro sagome tramite le forme delle ombre espresse in spazi vuoti astratti e sintetizzati. All’esecuzione dell’opera precede uno studio esatto del modello, della sua vita e del destino, favorevole o nefasto, che accompagna ogni vita. I titoli delle opere sono la chiave per trovare l’accesso al contenuto, come ad esempio “Crollo”, “Spavento” e “Ballerina”. L’artista ha inoltre ritratto personaggi di spicco, in grande formato, come “Giovanni Segantini”, “Friederich Nietzsche e “Hommage à Cézanne”. «Giuliano Pederetti non si ferma mai, si muove continuamente, sia quando si dedica alla caccia autunnale, come pure quando cerca documenti preziosi per l’Archivio culturale dell’Engadina alta o anche nel lavoro spesso silenzioso e concentrato nel suo studio artistico. Per lui la vita rappresenta un grande punto di domanda. Perciò non ha esitato a mettere in questione il genere della scultura, creando i cosiddetti “space drawings” (disegni spaziali). Per lui non era più ovvio che una scultura debba avere tre dimensioni, perciò ha collocato fragili disegni raffiguranti sculture tridimensionali ritagliati fra vetri verticali posti su un piedistallo. Già da anni Giuliano Pedretti mette in discussione pure l’ottica di chi guarda l’opera. Secondo l’artista, la scultura non deve per forza stare sul pavimento, ma può pure venire appesa alla parete. Sorge così l’incertezza in chi la guarda, perché non sa se se la vede dall’alto o da un lato. In questo modo, l’artista evoca un nuovo sentimento dello spazio. Inoltre la sua scultura, vista dai diversi lati, esprime situazioni diverse. Così ad esempio il cacciatore che scala la montagna, visto dal lato opposto, diventa una persona che scende dal pendio. «Da alcuni anni Giuliano Pedretti crea delle gouaches molto colorate, che riprendono i caratteri tipici delle sculture, come ad esempio le forme a goccia. L’area del foglio permette all’artista – al contrario dello spazio della scultura – di definire anche lo sfondo. Giuliano Pedretti sfrutta questa possibilità riempiendo tutto il foglio.

Nelle foto: in senso orario: autoritratto del padre, Turo Pedretti (1945); l’atelier paterno; due particolari dei graffiti murari, a cornice delle finestre; opere recenti, di vibrante problematicità.

Lo sfondo (spesso un paesaggio) si confonde con la figura, formando un ritmo comune di forme e colori. In alcune sculture l’artista ha pure visualizzato l’ambiente: come nella serie di “implosioni” (create nel 1998). Qui la figura è circondata da una specie di cornice posta in diagonale entro la quale, alcune linee a forma di lampo si dirigono verso la persona. Questa serie di sculture è una delle più inquietanti. Esse trattano – in forma nuova – una delle tematiche più discusse al giorno d’oggi: lo stress, gli influssi incontrollati e l’incertezza del destino. Sono gouaches in bianco-nero, che tentano di esprimere suoni stridenti e il fracasso». Per evidenziare l’aspetto dinamico insito nelle sue sculture, Giuliano Pedretti racconta un aneddoto: una donna che stava per cominciare i lavori di pulizia in una galleria d’arte di Zurigo, vedendo le sue sculture esclamò: “Quanto vento!” Giuliano Pedretti è uno degli ultimi rappresentanti della scultura classica, per quanto egli segua un percorso che lo porta ad agire in stretta coerenza con l’attualità: “Con nuove dimensioni e forme che sono un gioco fra ombra e sole, uomo e spazio” come conclude Dora Lardelli. Probabilmente all’opera artistica di Pedretti non è affatto estraneo il suo impegno di “esploratore della cultura”, sempre secondo la definizione della Lardelli. È infatti a Pedretti che si deve la fondazione dell’Archivio culturale dell’alta Engadina, che ha trovato sede nella Chesa Planta a Samedan. Pedretti ha anche contribuito alla riscoperta e divulgazione attraverso esposizioni, di diversi artisti dimenticati, come Samuele Giovanoli e Andrea Robbi. Egli ha anche contribuito attivamente al programma espositivo del Museo Segantini di St. Moritz. La poliedricità è forse un aspetto comune di tutte le personalità artistiche. Perché sia autentica, la ricerca deve basarsi su un confronto continuo: e la riscoperta della memoria in questo è ausilio prezioso.

I graffiti sui muri arte antica e nobile

Nelle tumultuose città, per graffito murario si intende una zona di parete esterna più o meno libera, che viene autenticamente “conquistata” da scritte più o meno variopinte, sgargianti, spesso non prive di una carica di violenza. A volte sono dimostrazioni di occupazione di un territorio da parte di gruppi organizzati di “graffitari”. Insomma, i graffiti urbani nascondono spesso il disagio giovanile, accanto alla necessità di espressione. Ma il graffito murale non è solo questo: giuliano pedretti, seguendo la tradizione della sua famiglia, si dedica anche alla decorazione di superfici murarie. I graffiti qui hanno una funzione che sta a cavallo tra l’arte e l’architettura. Una strombatura può essere intesa come un varco elaborato, atto a massimizzare l’influsso della luce solare nella stanza. Una cornice dipinta la trasforma, evocando immagini di castelli medievali. Uno spigolo si nobilita, prende colore, diventa significativo. Il graffito non si sovrappone, complementa il costruito. E lo rende a una tradizione antica, a un linguaggio consono al sito.

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