DOVE LA CITTÀ TROVA IL SUO CIELO

Progettare una nuova chiesa oggi non è semplice, perché l’architetto deve spesso inserirla in un contesto urbano già definito e quindi l’architettura non può non tener conto delle esigenze degli spazi esistenti, a cui a volte può essere tentata di chinarsi confondendo mimesi con contestualizzazione, oppure, all’inverso, contrapporvisi in tal modo correndo il rischio di ingenerare confusione.
Frosinone è una città cresciuta negli anni forse più secondo le esigenze del momento che seguendo un piano regolatore definito, che potesse permettere alla città di esprimere le sue potenzialità: non è in questo diversa da moltissime altre città italiane, che l’ondata di edilizia massiva degli ultimi decenni ha schiacciato entro una logica da “non luogo”, straniante rispetto alle radici e al “genius loci”.
La chiesa di San Paolo Apostolo si inseriva in un quartiere nascente, accanto a una strada di grande scorrimento e all’interno di un contesto che necessitava un centro pastorale di un certo interesse, fruibile anche a livello diocesano, oltre che parrocchiale: il programma era quindi di ottenere un progetto altamente rappresentativo, capace di evocare alcuni dei tratti caratteristici della città, riassumendoli e traducendoli in un linguaggio espressivo coerente coi tempi correnti.
Da queste richieste è sorto questo complesso che si staglia con una sua originalità.
La circolarità della forma architettonica permette all’assemblea di partecipare alle celebrazioni manifestando quell’unità e quella comunione che la comunità parrocchiale riunita attorno all’altare dovrebbe poi esprimere nella vita. Anzi, si potrebbe quasi  affermare che la visione stessa della chiesa aiuta chi la osserva dall’esterno a  comprendere come lo spazio della vita cittadina dovrebbe essere tale da suggerire una più marcata uniterietà: la “civitas” si manifesta là dove si ricompongono le divisioni e le contraddizioni della vita quotidiana, per rendere possibile quel convivere che fa l’essenza di una città.Internamente l’assemblea compone come un grande abbraccio, le cui mani sembrano allungarsi passando per l’ambone fino all’altare, dove si consuma il sacrificio di amore del Cristo. E dietro l’altare, l’apostolo Paolo chiama tutti a lavorare per costruire quell’unico corpo, la Chiesa di Cristo, di cui egli ci ha parlato in modo così profondo nel capitolo 12 della prima Lettera ai Corinzi. Ma, per esservi parte, è necessario il passaggio della conversione, del cambiamento di se stessi che Paolo esperimentò e che viene rappresentato nella caduta da cavallo.
L’architetto Lisi ci ha offerto così uno spazio pensato, semplice nella sua configurazione, di facile lettura anche per chi è poco abituato a soffermarsi per indagare il significato profondo delle forme e delle architetture.
La chiesa si inserisce così, con la sua circolare autorevolezza, in un quartiere cittadino che lentamente sta assumendo un carattere sempre meglio definito e il centro parrocchiale, articolato nei suoi molteplici spazi che hanno anche valenza culturale, educativa, preliminare e introduttiva del cammino di vita cristiano, offre servizi che forse altrove non sarà più possibile realizzare a causa della crescita selvaggia della città.
Si potrebbe dire perciò che la chiesa ha avuto la sua funzione profetica: permettere quell’unità simbolica e reale, almeno per coloro che la frequentano, che rende non più anonima la vita nella città, ma che soprattutto indica che siamo tutti fatti per vivere gli uni accanto agli altri e non gli uni contro gli altri. La sua forma circolare, che richiama il divino, ci svela che l’essere umano non può vivere solo con lo sguardo rivolto alla terra, ma ha bisogno del cielo, di Dio che si rivela ogni volta che noi lo ascoltiamo e ci rivolgiamo a lui nella preghiera.
Cielo evocato da Danilo Lisi con l’azzurro delle pareti e con la particolare attenzione assegnata alla luce che si diffonde nell’ampio volume della chiesa dalle molteplici aperture, lungo le pareti che inondano l’ambiente per ogni dove generando un’atmosfera autenticamente “celeste”, quasi dando l’idea concreta, tangibile, di una dimensione “altra”.In questa capacità evocativa, tale da generare accostamenti, suggerire immagini, comunicare per via emotiva concetti profondi ed elevati, riconosciamo il senso di un’architettura che è chiamata non solo a definire uno spazio ospitale e significativo sotto il profilo liturgico, ma anche a farsi simbolo: quindi a sapere autenticamente “comunicare”, mettere in relazione, indicare che siamo vocati, in quanto cristiani, ben al di là dello spazio visibile. Come canta Dante cominciando il suo cammino nel Paradiso:

“Surge ai mortali per diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci,
con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella” (Par. 1, 37-42)

In questa chiesa vediamo proprio l’intrecciarsi di figure cruciformi (dalla porta alla struttura lignea della copertura, alla trama geometrica che si manifesta lungo la parete continua perimetrale) entro la circolarità di un afflato di luce.
Quest’ultima infatti è uno dei motori propulsori dell’intero progetto: una serie di aperture puntiformi sulle pareti, tre lanterne vetrate in copertura, oltre al rosone, fanno penetrare nell’aula ecclesiastica una luminosità suggestiva, che genera un’atmosfera di
grande sacralità.
L’effetto chiaroscurale interno, cangiante a seconda delle ore del giorno, crea uno spazio altamente mistico e spirituale in cui il fedele può meditare e ?rasserenarsi in Cristo.

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