Estote prudentes

LA GESTIONE DEI BENI CULTURALI ECCLESIASTICI

Sulla strada della collaborazione tra Stato e Chiesa per la cura dei beni culturali, molti, significativi, importanti passi sono stati mossi negli ultimi 10 anni. Ma molto ancora resta da fare, se si vuol garantire la miglior conservazione dei beni da un lato e dall’altro se si vuole che essi non vengano decontestualizzati o addirittura impropriamente sottratti al luogo e agli scopi per i quali furono concepiti. Ce ne parla Mons. Giancarlo Santi, Direttore dell’Ufficio Beni Culturali della Conferenza Episcopale Italiana.


Qual è il modo in cui dovrebbe idealmente svilupparsi la cooperazione tra Autorità civili ed ecclesiastiche sul delicato tema dei beni culturali?
In primo luogo è bene osservare che la collaborazione tra Stato e Chiesa si sviluppa in modo assai articolato. Alla base sta la conoscenza reciproca: su questa si innesta il mutuo rispetto e la reciproca stima. Su questo presupposto l’intesa raggiunta nel ’96 per la conservazione dei beni culturali, pone al primo posto la più ampia e vasta informazione. (L’intesa del ’96 è oggi in corso di attuazione: essa traccia una strada che va percorsa e che richiede la promozione di un atteggiamento aperto e collaborativo. Naturalmente molta strada resta da fare.) In particolare l’intesa prevede che le Diocesi informino le Soprintendenze quando intendono realizzare interventi di qualunque tipo che interessino i beni culturali. Ancora: le diocesi sono (in vario modo e con le molteplici difficoltà che incontrano nelle loro diverse realtà) impegnate nella inventariazione (e catalogazione) dei loro beni culturali e ne dovrebbero informare periodicamente le Soprintendenze competenti.
Nel campo del restauro vi sono le stesse difficoltà?

Il restauro di oggetti (mobili e immobili) di proprietà della Chiesa può essere promosso sia dallo Stato sia dalla Chiesa. L’intesa del ’96 prevede un incontro annuale tra i Vescovi e le Autorità statali per promuovere l’informazione reciproca, e la reciproca conoscenza. Sono stati compiuti molti passi in avanti, ma molto resta ancora da fare; in numerosi casi l’incontro viene promosso ma in altri le Soprintendenze si muovono come se nulla fosse cambiato.
Quali sono gli altri punti previsti nell’intesa? L’intesa prevede la programmazione concordata degli interventi e, là dove è possibile, anche la loro realizzazione in collaborazione. Vi sono casi dove già si è raggiunto un più elevato livello di collaborazione?

Mons. Giancarlo Santi In alcuni casi si è raggiunto un più alto livello, ad esempio in occasione del Giubileo del 2000. Vi sono altri casi dove siamo ancora molto indietro. Ma direi che questo è un fatto normale: in ogni famiglia, anche in quelle più affiatate, possono sorgere difficoltà. Quel che conta è che vi sia la volontà di camminare assieme e questa volontà, fortunatamente, non manca. Siamo solo all’inizio. Vi sono diversi casi problematici, in cui le scelte e le decisioni vanno bene calibrate perché può capitare che il tentativo di collaborare porti a conflitti.
Quali sono le cause delle difficoltà?

Direi che da parte della Chiesa vi sia una carenza di mezzi e spesso anche di preparazione del personale. Da parte delle Autorità pubbliche talvolta si nota un atteggiamento che tende ad escludere la Chiesa dalla gestione di beni che pur tuttavia le appartengono. È evidente che se lo Stato, in tutte le sue articolazioni territoriali, si presenta come l’unico soggetto in grado di conservare il patrimonio, questo provoca una reazione di chiusura da parte degli uomini di Chiesa…
Può specificare meglio?

Prendiamo il caso di oggetti d’arte conservati in edifici ecclesiastici che non garantiscono una condizione adeguata per la conservazione né per la sicurezza di fronte alla minaccia di furti. In questi casi è legittimo depositare temporaneamente tali beni presso musei, anche di carattere civile o statale, perché si provveda alla loro conservazione e alla loro sicurezza, nell’attesa che il luogo di provenienza venga reso adatto a ospitarli. Ma in casi come questo può accadere che l’autorità civile, interessata a mantenere un’opera che arricchisce le proprie collezioni e che rende appetibile un museo che prima non lo era, sia tentata di ritardare o addirittura di negare la restituzione del bene al legittimo proprietario. Tale comportamento, purtroppo non infrequente, costituisce una espropriazione di fatto. Vi sono stati anche casi di opere di proprietà ecclesiastica prestate per mostre allestite in spazi civici e non più restituite, col pretesto che l’edificio ecclesiastico dal quale le opere provenivano non era adeguato. Anche in questo caso siamo di fronte a un vero e proprio esproprio, aggravato dal fatto che l’impegno di restituire le opere prestate per la mostra, non viene rispettato.
E allora che dovrebbero fare le chiese?

Dovrebbero in primo luogo conservare le loro opere in modo corretto ed evitare di depositarle nei musei civici e statali. In secondo luogo le Diocesi dovrebbero dotarsi di musei adeguati al ricovero di opere d’arte che per motivi di conservazione o di sicurezza è meglio non stiano nel loro luogo di origine. In questo caso il bene resta nella disponibilità della Chiesa e può essere restituito al luogo di origine con maggiore facilità; non solo, può, nell’occasione di celebrazioni di particolare importanza, essere riportato temporaneamente dal museo alla sua funzione nell’ambito del culto. Questo, nel caso l’oggetto sia depositato in musei di proprietà civica o statale, spesso non è più possibile.
E così l’oggetto resta come se fosse alienato…

Vittima di un duplice sradicamento: dal luogo naturale e dalla funzione, liturgica o devozionale, che gli è propria.
In quali condizioni si ritengono accettabili i depositi in musei civici o statali?

I documenti della Chiesa escludono del tutto il deposito presso musei non ecclesiastici. L’esperienza insegna che questa scelta è quasi sempre fonte di conflitti. Se l’ente pubblico vuole aiutare la Chiesa, dovrebbe piuttosto contribuire affinché la Chiesa stessa sia messa in grado di conservare, restaurare e mantenere direttamente i propri beni. Il patrimonio va conservato il più possibile vicino al luogo e alla funzione per il quale è stato pensato e realizzato.
In conclusione?

Fermo restando che vi possono essere casi eccezionali, la Chiesa dovrebbe usare la massima cautela e oculatezza nella conservazione e nella gestione dei propri beni. Occorre evitare che vengano alienati “di fatto”. La collaborazione con le Autorità civili deve esser sviluppata rispettando ambiti e competenze, con grande realismo e trasparenza. È importante, imprescindibile, fondamentale che maturi una migliore collaborazione. Ma la collaborazione non deve giungere alla cogestione dei beni o alla loro decontestualizzazione istituzionale.
Leonardo Servadio

 

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