Franco Purini


Il rapporto tra l’arte e l’architettura, emerso prepotentemente negli ultimi anni come protagonista del dibattito disciplinare e anche della trasformazione reale delle città, non può essere indagato con la necessaria tensione innovativa se si rimane all’interno di questa stessa bipolarità ovvero all’interno di un modello sostanziale militare di sopraffazione, di invasione, di conquista. Considerando infatti l’arte in rapporto all’architettura nasce subito un problema di competizione tra la pittura, la scultura, la video-arte, l’installazione, le performance, ma anche il cinema, la fotografia, la pubblicità e l’architettura, una competizione nella quale si cerca di trovare quali sono gli elementi distintivi
dell’una rispetto alle altre e di queste rispetto alla prima. Sapere che l’architettura è un’arte che incorpora elementi delle altre arti non serve a molto, né aumenta la conoscenza del rapporto tra l’arte e l’architettura accertare quanto di queste altre arti possa essere incluso nell’architettura senza che questa perda la sua specificità. Certo, si potrebbe affermare che l’architettura è l’arte nella quale la presenza dello spazio, che c’è anche nelle altre arti, si fa presenza non solo rappresentativa ma fatto concreto, fisicitàche si aggiunge comunque alla rappresentatività virtuale dello spazio che c’è anche nell’architettura, che quindi considera lo spazio stesso due volte, vale a dire spazio reale e spazio traslato. Detto in altri termini questo discorso significa che l’architettura è un’arte che, a differenza delle altre, accoglie in essa il corpo, quasi ingerendolo, laddove la pittura, la scultura, la video-arte, l’installazione, la fotografia, il cinema o la pubblicità lo presuppongono all’esterno come lettore, fruitore, interprete, modificatore. Ingerendo il corpo, l’architettura lo sottopone a una sorta di TAC istantanea che lo seziona a strati e poi lo ricompone in altri assetti dopo averlo sottoposto a processi cinetici e a complesse manifestazioni visivo-tattili nelle quali è importante il senso della contiguità con le masse tridimensionali e con la profondità prospettica. Tale operazione decostruttiva/ricostruttiva ha la sua chiave nella funzione, l’unica ragione, nonostante ciò che ha detto Adolf Loos, per la quale si fa architettura.

Bisogna comunque aggiungere che, nel rapporto tra l’arte e l’architettura considerato dal punto di vista dell’arte, quest’ultima assume sempre il ruolo di arte applicata. La public art, l’ arte ambientale, e anche la scultura nello spazio pubblico sono sempre forme d’arte in qualche modo di servizio, che inseriscono l’arte stessa in un processo sostanzialmente entropico. Tuttavia anche il fatto che l’architettura soltanto ingloba il corpo, pur se incontestabile, non è essenziale. Negli ultimi anni è invalsa la tendenza a considerare l’architettura un’arte incompleta alla quale solo l’arte vera può conferire una conclusione adeguata. Rimanere nell’ambito della competizione tra le arti non aiuta a comprendere veramente la natura del rapporto tra l’arte e l’architettura, finendo nel migliore dei casi con il favorire la messa a punto di una sorta di tassonomia di ruoli, nella quale ci sarebbe la vera arte, ovvero quella dei musei, l’arte applicata, l’arte terapeutica e pedagogica, le arti della strada, ovvero le arti dell’appropriazione, della narrazione e della trasformazione dello spazio urbano, dallo street style ai writers, dal parkuor all’estremismo dei black bloc. In sintesi la
dilagante modalità dell’architettura-installazione, espressa soprattutto dalla tematica dell’involucro, della pelle, del rivestimento, magari facendola risalire a Gottfried Semper, dimostra interamente il suo carattere non metaforicamente, ma sostanzialmente superficiale, dal momento che essa segna l’abbandono della complessità testuale del costruire
a favore di un suo aspetto marginale.

Franco Purini e Laura Thermes,
Interno dello Studio Rossi, Roma, 1999
Franco Purini, progetto per una parete, Verona, 2000. Redatto in occasione della mostra ‘Superfici delle città’ nell’ambito delle Giornate Internazionali dell’Arredo
‘Abitare il Tempo’ con Luigi Paglialunga

Quest’ordine di riflessioni, centrate sull’identità delle arti, presenta un insuperabile limite accademico, un limite troppo pronunciato perché riesca ad essere superato per costruire un discorso più efficace. Invece risulta più utile, anche se non del tutto risolutivo, il modello logico della comunicazione. Osservato da questo angolo visuale, che comporta la centralità dell’ immagine nella sua ambigua consistenza tra assenzae presenza, il rapporto tra l’arte e l’architettura entra nel grande tema emerso nella seconda metà del Novecento con la pop art, una forma d’arte che sembra aver sconfitto definitivamente ogni concezione estetica basata sull’idea che un’opera d’arte è un fenomeno ermetico, esclusivo, in sostanza iniziatico ed elitario. Qualcosa che vive tra Sigmund Freud e la Scuola di Francoforte e che presenta l’esperienza estetica come una pratica della crisi sostenuta da quella linea analitica di cui ha scritto Filiberto Menna. Il dentro come luogo introspettivo, come ambiente appartato nel quale l’arte si configura come la manifestazione più alta dello spirito, è stato sostituito dal fuori come estroversione, come espansione dell’io in una gratificante e spesso euforica esplorazione del mondo. Un mondo fisico opposto a quello psichico. Incorporando la triade costituita da Marcel Duchamp, Andy Warhol e Guy Débord, la comunicazione ha totalmente ridefinito il rapporto delle arti con se stesse e con il loro farsi sistema, ponendo in primo piano tre fenomeni: la trasmissione di informazioni; la produzione di emozioni sotto il segno dell’intrattenimento; l’introduzione subliminale di modelli culturali alti tradotti in slogan mediatici, modelli utili alla costruzione di grandi mitologie collettive aventi come finalità l’illusione dell’immortalità, della felicità, della bellezza, dell’unicità. Anche dal punto di vista della comunicazione non ha alcun senso distinguere
ancora i ruoli delle varie arti, dal momento che esse si ritrovano immerse in un tessuto uniforme di emissioni segnico-semantiche le quali presentano il carattere di una genetica interscambiabilità come effetto di una sostanziale equivalenza. C’è inoltre da credere che, se è vero che l’arte è anche comunicazione non può essere costretta solo in quel ruolo, cosa che aumenterebbe quella entropia di cui si è già detto prima.

Uno sguardo forse più appropriato al problema è quello del consumo. Più che una esigenza logico-critica che cerchi le distinzioni specifiche, più che la comunicazione come, può essere infatti il consumo una chiave giusta per comprendere cosa significhi, al di là delle apparenze, il rapporto tra l’arte e l’architettura. Rifiutando ogni orientamento moralistico o facilmente politico occorre rendersi conto fino in fondo che il consumo è una forma di conoscenza del mondo. Si potrebbe
definire il consumo come la forma di conoscenza primaria di ciò che individualmente non si sa, non si può o non si vuole produrre in proprio. In questo senso il consumo, nella sua progressione crescente, è l’unico strumento a disposizione non della massa in sé, ma di ogni individuo, o meglio persona inserita nella massa, di esperire la struttura nascosta e i valori intrinseci del mondo in cui si vive. Va da sé che, come ogni forma di conoscenza, anche questa presenta le sue contraddizioni, i suoi meccanismi di difesa, le sue false piste, i suoi equivoci. La città del consumo si propone per questo come la città che si conosce solo attraverso il consumo, ma ciò non significa che uno shopping-mall o l’Ikea non debbano essere decodificati con lo stesso lavoro paziente e spesso seminato di errori un lavoro intrinsecamente oppositivo con il quale si affrontava la città medievale o una città barocca. All’interno dell’idea di consumo come conoscenza – una conoscenza che ovviamente consumacostantemente se stessa – l’arte si pone come un luogo negato, non tanto un rassicurante non luogo quanto un luogo inaccessibile, uno spazio proibito contraddetto in ognuno dei suoi aspetti. Nell’epoca del consumo- che si avvale e che vive di alcuni contrasti fondanti come quelli tra vero-falso, materialeimmateriale, vicino-lontanodove il vicino indica ciò di cui è facile appropriarsi – l’arte non può non assumere anch’essa il consumo di sé come regola. L’arte comunica oggi la sua esistenza e in questo comunicarla si consuma. Per questo, più breve è il processo della sua implosione- Damien Hirsch, Maurizio Cattelan, Jeff Koons – più elevato
appare il suo valore.

Franco Purini, collaboratore Kimberley Frederick, Progetto della nuova Galleria AAM di Milano,1991

L’architettura si situa anch’essa in questa orbita ma, al contrario delle altre arti, che possono essere effimere, in essa il consumo si pone solo come plusvalore ideale affidato all’immagine. Dal momento che non può fisicamente consumarsi, né spostare il suo consumarsi all’altro da sé, l’architettura si è dotata di parti o di frammenti caduchi che possono corrispondere ai tempi ciclici e ravvicinati del consumo. Considerato dal punto di vista del consumo il rapporto tra l’arte e l’architettura si dissolve naturalmente in un trascorrere reciproco dei vari codici, in un’appartenenza reciproca dei vari linguaggi priva, però, di una vera necessità. Come in ogni costruzione filosofico-politico e logicoideologica anche il consumo pone la questione di come si possa agire e non solo pensare la consapevolezza della sua esistenza ed,
eventualmente, del suo superamento. Molti accettano oggi la logica del consumo con un atteggiamento realistico, che appare però intriso di un pronunciato determinismo e al contempo di un sotterraneo senso di rinuncia. Quando si accetta che la città contemporanea non abbia più una trama, termine che implica l’esistenza di una struttura, fortemente
correlata nelle sue parti, di spazi e di edifici, facendo propria la dissoluzione individualista-speculativa della città, non si è più semplicemente realisti, ma dominatidal realismo. Frank O. Gehry non si è limitato ad accettare la funk city di Los Angeles ma, adottando una sorta di strategia zen, approfitta di quell’energia negativa per reinvertarla completamente nelle sua stessa forme, ma con un significato del tutto rovesciato. La scomparsa di un vero spazio pubblico è un autentico dramma per tutti e non si può accettarla sostenendo che è lo spazio mediatico o lo spazio recintato dello shopping mall ciò che ha sostituito quel tessuto di ambienti e di relazioni umane che ha nutrito le città fino a cinquant’anni fa. Fino a cinquant’anni fa era possibile stabilire spazi di dominio reali nelle città concreta; oggi questa possibilità non si dà più se non nello spazio virtuale perché lo spazio fisico è stato del tutto privatizzato dal consumo e ciò che il consumo lascia come scarto è spazio insicuro se non pericoloso.

È estremamente arduo comprendere se e come il consumo incrementi la libertà delle persone o la neg
hi: probabilmente il consumo lascia libere le persone di avere consapevolezza della sua esistenza, preparandosi a metabolizzare, come è avvenuto con l’11 settembre di New York e con il G8 di Genova nel 2001, immani tragedie ed eventuali rivolte. Resta il fatto che il consumo non occupa tutti gli spazi, lasciando qualche interstizio nel quale è possibile seminare indizi ed
embrioni di qualcosa non tanto di alternativo, quanto di sapientemente correttivo.
Una di queste correzioni riguarda proprio l’arte e l’architettura. L’arte non è solo comunicazione, è soprattutto mistero, irriducibilità a tutto, è espressione sorprendente, mai in accordo con il proprio tempo.

L’arte non può in alcun modo servire, e neanche l’architettura, se non nella sua derivata prima, la sua essenza funzionale. Comprendere fino in fondo la natura inattuale, irregolare ed eversiva dell’arte, la sua incostituzionalità nativa, in fondo la sua superiore estraneità è l’unica chiave per capire in termini chiari la distanza non tanto del rapporto tra arte e architettura, ma del ruolo dell’arte e dell’architetto nella costruzione del futuro.

Franco Purini e Laura Thermes, Interno dello
Studio Rossi, Roma, 1999

In una visione veramente innovativa della società e della città non si può non condividere l’idea che si debba riconquistare un sapere urbano degno di questo nome, un’arte della città, come trasformazione alchemica di una conoscenza, che è solo dell’architettura e dell’urbanistica, in qualcosa che cambi costantemente questa stessa conoscenza. Una conoscenza che riguarda l’unico compito dell’architettura, che è quello di costruire un abitare solido, sicuro e in grado di evolvere nel tempo, per tutti, un abitare che può essere belloe capace di conservare memorie solo dopo aver garantito le necessarie prestazioni funzionali. Prestazioni nelle quali si nasconde, nonostante gli aspetti utilitari in esse presenti, un valore spirituale.

Questa conoscenza ha a che fare con tracciati, o trame; con tessuti; con distanze, con masse e con spazi, soprattutto con ciò che non si vede, e non solo con ciò che si vede. Non tanto, quindi, relazioni, processi, fenomeni ma questioni più solide di perimetri, lotti, confini, misure, metriche, tipologie. Sulla strada dell’architettura-installazione si potrà procedere ancora per poco: è molto meglio far sì che sia l’architettura a recuperare e rilanciare la quantità di arte che essa possiede – e che non è insignificante – collocandosi rispetto alle altre arti secondo le possibilità che essa avrà di proporsi come affermazione piena della libertà di conoscere e di essere consapevoli nell’ambito potenzialmente totalizzante del consumo, forse l’unica libertà oggi concessa. L’arte è sempre stata rara, così l’architettura. La democrazia borghese, che ha più di duecento anni, ha cercato in ogni modo di democratizzare l’arte, ma – Walter Benjamin lo sapeva – ne ha democratizzato solo l’ accesso,anche questo più apparente che reale. Si è più democratici e più liberi non consumando ulteriormente la visibilità dell’arte mentre essa rimane, come le è dovuto, quasi imprendibile nel suo mondo per pochi, ma creando altra arte e cioè altra difficoltà comunicativa, altro mistero, altra eversione.

Unicam - Sito ufficiale
www.archeoclubitalia.it
Archeoclub d’Italia
movimento di opinione pubblica
al servizio dei beni culturali e ambientali

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