Franco Purini



La forma architettonica non è un’entità statica, definita una volta per tutte, un astratto campo di forze ordinate in un insieme che si pone come fisso e immutabile, in opposizione al tempo che scorre. Al contrario essa è l’esito della costante interazione tra chi abita e la struttura stessa dell’abitare. In altre parole la forma è un’entità vivente, qualcosa di organico che reagisce ai contesti nel momento stesso in cui li plasma dando ad essi una riconoscibilità nonché un carattere intrinsecamente adattativi, che la mette in condizione di cambiare i suoi contenuti a seconda delle circostanze variabili che la forma stessa incentra. Da questo punto di vista, che è valido sia per le configurazioni solide e precise – si pensi alle architetture di Oswald Mathias Ungers, Aldo Rossi o di Vittorio Gregotti – sia per quelle mobili e metamorfiche,
come le composizioni di Peter Eisenman o di Frank O. Gehry, la forma non è altro che il modo di costruirsi come forma, ovvero qualcosa che per la sua stessa natura è dinamico ed evolutivo.

F.P. Università degli Studi
‘La Sapienza’ di Roma

Progetti tratti da VEMA, La città nuova
Italia – y – 2026 – Modello direttore di Franco Purini

La forma coincide quindi con il processo che la costruisce, identificandosi così con la serie delle scelte che via via si sommano nell’operazione compositivo-progettuale e poi in quella costruttiva. Si dovrebbe quindi chiarire che lo slogan L’Architettura oltre la forma non indica che un’ulteriore livello dell’azione formalizzatrice, e non un’alternativa all’idea di forma. Procedendo in questa riflessione si potrebbe riconfermare, nonostante Kurt Foster l’abbia dichiarata decaduta, la validità della cosiddetta triade vitruviana, da integrare però con un’altra categoria, quella della comunicazione. In sintesi il triangolo vitruviano dovrebbe divenire un rettangolo o un quadrato, incorporando in tal modo quella dimensione mediatica che sembra oggi indispensabile all’architettura per rendere più comprensibile e condiviso il suo ruolo.
Sintetizzando quanto detto è necessario rendersi conto che non esiste una forma chiusa in contrasto con una forma aperta, nel senso che la prima non sarebbe in grado di assecondare le mutazioni funzionali e rappresentative dell’abitare, flessibilità che invece la forma aperta assumerebbe. In realtà la forma chiusa e la forma aperta sono entrambe forme, vale a dire espressioni risultanti da un paziente lavoro di organizzazione di parti ed elementi. Considerare la forma aperta più capace di sintonizzarsi con le varie e mutevoli espressioni dell’abitare è il risultato di un semplice transfert empatico, non corrispondendo a una maggiore disponibilità della forma aperta a recepire le sollecitazioni al cambiamento provenienti dall’abitare.

All’interno delle considerazioni proposte forse è utile chiarire che nelle posizioni di studiosi come Roger Scruton e di Mikos A. Salingaros, molto critici nei confronti del decostruttivismo, è possibile constatare, tra una serie di riflessioni condivisibili e altre affermazioni meno accettabili, un errore di una certa consistenza. Entrambi, infatti, considerano
le architetture di Daniel Libeskind di Bernard Tschumi come il frutto di un’azione casuale e distruttiva della forma, considerata dai due teorici come qualcosa di sostanzialmente ordinato, in qualche modo invariante. In realtà le forme decostruite sono sempre il frutto di un lavoro compositivo paziente e prolungato. Esse hanno poco a che fare con l’improvvisazione, che per sua natura non può rientrare nelle pratiche architettoniche, le quali richiedono sempre una consistente durata dei processi di elaborazione relativi alle soluzioni dei problemi compositivi che esse propongono.
Quando si pensa al rapporto tra l’architettura e la sostenibilità – il che significa anche interrogarsi tra questa e la forma architettonica – occorre tener presente che essa non è una dimensione aggiuntasi recentemente alle problematiche del costruire. La sostenibilità è da sempre connaturata all’architettura anche se è divenuta di grande attualità da qualche anno, a partire dal diffondersi di quell’allarme ecologico il quale, nato nel 1972 con il libro I limiti dello sviluppo, del
1972, a cura del Club di Roma, non ha fatto che ampliarsi e radicarsi.
In effetti, alle prescrizioni taoiste del feng shui a quelle, analoghe, presenti nei trattati architettonici occidentali, tra i quali quelli di Vitruvio, di Leon Battista Alberti e di Palladio, si dispiega un ampio ventaglio di regole insediative e di tecniche costruttive utili per dar vita a un abitare accordato con le condizioni del suolo, con la situazione idrica
del sito, con il regime dei venti dominanti, con le variazioni climatiche e, più in generale, con le consuetudini di vita consolidate, al fine per ciò che riguarda questo ultimo punto di ottenere una sostenibilità sociale. In qualche modo la firmitas, l’utilitas e la venustas sono anche esse del tutto interne alla questione della sostenibilità, che va intesa correttamente come la congruenza delle soluzioni proposte con la dimensione ecologica, nel quadro di quell’armonia tra natura e architettura che Paolo Portoghesi sta recentemente riproponendo come una alleanza primaria e permanente, anche se da riformulare secondo nuovi parametri. Ovviamente se è vero che la sostenibilità è connaturata all’architettura, è anche vero che non sempre la fondamentale alleanza di cui parla Portoghesi è stata rispettata. Indubbiamente l’architettura moderna ha più volte contraddetto
tale accordo dando vita a edifici che non solo hanno comportato un forte dispendio energetico, ma che soprattutto hanno dissolto nella loro immagine autoreferenziale
quell’assonanza con la natura e con la vita delle comunità che era durata per millenni senza, peraltro, riuscire a negarla del tutto.

Avatar Architettura, TIME SWAP ©, Total Integral Market
Autocostruzione in bambù. Fase 3

Ma0/emmeazero, Continuicity
La galleria urbana del museo

Ma0/emmeazero, Continuicity
Accesso ad una corte di un isolato residenziale

Molti problemi derivanti di una risposta insufficiente degli edifici del Ventesimo Secolo alle questioni della sostenibilità non dipendono tanto dalla modernità nei suoi versanti stilistico e tipologico quanto dal modo con il quale è stata concepita la tecnologia, profetizzata da critici come Reyner Banham o Richard Buckminster Fuller come una dispendiosa estensione del macchinismo all’architettura, con la conseguente dispersione di energie non rinnovabili. È per inciso curioso che molti si rivolgano oggi all’high-tech per risolvere una situazione negativa causata proprio dalla tecnologia la quale, con il suo spirito demiurgico e la sua congenita atopia, ha scavato un solco profondo tra i fini del costruire e i mezzi per ottenerli, anche se è riuscita indubbiamente a proporre a livello di massa un’idea suggestiva e avventurosa
del futuro.
Nel dibattito architettonico contemporaneo la sostenibilità, non sempre inquadrata all’interno delle considerazioni appena esposte, ma da più parti ritenuta una nuova componente dell’architettura – la componente più importante, tra l’altro – si propone come un fatto strutturale, ideologico ed etico. In qualche modo la sostenibilità, che presuppone
per inciso la discutibile trasformazione dell’architettura in un fenomeno ambientale, si propone come un luogo concettuale e operativo antipolare rispetto all’assetto consolidato dall’architettura moderna, un luogo essenzialmente alternativo e rifondativo che obbliga a vedere il piano della forma da un punto di osservazione esterno e distante. Ciò che prevale è una sorta di neofunzionalismo totalmente immerso nell’ambientalismo, divenuto oggi una vera e propria ideologia, questa sì nuova, attraversata da consistenti motivazioni etiche.
I problemi che l’architettura moderna non è riuscita a risolvere e che ne hanno compromesso in molti casi il progetto, sono così riportati all’interno della stessa architettura contemporanea, ritenuta non l’oggetto di processi degenerativi, ma l’origine stessa di questi. Alla dimensione strutturale, ideologica ed etica della sostenibilità si somma il suo essere proiettata su tre emergenze. La prima è quella comunicativa. Essa riguarda soprattutto il consenso necessario per
qualsiasi intervento, un consenso che richiede oggi la costruzione complessa di una strategia condivisa, concordata tra una pluralità di soggetti sociali, costruita attraverso una pluralità di passaggi istituzionali, consultivi e tecnici. La seconda emergenza è quella energetica la quale, se mette giustamente in evidenza l’esistenza del problema di un prossimo esaurimento delle risorse non rinnovabili, proietta queste previsioni su scenari talmente catastrofici da risultare, spesso,
controproducenti. La terza emergenza è quella sociale – si pensi alla rivolta delle banlieu parigine del 2005 – consistente nel fatto che gli insediamenti urbani moderni, specialmente quelli periferici, costituiscono nel loro complesso sistemi di non luoghi che producono disgregazione, aggressività, disorientamento e sradicamento.

Santo Giunta, Gli orti dell’ozio creativo
Viste prospettiche

 

In un discorso sulla sostenibilità che non voglia essere ridotto ai soli aspetti ideologici e tecnico-emergenziali, assume un ruolo importante la relazione tra la forma e la storia. Molti architetti, tra i quali chi scrive, credono che la sostenibilità sia sempre stata un aspetto essenziale dell’architettura, ma ciò non comporta necessariamente che le soluzioni che nel corso del tempo sono state date ai problemi posti dalla costruzione di un edificio debbano essere sempre le stesse.
Roger Scruton e Mikos A. Salingaros sono ad esempio convinti che esistano regole che si sono trasmesse nel tempo e che occorre sempre rispettare. Secondo loro non ci sarebbe alcun bisogno di modificare l’insieme delle risposte tecniche e linguistiche relative alla costruzione di un edificio. Tale concezione fondamentalista dell’architettura non è convincente. Un conto è rispettare le esigenze connesse alla definizione di un abitare armonico e coerente, un altro è ritenere che questo obbiettivo possa essere raggiunto in una sorta di arresto del tempo. Il problema è piuttosto quello di conciliare le modalità contemporanee di creare la forma – modalità che hanno registrato la condizione frammentaria, provvisoria, contraddittoria e accelerata dalla modernità, una condizione che la postmodernità non ha corretto in modo significativo – con la necessità che l’architettura torni a rispettare la natura come ha fatto per millenni, prima che la rivoluzione industriale alterasse il ciclo vitale del pianeta. Da questo punto di vista la domanda riguardante ciò che c’è
oltre la forma non può avere altre risposte che, di nuovo, la forma. Oltre la forma ancora la forma, dunque, come orizzonte necessario di ogni architettura che voglia essere veramente tale, un’architettura nella quale la sostenibilità non si avverte più come qualcosa di esterno e di isolato perché insita in ogni suo aspetto, trascesa in quella totalità in cui essa si invera.

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Archeoclub d’Italia
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al servizio dei beni culturali e ambientali

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