SE POTESSI PROGETTEREI SOLO CHIESE

Cinquant’anni di carriera, celebrati con una mostra antologica al Mart di Rovereto: Mario Botta cominciò a progettare ben prima di acquisire l’abilitazione accademica, animato da una vera vocazione. Sino a ora ha costruito 12 chiese: in quest’intervista rievoca la sua esperienza, i rapporti con la cultura, coi committenti.

Cinquant’anni di carriera, celebrati con una mostra antologica al Mart di Rovereto che sarà esposta anche in altre città europee: Mario Botta, classe 1943, ha cominciato a disegnare e progettare ben prima di acquisire l’abilitazione accademica e lo status professionale. È l’evidente dimostrazione di come egli sia animato da un’autentica vocazione, che trascende le “formalità” del mestiere. Sinora ha costruito 12 chiese.

La sua opera spazia a tutto campo, dalla villetta al grande museo, dalla banca alla piazza attorno a cui si raccolgono gli edifici pubblici della città; ma una delle chiavi di volta, forse quella principale, del suo percorso ideativo risiede nel progetto delle chiese: oltre alle 12 realizzate, ne ha due in costruzione. Il che pone Mario Botta nelle condizioni privilegiate di chi può ragionare, sulla base una vasta esperienza personale, in merito alle potenzialità e ai limiti del progetto della chiesa oggi.

Che cosa significa il tema della chiesa per Lei: lo affronta in modo ”laico” o parte dalle convinzioni religiose?
«Lo affronto dal punto di vista architettonico, tutto interno alla disciplina. È un tema denso di significati e latore della testimonianza di venti secoli di fede vissuta, ma ritengo un errore quanto abbiamo visto spesso nel secolo passato quando, per questo genere di progetti, si sono privilegiati architetti che ostentavano la loro osservanza. Se il criterio di scelta è quello della fede, allora può avvenire, ed è avvenuto, che persone sedicenti osservanti abbiano dato risultati di scarso valore. Ricordo che ne parlai con il Card. Jean-Marie Lustiger, vescovo di Parigi e promotore del progetto sul quale stavo lavorando per la cattedrale di Evry. Gli esposi le mie convinzioni in quanto persona cresciuta in una cultura profondamente cristiana, europea ma che ama porsi con atteggiamento libero di fronte al tema dello spazio ecclesiale; mi disse: “Vai avanti: hai progettato banche e non sei un banchiere, una sinagoga e non sei un ebreo, musei e non sei uno storico dell’arte…”.
L’architetto, di fronte al foglio bianco, deve da un lato sapere tutto e, dall’altro, dimenticare tutto.
Credo che la fede sia un fatto che riguarda gli aspetti più profondi e intimi della propria personalità, non può essere utilizzata come una divisa da sbandierare per giustificare o contrabbandare un proprio progetto. Mi sono posto il problema di interpretare il disegno di una chiesa nel contesto culturale pieno di contraddizioni della società contemporanea. Ho notato che per quanto la Chiesa si contrapponga alla secolarizzazione imperante, ha costruito in questi ultimi 50 anni tantissimi edifici di culto, mentre le statistiche indicano che i fedeli praticanti diminuiscono. Credo che questo significhi che chiunque, anche chi non mette mai piede in un edificio sacro, coltivi nel suo intimo un bisogno di infinito, un richiamo dello spirito e l’amore per l’umanità. L’architetto è chiamato a dare forma a questo bisogno universale all’interno della propria cultura.».

Nella cultura contemporanea, dove ravvisa le maggiori difficoltà per chi si pone a progettare una chiesa?
«Siamo tutti orfani di modelli certi e chiari: la chiesa edificio ha seguito alcuni specifici modelli che per secoli si sono lentamente evoluti, in continuità con le caratteristiche stilistiche dei differenti periodi storici fino a Rudolf Schwarz. Grazie alla sua opera, illuminata dal sostegno teologico di Romano Guardini, i modelli storici trovano espressioni architettoniche appropriate fino all’epoca moderna. Ma nello stesso periodo, cioè la metà del ‘900, dobbiamo però registrare anche la rottura clamorosa a opera delle avanguardie: personaggi come Duchamps o Picasso hanno di fatto scardinato il canovaccio estetico secondo il quale ci si era mossi sino ad allora – e contemporaneamente si è avverata una lacerazione dei valori etici.  Così nella pratica architettonica i modelli che avevano contrassegnato la scena nei secoli sono venuti a mancare, ed è sorta la necessità di nuovi modelli in grado di interpretare con coerenza il dramma contemporaneo: magari sublimandolo, ma senza sfuggire da esso. Questo problema riguarda tutta l’architettura, ma si sente in maniera particolarmente lacerante in campo ecclesiastico. Perché nella chiesa i contenuti più profondi del fatto architettonico non sono legati a un rapporto tecnico-funzionale, ma ad aspetti simbolici costanti e assoluti. Il senso del rapporto tra fedele e officiante resta sostanzialmente inalterato nel corso dei secoli, il rapporto spaziale tra i fedeli e l’altare si ripresenta come una costante; non vi è grande differenza fra quanto avveniva 2000 anni fa e quanto avviene oggi… I piccoli aggiornamenti di carattere liturgico non hanno portato variazioni travolgenti. Nessun altro edificio nel corso dei secoli è rimasto fedele a questo rapporto di continuità: per riferirsi a un esempio che ha alcuni punti di contatto con lo spazio ecclesiale, quello della rappresentazione teatrale registra una sostanziale modifica del rapporto fra l’attore e il pubblico, con un cambiamento totale dell’apparato scenografico che è divenuto sempre più sofisticato e complesso. Per questo il teatro contemporaneo si distingue da quello greco, mentre l’essenzialità dello spazio fra il fedele e il luogo del sacrificio è rimasto pressoché inalterato».

Tuttavia, parlando di modelli, oggi ve n’è uno universalmente riconosciuto come valido: quello della Sagrada Familia di Gaudí…
«Gaudí ha rappresentato una presenza con una fortissima personalità e un’immensa creatività, forse la figura maggiore del XX secolo. Malgrado questo, Gaudì resta figlio del proprio tempo: un’epoca in cui la nuova borghesia imprenditoriale era al massimo delle proprie facoltà e l’Art Nouveau ne rappresentava tutto l’impulso innovatore e tutte le ambizioni di splendore. Gaudí raccolse quelle energie e diede loro la forma più eccelsa, le portò a compimento nel modo più raffinato, raccogliendo l’eredità del gotico nel momento stesso in cui lo superava. Ma la sua opera è legata a quel periodo storico e non può essere spostata nemmeno di qualche decennio. Nel periodo successivo sarebbe risuonata come una imitazione, una replica senz’anima.».


Lei come si è avvicinato al tema della chiesa?
«Non è stata una scelta rincorsa o desiderata; è un’opportunità nata da una concentrazione di eventi: l’antica chiesetta di Mogno, nella valle Maggia (Cantone Ticino), fu distrutta da una valanga nel 1986. Gli abitanti del villaggio vollero che fosse ricostruita e mi chiesero un progetto. Questo mi ha portato a un incontro che si è rivelato straordinario e privilegiato poiché, attraverso quel lavoro, riscoprii il valore primigenio dei temi portanti dell’architettura: la luce, la soglia, il muro, la componente geometrica come latrice di istanze semplici e universali… Scoprii che il tema della chiesa si poneva al di là degli aspetti funzionali richiamando al senso del costruire, all’autenticità dei gesti preposti a questo lavoro: quello di mettere pietra su pietra, quello di trasformare una condizione di natura in una condizione di cultura. Dentro questo operare mi sembra di aver capito come l’architettura porti con sé l’idea del sacro che, attraverso il costruire, esprime valori metaforici e simbolici. Mi sembra d’aver capito come l’architettura possa offrire emozioni profonde che colpiscono l’animo dell’uomo al di là del livello dell’apparire. Così il progetto della chiesa è divent
ato per me uno strumento capace di avvicinare a valori dimenticati, come lo è lo spazio del silenzio in un mondo dove tutto è gridato… ».


Gli aspetti simbolici, che hanno accompagnato tutta la storia delle chiese, sembrano oggi dimenticati. Lei li ritrova forse nella costruzione geometrica…
«Credo che i valori simbolici debbano essere solo sussurrati, non espliciti o gridati poiché diverrebbero immediatamente caricaturali. Gli aspetti simbolici sono come quelli poetici; il loro messaggio deve avvenire attraverso la scoperta che il singolo matura nella propria anima. Non credo che si possa ridurre il tutto a un aspetto razionale; le presenze simboliche offrono chiavi di lettura misteriose e nascoste. Quindi anche il richiamo alla geometria deve essere valutato con prudenza; molte composizioni geometriche lasciano indifferenti».

Con le molte chiese che ha costruito, ha conosciuto moltissimi committenti. Qual è l’importanza del rapporto tra progettista e committente ecclesiastico?
«Non solo in campo ecclesiastico, ma in ogni campo non conosco alcuna buona architettura che abbia avuto un cattivo committente. L’opera di architettura è debitrice di una commessa da un lato, e del contesto geografico e culturale dall’altro. Molte chiese che si lamentano non ben riuscite, sono così proprio per carenze del committente, che spesso è confuso e approssimativo, per quanto possa essere anche bene intenzionato. Il modello esemplare resta quello del rapporto tra Schwarz e Guardini: nel loro dialogo, quest’ultimo teneva costantemente alto l’obiettivo e ispirava, oltre ad informare, l’artefice. Nella mia esperienza personale, confesso di aver avuto a che fare spesso con difficoltà di dialogo. Per esempio se la commissione diocesana richiede che l’aula abbia l’altare in una posizione centrale, questo deve essere interpretato, vi sono infinite connotazioni che definiscono la centralità di un luogo, anche se questo non corrisponde ad un baricentro geometrico. Per esemplificare: nelle costruzioni di Alvar Aalto la centralità è sempre fuori asse, in posizione asimmetrica, poiché si tratta di una centralità spaziale e non strettamente matematica. Talvolta bastano leggere modifiche, un diverso valore del colore o dei materiali per concorrere a definire un centro focale, che diviene un punto preciso nello spazio…

Nei rapporti col committente, a parte il dialogo con Lustiger, posso citare due incontri per me importanti. Il primo riguarda il momento in cui presentai il progetto iniziale per la chiesa di Sambuceto (prossimamente in cantiere), presso Chieti, al vescovo Mons. Bruno Forte, che lo respinse in quanto troppo “timido” rispetto all’obiettivo di segnare con forza, anche culturalmente, una nuova edificazione nel contesto meridionale.  In quel momento compresi che una bella chiesa “corretta” non era sufficiente, il progetto richiedeva di assumere altri rischi per potersi configurare veramente forte e testimoniare delle contraddizioni del nostro tempo.  Uno spazio in grado di offrire condizioni di meditazione e di preghiera nel bel mezzo del correre quotidiano.
L’altra esperienza fu quella, già citata, di Mogno. Gli abitanti mi hanno chiesto di ricostruire la chiesetta distrutta, accennando a una possibile ricostruzione “dov’era e com’era”. Anche in quella occasione ho capito la necessità di testimoniare, al di là della chiesa distrutta, l’evento tragico della valanga in grado di richiamare, oltre alla cultura attuale anche la memoria di un passato ancora presente. Così nacque la chiesetta a pianta ellittica, dalle possenti pareti contro terra che si innalzano fino a presentare una copertura totalmente vetrata: forse il risultato della lotta ancestrale fra l’uomo e la montagna che, con quella costruzione, ha ritrovato un occhio verso il cielo.».

Tra i suoi numerosi premi e riconoscimenti, nel 1996 le è stato attribuito il dottorato honoris causa in Teologia a Friburgo. Che cosa disse in quella circostanza?
«Se ricordo bene parlai del senso del sacro che ricerco nel mio lavoro. Credo che abbiano voluto riconoscere la mia testarda, continua rincorsa verso i valori della trascendenza che ho cercato di imprimere a tutta la mia opera. Devo dire che, se potessi scegliere, progetterei solo chiese perché, rispetto a tutte le altre tipologie hanno la capacità, anzi la missione, di testimoniare il nostro tempo in termini positivi. Ognuno di noi deve operare con gli strumenti che gli sono dati: io ricerco, attraverso l’architettura, uno spazio capace di esprimere la cultura del mio tempo, con grande onestà, senza falsi riferimenti alle culture del passato, senza menzogne più o meno pietose, nella convinzione di poter offrire ancora emozioni degne di una speranza».

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