Gabriele De Giorgi


Mi servirò di una metafora per tentare di dare una risposta al quesito se esista un’arte per la ‘città senz’arte’ di cui hanno parlato Umberto Cao, Massimo Ilardi e Tonino Terranova (ndr. vedi in questo stesso volume U. Cao, A. Terranova).

Giorgio De Chirico, Caduta di Fetonte
Auguste Rodin, L’uomo che cade
Gustavo Dorè, Navarrese e Alichino

Nello spettacolo teatrale ‘Otto’, del gruppo Kinkaleri di Prato, in programma alla rassegna dei Cantieri Koreja, in tutte le scene gli attori cadono, si afflosciano a terra, così, senza una causa precisa. Si schiantano di botto, e nel cadere coinvolgono oggetti, scene, microfoni, nel più assoluto silenzio, senza parole. Il solo rumore è quello del tonfo sordo e duro dei corpi, del fischio stridulo dei microfoni rovesciati, dei liquidi che fuoriescono dalle bottiglie e dai flaconi. La disposizione degli oggetti subisce una dislocazione improvvisa. I corpi degli attori cadono scomposti. Dopo il primo esilarante impatto che ogni caduta ben fatta provoca nello spettatore, ci si comincia a porre domande, a interpretare, a fare ipotesi. È evidente che nel rapporto tra l’arte teatrale e il cadere, tra l’attore e lo spazio scenico travolto dalla caduta, c’è un’intenzione precisa.
Il libretto in vendita al botteghino contiene, nel saggio del critico d’arte Sergio Risaliti, illuminanti spiegazioni e implicazioni più ampie.
Un filo trasversale percorre la storia dell’arte intorno al tema della perdita della stabilità, del venir meno delle condizioni di equilibrio. Il bilico, la caduta, il senso catastrofico della gravità riguardano il corpo umano, gli edifici, la città.
L’interesse per la caduta attraversa tutta la storia dell’arte da parte di artisti attenti a quella alterazione speciale, fisica e psichica prodotta dalla negazione della tensione dell’atto del cadere. ‘Un corpo che cade – scrive Risaliti – o appena caduto, assume una posizione incerta, informe, è privo di grazia, si appiattisce innaturalmente e si disarticola fino a essere sfigurato’.

Charlie Chaplin, Scena di pattinaggio
Lorenzo Bernini, Tomba Raggi in S. Maria
Sopra Minerva
Gio Pomodoro, Scultura
Gabriele De Giorgi, Il Chrysler Building

Un elenco possibile di cadute significative nel mondo dell’arte potrebbe farsi partendo dal mito, fino al cinema: Lucifero, San Paolo, Fetonte, Bellerofonte, Icaro, Dante, Chaplin, Buster Keaton e così via.
Un corpo che cade o appena caduto assume una configurazione indefinita, anormale, è privo di armonia, si deforma innaturalmente e si disarticola fino ad essere irriconoscibile. Lasciati i paradisi perduti, quelli della Perfezione, come nella caduta di Lucifero, il corpo angelico prova la sensazione di una realtà fatta di pesantezza, non più di leggerezza e rarefazione, ma vicina alla terra, imperfetta, instabile e fragile.
Come sostiene Paul Virilio, la catastrofe nella realtà e nell’arte, come crollo, è forza di ‘dissipazione’ e ‘defigurazione’ della forma, da qui l’interesse dell’artista.
Il crollo è il ‘collasso meraviglioso’ dell’architettura, ‘choc’, ‘precipitazione’ degli edifici e delle città, accumulo di rovine e frammenti, da cui ri-costruire con altra visione, introiettandone la precarietà, la fragilità, l’aleatorietà.
Il corteggiamento della perdita di senso della verticalità inaugura l’epoca dell’architettura contemporanea con il declino di una tradizione e dei suoi modelli, l’inizio di una visione diversa del mondo. Un mondo in cui s’insinuano molti elementi prima trascurati come dissonanze, oggetti sconosciuti, piani inclinati e sconnessi, morfologie indecifrabili e inorganiche.

Gabriele De Giorgi, Las Vegas
Gabriele De Giorgi, Campanile di Giotto
Gabriele De Giorgi, Marciapiedi di Roma

Strettamente partecipe della categoria della caduta è l’accartocciamento, la piega. Ricordiamo il ‘folding’ di Eisenman, il saggio ‘La piega’ di Deleuze, ma anche le pieghe barocche delle sculture di Bernini che dissolvono il senso del corpo, oppure le pieghe della scultura e architettura contemporanea, di Gaudì, di Gio Pomodoro, dell’arte povera, dell’universo popolare dei fantocci, del teatro di figura, dell’arte pop. Si può pensare ad una interpretazione della città per pieghe. Le immagini della basilica di San Pietro o della Sapienza del Borromini possono allora mutare le proprie impaginazioni con slittamenti librati tra gravità e nuove linee centrifughe; Santa Maria del Fiore si può contrarre ed espandere in configurazioni sovrapposte: l’Empire State Building o il Chrysler Building e Times Square possono ondeggiare e deformarsi; le insegne notturne di Las Vegas collassare e accartocciarsi; il microcosmo dei marciapiedi di Roma (giornali gettati per terra, lattine, scatole di sigarette, ecc.), che pullula di situazioni di sciupamento e calpestio, può caricarsi di intenzioni e di valori plastico-figurativi.
Sono immagini riassuntive di alcune categorie concettuali. Hanno valore propositivo. Tra la percezione reale di queste architetture e l’interpretazione che ne facciamo, lo spiega molto bene Deleuze nel libro ‘La Piega’ che ho citato prima, esiste lo scarto di un’azione critica, di un’azione ideale, per la quale l’arte è in grado di vedere nel corpo della città, la causa di quanto accade nel mondo. Ma non esistono due mondi, due espressioni o due ‘esprimenti’ del mondo – come li chiama Deleuze – realmente distinti: uno come appare, l’altro come è rappresentato dalla realtà proposta dall’artista. Esiste l’autonomia reciproca delle due espressioni che sono realmente distinte, e tuttavia inseparabili.
In virtù di questa continua oscillazione l’opera dell’artista diventa progetto di scomposizioni e ricomposizioni dell’universo urbano, ri-configurato per piegature, ondulazioni, contrasti, transfert, deformazioni.

Giovan Battista Nolli, Pianta di Roma
Alison e Peter Smithson, progetto per Berlino
Peter Eisenman, Max Reinhardt House a Berlino
Claes Oldemburg, Installazione Mistos a Barcellona

Sono figure che, elaborate come vestiti spaziali fluttuanti indossabili dal corpo finito e rigido della città, appartengono alla condizione oscillante di contraddittorie forze gravitazionali e forze centrifughe, a quell’andirivieni tra le opposte identità di ciò che appare e ciò che è.
In queste interpretazioni non dobbiamo cercare tuttavia riferimenti alle ricerche delle avanguardie del ’900, non vi si trova lo spazio-tempo dei cubisti, né la velocità e le energie dinamiche dei futuristi, né la dimensione utopica degli anni ’60, né le ricostruzioni su nuove valenze dei decostruttivisti. Vi si trova invece il senso degli apporti del caos, delle derive, del mutamento imprevedibile, dell’incidentalità, un tentativo di ri-nominazione da cui probabilmente ripartire.

Herzog & de Meuron,
Forum a Barcellona
Alessandro Anselmi, Municipio di Fiumicino
Zaha Hadid, Museo d’arte contemporanea a Roma

Ma forse l’avevamo dimenticato. Di pieghe è fatta la città mediterranea (ricordiamo la ‘tortuosità’ del bel saggio di Giancarlo De Carlo scritto per Domuspoco prima della sua scomparsa).
Oggi possiamo recuperarne lo spirito, ripensarne criticamente le connotazioni per un nuovo progetto, che troviamo già ad esempio negli Smithson per il progetto di Berlino, in Scharoun nella Filarmonica sempre a Berlino, in Eisenman ancora a Berlino nel progetto della Max Reinhardt Haus, in Oldenburg nell’installazione Mistos a Barcellona, in Anselmi a Fiumicino, in Hadid a Roma, in Herzog e De Meuron nel Forum di Barcellona, in Van Berkel nel Ponte Parodi a Genova,
ed altri ancora.
Nella città contemporanea del disordine e del caos non è più tempo di spazi rigidi, scatolari, chiusi e perfetti, di strutture compiute. Solo interiorizzando e rielaborando i termini della condizione urbana: lo squilibrio, il bilico, la caduta, le pieghe, le fratture, potremo agire sui tessuti, sui contesti, rimettendo in discussione continuamente il senso del progetto, ri-modellando lo spazio metropolitano. Spazio finalmente coerente con la vita degli uomini.

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Archeoclub d’Italia
movimento di opinione pubblica
al servizio dei beni culturali e ambientali

 

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