E’ in scena IL CAMINO

Invitiamo i nostri lettori a leggere con attenzione questa gustosissima cronaca che vede “IL CAMINO”, protagonista della Commedia Italiana. Abbiamo Arlechino, questa maschera bergamasca che calcando il palcoscenico veneziano non può fare a meno di mettere in scena ‘il camino’ arricchito di tutta l’attrezzatura per dare realismo ai suoi banchetti prelibati che sono già di per se stessi occasione di divertente spettacolo… ve lo immaginate Arlechino con in bocca una coscia di pollo ben arrostita…! Cosciotto profumato e cotto a puntino!

"Posseggo un libriccino rilegato in pergamena- roba da bibliomane ghiotto- che s’intitola ‘La Vie de Scaramouche.
Par le Sieur Angelo Costantini, Comédien Ordinaire du Roy dans sa Troupe Italienne, sous le nom de Mezetin’ e porta la data del 1695. In questo raro volumetto, che ha spesso un curioso sapore di libello, è descritta, alla maniera romanzata, la vita del più grande comico italiano della Commedia dell’Arte, cioè di Tiberio Fiorilli, che, col nome di Scaramuccia, è passato alla storia come mimo perfetto e insuperato e – si vuole- come il “maestro di Molière”.
In uno dei primi capitoli di questo libercolo, è narrato in qual modo il giovane napoletano, salito più tardi in così alta fama in tutta Europa, fece il suo ingresso nel teatro e diede la prima rivelazione del suo genio comico. Merita raccontarlo.

Cucina per il pranzo dello "Zanni" che prende moglie. (Antica stampa del seicento in cui sono i personaggi della prima commedia dell’arte: lo Zanni Zaccagni, Graziano, la servetta Nespola e la signora Balzarina.

"Fuggito da Civitavecchia per un perfido e non certo onesto tiro giocato a due turchi e per non finire sotto le loro vendette e poi nelle mani degli sbirri, Tiberio Fiorilli arrivava, non sappiamo precisamente in quale anno, a Fano, male in arnese e stanco, per aver fatto la lunga strada a piedi, ed affamato. Doveva essere mezzogiorno, perché il sole stava alto e dalla locanda nella piazza della cittadina adriatica veniva un buon odore sano di vivande.
Il viaggiatore fu lì lì per entrare ma poi si sovvenne che nella scarsella non aveva il becco d’un quattrino e si sedette estenuato sopra una banchina di pietra, presso il giardinetto dell’albergo. Là dentro alcune persone, dei comici, discutevano animatamente del grande imbarazzo in cui si trovavano per la improvvisa fuga d’un attore che certo ricopriva nella compagnia un ruolo importante. I poveretti non sapevano come rimediare per quel giorno. Tiberio
Fiorilli, udito che si doveva rappresentare Il convitato di pietra, un rozzo rifacimento italiano della celebre commedia di
Tirso da Molina che egli aveva sentito recitare a Roma, e ricordato che nel secondo atto del lavoro c’era anche un festino, non mise tempo in mezzo. Si presentò ai commedianti, disse che egli pure era un comico; che veniva da Napoli; che per strada era stato derubato di tutto dai briganti; che aveva già recitato a Roma, a Napoli, a Palermo nel Convitato di pietra, sostenendovi la parte di Zarcagnino, da lui trasformato in un personaggio dialettale e buffonesco di smargiasso pauroso e ingordo cui aveva imposto il nomignolo di Scaramuzza. Come non fargli credito? I comici si rallegrarono con lui e col caso che l’aveva condotto proprio in quel giorno tra loro; e senz’altro decisero di fare una prova. L’improvvisato attore giocò ancora d’audacia. Dandosi arie da commediante consumato e di grido, volle che gli altri recitassero per intero la parte, diede consigli, suggerì mutamenti, e mentre a questo modo s’orientava su quello che era il suo ruolo, ostentava di non poter sciupare le sue energie dopo il lungo e fortunoso viaggio. Giunse così l’ora della recita. Più affamato che mai, il poveretto scelse un modesto abito da pedagogo, con una berretta floscia, tutto quanto nero da cima a fondo, adatto al suo corpo, alla parte e soprattutto al suo umore, ch’era quel giorno, più scuro
d’un cielo in tempesta, e l’indossò.

Pulcinella, la maschera ghiotta e ingorda, in una stampa di Pietro Leone Ghezzi del 1780. Vi son raffigurate le nozze del figlio di Pulcinella, con Maccheroni, canti e danze.

Ma quando vide, tra le quinte, la tavola imbandita che doveva servire per il festino del secondo atto, e s’accorse che
le vivande apparecchiate erano di cartone e di stoppa, all’immediato scoramento seguì nell’animo suo un grande furore. Si diè a gridare che tutti erano dei pezzenti istrioni, che un attore come Scaramuccia non avrebbe mai recitato la scena del festino leccando un pollo di cartone e fingendo d’ingoiare delle salsiccie di stoppa; che la verità era la grande maestra della scena… Si cercò di placarlo: inutilmente. Da troppe ore Tiberio Fiorilli faceva assegnamento
su quel banchetto, per rinunciarvi. Si dovette correre alla locanda, a prendere del pane, delle uova sode, e per espressa volontà di Scaramuccia, anche un pollo arrosto ed un boccale di buon vino. Pochi momenti dopo, lo spettacolo incominciava. Allorché Fiorilli apparve in scena, senza maschera sul volto pallidissimo, gli spettatori risero a vedere quella testa goffamente incassata nelle spalle e quel grande naso aquilino sopra la bocca aperta ghiottamente. Quella che era in lui impacciata avidità, parve sapientissimo gioco di consumato attore. Gli s’ingarbugliava la lingua, gli mancavano le parole ed a queste non riusciva a sostituire d’istinto che smorfie. Inconsapevolmente trionfava in lui il mimo napoletano; ed in platea si rideva. Poi, finalmente, venne la scena del festino, dove sulla paura di Scaramuccia ebbe il sopravvento un’ingordigia famelica. Le uova sparivano una dopo l’altra nella bocca vorace. Poi, fu la volta del pollo. Finalmente mangiava! Fiorilli non s’accorgeva più d’essere in mezzo a dei comici, davanti a degli spettatori; non vedeva più nulla, non sentiva che un bisogno animalesco di empirsi la bocca e lo stomaco.

La ghiottoneria di Arlecchino è raffigurata in questa incisione francese
dalla maschera bergamasca.

Quando il festino ebbe fine e il sipario si chiuse in mezzo ad uno strepitio d’applausi, Tiberio Fiorilli udì il capocomico che, battendogli la mano sulla spalla, diceva: "Per l’atto intero non hai parlato e hai detto grandi cose!".
Fiorilli capì: la paura e la fame avevano fatto di lui un grande attore. Senza saper come, aveva davanti la sua strada: non gli restava che continuare a percorrerla: la natura gli era stata maestra. Socchiuse forse gli occhi e forse in quell’attimo colui che doveva essere il ‘maestro di Molière intravide il suo luminoso destino’."

Giuseppe Maria Jonghi Lavarini

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Pubblicato in FARE

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